di Rebato Farina
Detto Mino, Bartoli, classe 1920. La sua è una storia bellissima: quella di un uomo coraggioso. Un ingegnere. Comandante partigiano alla testa di duecento uomini, sciatori provetti nelle alte valli orobiche. Ma è anche una storia bruttissima: quella di un'Ita lia fasulla, la quale ha discriminato (...) (...) e perseguita ancora un grande comandante partigiano, ma anticomunista. Perciò emarginato, trattato da bugiardo, osteggiato, senza medaglia e senza inviti a parlare il 25 aprile.
Bartoli, detto Mino, il terzo da sinistra, nel Marzo del 1945
La sinistra compatta, con i suoi alleati ex democristiani, ha inflitto di recente l'ultima ingiuria a questo antico signore. Il sindaco di Bergamo, Roberto Bruni, ha inflitto al Bartoli l'ultima umiliazione alcuni mesi fa. Nonostante non ci potessero essere più dubbi sul suo eroismo (a differenza dei comunisti che a Bergamo non c'erano sulle montagne), nessun riconoscimento, niente, zero. Nessuno stupore da parte di Bartoli, il quale ricorda che Bruni, per essere eletto nel
2004, ha chiesto e ottenuto appoggio contemporaneamente dall'Anpi (partigiani comunisti, capeggiati da «un presidente che non ha mai fatto il partigiano»), dai centri sociali e - ahimè - dalla Curia.
Truffa Costante
Non è stata una dimenticanza. Il consigliere leghista Daniele Belotti lo ha proposto, stavolta con in mano carte riservate e decisive che ne attestano l'eroismo. Figuriamoci. Ora rimedia il Comune di Caravaggio: il sindaco Giuseppe Prevedini lo premierà. Ma che tristezza questa truffa costante, la menzogna storica insegnata ai ragazzini sulla resistenza. Quando scende dalle montagne, il 25 aprile del 1945, Bartoli è allegro. Festa dovunque. Vede in giro gente che ha fatto niente o quasi, salvo mostrarsi all'ultimo momento per eliminare nemici personali o per far fuori la classe dirigente antifascista sì ma non comunista. Bartoli impedisce delle esecuzioni sommarie. È sgomento per le stragi di Urgnano; per quella di 43 ragazzini di Rovetta, sedicenni o poco più appena inquadrati come "legionari" di Salò : fucilati dopo che era stata loro promessa la vita.
In tutti questi anni non ha mai voluto intervenire alle celebrazioni della Liberazione, impostate com'erano sulla menzogna storica. Si era reso conto di come i bravi ragazzi delle formazioni garibaldine fossero stati indottrinati e addestrati per eliminare più ancora che fascisti e nazisti i possibili futuri antagonisti. Bartoli racconta di come mise insieme i suoi soldati: campioni di sci e di atletica, lo elessero capo. Erano di Giustizia e Libertà. Si intitolarono "Cacciatori delle Alpi 2° Dio sciatori", secondi solo a Dio. Alpini.
Erano pieni di allegria. La loro prima azione per procurarsi armi produsse la cattura di dodici fascisti. Questi pensavano di essere fucilati. Invece dopo averli trascinati in montagna, Bartoli li
congedò con una stretta di mano. Saltavano dalla gioia, non ci credevano.
Poi la guerra si fece tremenda. Mai azioni che potessero causare rappresaglie nelle valli. Sempre esposti in prima persona, a volte con baldanza temeraria. Si rese conto, il Bartoli, che dovevano fronteggiare anche assurdità. Un commissario politico garibaldino fu condannato a morte perché impose il saluto militare invece del pugno chiuso. Bartoli fu catturato in via De Togni a Milano, nel deposito d'armi di Giustizia e Libertà, a causa di una soffiata (il sospetto è
siano stati i "rossi"). Scappa, ma è ferito. Non lo finiscono perché credono sia utile a fornire notizie. Fugge dall'ospedale quando stanno per fucilarlo. Una fuga incredibile. Scappa con il suo compagno Cerea, tutto ingessato. Lo tiene per le gambe e quello cammina con le mani, come un muratore con la carriola. Chiedono invano soccorso a un prete, che scappa a gambe levate, alle suore, che sbattono loro la porta in faccia. Li accolgono le infermiere.
Ritornano in montagna. Ci sono partigiani specialisti nel quieto vivere. Non fanno nulla. Stanno calmi, in attesa di beneficiare del post fascismo. Bartoli scrive una lettera al comandante generale durissima. Finiva così: «... è facile fare la resistenza stando in albergo e criticare chi rischia!».
Noi ragazzi gli andavamo dietro pieni di fiducia. Non ci ha mai deluso. L'ho visto la settimana scorsa per la prima volta dopo quarant'anni anni. Sorridente: era ancora lui».
Senza Onori
Dunquenessun riconoscimento, nessun attestato. Intanto una ricercatrice, Grazia Spada, nipote di uno dei ragazzi ammazzati a Rovetta, vuol sapere di più sulla lotta partigiana nella Bergamasca. Lavora negli archivi di Londra. Nell'incartamento HS 6/865, intestato "Mission Homestead" trova una relazione ufficiale firmata dal comandante britannico R. H. Pearson, che aveva monitorato con severità la nostra Resistenza. Scrive su Bartoli inquadrandolo così: «Ranieri, alias Bartoli, il Comandante, è molto giovane, ma sa come ispirare i suoi uomini e farsi amare da loro, dando un esempio di comportamento coraggioso e di sprezzo del pericolo, e di autostima. Ha una figura elegante, con l'aria di un sognatore, ed è stimato come uomo giusto, generoso e difensore della libertà. Può essere ben descritto con la formula con cui i suoi uomini gli si rivolgevano: "Comandante, portaci a morire"».