Carlo Fecia di Cossato - Ricordo dell'eroe di Franco Malnati
Commemorazione
"Io parlerò del “combattente fedele”.
Fedele, a chi ed a che cosa?
Fedele al Re Vittorio Emanuele III, al quale aveva prestato giuramento, ed alla istituzione monarchica, nella quale identificava la Patria.
L’espressione di questa fedeltà la troviamo in un breve trafiletto che si può reperire nei quotidiani usciti il 31 agosto 1944 nell’Italia del Centro-Sud (dalla Linea Gotica in giù). Io l’ho tratto dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari.
Si tratta, in tutta evidenza, del testo di un comunicato governativo, datato “Roma, 30 agosto”. Il titolo è: “Il suicidio in fortezza di Carlo Fecia di Cossato”.
Il comunicato dice quanto segue.
“Il Conte Carlo Fecia di Cossato, uno dei più noti comandanti di sommergibili, si è suicidato due giorni fa a Napoli. Dopo la liberazione di Roma, il comandante Fecia di Cossato chiese di essere esonerato dal comando perchè il nuovo Gabinetto Bonomi aveva rifiutato di giurare nelle mani del Re. Poichè, intanto, questo suo gesto rappresentava un atto di insubordinazione in tempo di guerra, il comandante Di Cossato fu condannato a tre mesi di arresti in una fortezza di Napoli, dove metteva fine alla propria vita.”
Giova rilevare che la versione governativa è inesatta nell’ultima parte, dove si afferma che vi era stata una condanna per insubordinazione, da scontarsi in fortezza, e che appunto in fortezza era avvenuto il suicidio.
Fecia di Cossato, in realtà, era stato sospeso dal servizio, ed allontanato da Taranto che era la sua base operativa, solo perché la sua vicenda aveva provocato una spontanea rivolta della Marina, e il ministro De Courten, fortemente preoccupato, temeva che il valoroso comandante, col suo prestigio, si mettesse alla testa di un movimento ostile al governo e favorevole alla Monarchia.
Questo non era certamente nelle intenzioni dell’interessato. Non era un politico, non era un intrigante, non aveva pensato neppure per un attimo ad iniziative tribunizie. Agiva d’impulso, seguendo i dettami della propria coscienza adamantina. Obbedì all’ordine, lasciò Taranto e si portò a Napoli. Era libero, non agli arresti in fortezza. Andò anche a Roma, cercò contatti, espresse la propria amarezza e il proprio dolore, si ritrovò solo, e alla fine, sopraffatto dall’angoscia per quanto stava accadendo, consumò in un attimo il proprio sacrificio, dando la vita in olocausto alla sventura dell’Italia.
Come giudicare l’odioso e gelido comportamento del governo di fronte ad un dramma umano e patriottico di quelle dimensioni? Come spiegare la bassa menzogna con la quale si voleva chiaramente infangare la sua figura di soldato, facendolo apparire quasi un disertore attraverso l’accusa di insubordinazione in tempo di guerra, e dando al pubblico l’impressione che il suicidio andasse attribuito alla vergogna per una inesistente carcerazione?
La risposta è facile.
Il governo voleva dare un esempio di durezza e di rifiuto nei confronti di quegli italiani che si fossero permessi, allora e in seguito, di contestare la sua pretesa di monopolizzare il potere in Italia.
E qui dobbiamo andare alla radice della questione.
Cosa era accaduto “dopo la liberazione di Roma”?
Vi era stato quello che chi vi parla ha definito, nel suo libro “La Grande Frode”, il primo colpo di Stato, e che causticamente potrebbe chiamarsi “il colpo di Stato del Grand Hotel di Roma”.
Occupata Roma dagli anglo-americani il 4 giugno 1944, doveva attuarsi, per brutale imposizione dei vincitori, il cosiddetto “ritiro a vita privata” dell’anziano Re Vittorio Emanuele III°. Questa formula ambigua creava, di fatto, un vuoto di potere nella carica di Capo dello Stato, in quanto il Principe Umberto, nominato Luogotenente, aveva una posizione provvisoria, e quindi istituzionalmente debolissima.
Il Re aveva subito la soluzione impostagli solo ed esclusivamente per non aggravare, con suoi problemi personali, la delicata situazione internazionale della Patria, ed aveva comunque subordinato la sua acquiescenza al riconoscimento, per una questione di dignità, del suo diritto ad effettuare il trapasso dei poteri in Roma, al Quirinale.
Ma gli anglo-americani stracciarono quell’accordo, e, non appena occupata la Capitale, imposero al Sovrano di ritirarsi immediatamente, senza andare a Roma. Essi sostennero che la cessione dei poteri era urgente, e che a Roma il Re non poteva arrivare per ragioni di carattere militare e di sicurezza. Vittorio Emanuele resistette, ma non fu sostenuto da Badoglio, il quale gli dichiarò formalmente, quale Capo del Governo, che non era possibile opporsi alla volontà degli americani e degli inglesi. Solo di fronte a tale dichiarazione, il Re firmò il documento che gli veniva sottoposto.
Badoglio, convinto che il solo cambiamento comportato dall’occupazione di Roma fosse la sostituzione di Vittorio Emanuele III° con il Principe Umberto, si recò subito a Roma allo scopo di prendere contatto con gli esponenti di quel Comitato di Liberazione Nazionale, che appartenevano agli stessi sei partiti che formavano il suo governo.
Egli pensava di dovere dare soltanto delle dimissioni “pro forma”, e di poter costituire facilmente un nuovo governo includendovi nuove personalità, sempre dei sei partiti, per presentarlo poi al Luogotenente e proseguire la sua attività, come aveva fatto nei due mesi che erano trascorsi dalla “svolta di Salerno”.
Arrivato a Roma, trovò riuniti al Grand Hotel, in Piazza Esedra, gli alti papaveri romani dei partiti, appena usciti trionfanti e pimpanti dalla clandestinità (che, per quasi tutti, era consistita in un comodo soggiorno in Vaticano). Costoro non lo lasciarono neppure parlare. Gli dissero subito che la sua persona non era gradita. Che il nuovo governo dell’Italia liberata era rappresentato da loro, o meglio dalle loro persone e dai loro partiti, in parole povere dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Che poteva andarsene tranquillamente da dove era venuto, cioè a Salerno, e che i membri del governo da lui presieduto, essendo tutti esponenti dei sei partiti, dovevano ormai considerarsi candidati a partecipare alla formazione del nuovo ministero che loro, a Roma, avrebbero costituito senza chiedere nulla nè a lui, Badoglio, nè al Luogotenente. Questo anche perchè compito fondamentale del nuovo governo sarebbe stato di mettere in discussione la forma istituzionale, demandando al popolo la decisione su di essa.
Così Badoglio, che aveva appena indotto il Re a sacrificarsi per un più alto ideale, si trovava di colpo lui pure spiazzato ed esautorato con un colpo di mano del tutto inatteso ed imprevedibile, che passò quasi inosservato nell’opinione pubblica italiana e mondiale in quanto, contemporaneamente, dal 6 giugno in poi, era iniziato il grande sbarco “alleato” in Normandia, e tutti gli occhi erano puntati sulla gigantesca battaglia in corso sul suolo francese.
Lo stesso Primo Ministro britannico, Winston Churchill, che fino a quel momento si era fermamente opposto alle furibonde spinte repubblicane della coalizione dei vincitori della guerra, fu colto completamente di sorpresa: aveva distolto per un attimo la sua attenzione dall’Italia, ed era bastato perchè alle sue spalle si realizzasse un ”fatto compiuto” di estrema gravità. Appena se ne rese conto, tentò di rimediare con un duro intervento polemico, ma riuscì soltanto ad ottenere un compromesso del tutto insoddisfacente, che, pur mantenendo la figura del Luogotenente quale Capo dello Stato provvisorio, lasciava tuttavia tutti i poteri effettivi di governo nelle mani del CLN.
In tal modo, era nato il governo presieduto dal debole Ivanoe Bonomi, ostaggio nelle mani dei partiti della sinistra politica, impegnati a fondo nel preparare l’avvento della Repubblica e l’abbattimento della Monarchia. E i membri di quel governo, non eletti da nessuno, installatisi nei posti chiave dello Stato con un basso intrigo sostenuto dallo straniero, quando si era trattato di compiere il consueto atto formale che consisteva nel giurare fedeltà al Capo dello Stato, si erano rifiutati di giurare, ed avevano inventato, il 12 giugno 1944, una formula anòdina di impegno generico ad operare “nell’interesse supremo della Nazione”.
Il popolo italiano, occupato a sopravvivere in mezzo a stragi e tragedie di ogni genere, non capì nulla dell’accaduto. La classe politica, complice e soddisfatta, mise la sordina. Il Re, solo ed abbandonato da tutti, si chiuse nel suo dolore, e si preparò a sopportare, dopo la morte civile e l’umiliazione, la prossima morte fisica: il suo cuore affranto non avrebbe potuto reggere, e non resse.
Un uomo, un uomo solo, in quell’Italia del Centro-Sud dove ormai vincevano il tradimento e l’opportunismo, seppe opporsi con coraggio e lealtà: Carlo Fecia di Cossato.
Quando, nella base di Taranto, i comandanti di Marina si trovarono riuniti per ascoltare la notizia della nuova situazione, nel silenzio attonito generale, il valoroso sommergibilista pluridecorato fece un passo avanti, e parlò con fermezza: “No, signor Ammiraglio. Io non riconosco la legittimità di un governo che ha rifiutato di giurare nelle mani del Re. Io ho fatto il mio dovere per osservare il mio giuramento. Se ora questo giuramento non ha più valore, chiedo di essere esonerato dal mio comando.”
Parole come macigni.
Gli equipaggi della Marina ne furono colpiti profondamente. E subito divampò la rivolta, l’ammutinamento. Il governo ebbe paura, e si affrettò a chiedere l’aiuto dei suoi amici all’interno del blocco anglo-americano: c’era la guerra, l’Italia era “cobelligerante”, non venivano tollerati disordini dietro la linea del fronte. Il moto fu represso. Ma Taranto e i suoi marinai restarono una spina nel fianco della fazione repubblicana: non per nulla, anche immediatamente prima e dopo il referendum, in quella città vi furono scontri violentissimi tra monarchici e repubblicani, con gran numero di morti e feriti da ambo le parti.
Il resto è noto.
Il comandante Fecia di Cossato non aveva fatto nulla perché i marinai si ammutinassero, ma il ministro della Marina De Courten lo tenne responsabile, non, ovviamente, di insubordinazione (sarebbe stato troppo!), bensì di avere rotto, col suo gesto, l’omertà e il conformismo nel quale lui stesso si era adagiato. Non lo chiuse in fortezza; si accontentò di accogliere la sua richiesta di esonero, trasformandola in sospensione dal servizio ed allontanandolo da Taranto.
Il combattente fedele fu travolto dalla delusione e dalla disperazione. Non poteva più vivere in un’Italia diversa da quella che aveva conosciuto ed amato. E si tolse la vita.
Pietro Nenni, novello Maramaldo, scrisse sul suo giornale, con macabra ironia, che il Conte Di Cossato aveva fatto harakiri.
Ebbene, sì. Ha fatto harakiri, come un altro importante personaggio della storia militare italiana dell’ultima guerra, il Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero. In circostanze differenti, ma per lo stesso principio, di fedeltà al giuramento monarchico. A Cavallero il Maresciallo tedesco Kesselring aveva offerto, per incarico di Hitler e di Mussolini, il comando supremo delle Forze Armate della neonata Repubblica Sociale, quello stesso che poi fu accettato da Rodolfo Graziani. E Cavallero rifiutò, brindando, di fronte a Kesselring, alla “Maestà del Re d’Italia” .La notte successiva, dal 13 al 14 settembre 1943, si uccise nel Comando germanico di Frascati.
Fecia di Cossato e Cavallero, due harakiri per un giuramento e per un Re.
E’ un disonore, forse, come sicuramente opinano i sostenitori del “politically correct”? Mai più. E’ l’affermazione di valori altissimi, i medesimi a cui si è ispirato, nel tremendo 1945, il popolo giapponese. Nell’arrendersi ad un nemico preponderante, esso impose a quel nemico il rispetto per la sua Monarchia, custode delle tradizioni nazionali più sacre.
In quella occasione, in un Paese devastato da atroci e spietati bombardamenti aerei che avevano causato la morte di due milioni di civili, migliaia e migliaia di eroici combattenti fecero harakiri con solenni rituali, chiedendo perdono all’Imperatore per non avere saputo vincere!
Barbarie? No, amore per la Patria, impersonata dal Sovrano, il quale, come il Re d’Italia l’8 settembre 1943, chiese al suo popolo di accettare la sconfitta e di cessare di combattere per assicurare la salvezza e la sopravvivenza della Nazione. Perché il Monarca non è tale solo quando dichiara la guerra, bensì anche quando decide, nell’interesse di tutti, di mettere fine ad essa.
E la fedeltà giurata si realizza proprio nell’obbedire senza giudicare.
Ricordate il famoso telegramma “Obbedisco” di Giuseppe Garibaldi, nell’estate 1866? Giudicò forse Garibaldi la decisione di rinunciare al Trentino?
Si era forse ritenuto “tradito”, sempre l’Eroe dei Due Mondi (come oggi afferma un quotidiano cittadino, abbeverandosi alla fonte avvelenata di Denis Mack Smith e di Galante Garrone) per i fatti di Sarnico del 1862, imposti dalla ragione di Stato, che non consentiva in quel momento una prematura guerra all’Austria? Obbedì allora, come obbedì sempre, repubblicano di ideologia, ma rispettoso verso il Re.
Alla stessa stregua, nè Cavallero nè Fecia di Cossato si permisero di giudicare l’armistizio, o il Re che l’aveva autorizzato, o la partenza del Re da Roma per Brindisi. Rimasero fedeli, ed obbedirono, a costo della vita. Come l’Ammiraglio Bergamini, comandante supremo della flotta, come i novemila di Cefalonia, come i quarantamila internati militari che morirono nei lager nazisti, come un’infinità di altri eroi, quasi tutti sconosciuti, perché in Italia si deve dire solo che l’8 settembre tutti scapparono a casa perché abbandonati e traditi da un Re fuggiasco.
Menzogna, menzogna, menzogna.
Questa infamia nasce nel dopoguerra, quando una classe politica faziosa si costruisce una storia tutta sua, mescolando abilmente le carte in tavola, fino a fondere la propaganda di guerra della Repubblica Sociale Italiana con le campagne politiche della sinistra contro la Monarchia e contro l’Italia monarchica.
Il caso del comandante Fecia di Cossato è emblematico proprio sotto questo aspetto, in quanto è precisamente nel dopoguerra che si fa strada la leggenda del suicidio dovuto alla vergogna per l’armistizio e per il preteso tradimento nei confronti dell’alleata Germania, leggenda da inquadrare in una recente corrente storiografica che tende a distruggere l’onore militare del popolo italiano, attribuendo al nostro Paese soltanto sconfitte e viltà. Una leggenda che tiene tranquillamente insieme destra e sinistra, ed è accreditata da firme come Montanelli e Bertoldi.
Di vero, riguardo alla vicenda personale di questo grande soldato, c’è solamente la terribile depressione morale per le implicazioni dell’evento del giugno 1944. La riflessione che si impose all’animo suo allorchè apprese della messa in discussione delle istituzioni dello Stato, ossia di un fatto eversivo di prima grandezza, fu effettivamente il richiamo all’armistizio, con quanto di umiliante lo stesso comportava per un ufficiale e per un gentiluomo.
L’armistizio, o meglio la resa incondizionata al diktat del nemico, non poteva, non doveva, essere accolto con gioia. Da nessun vero italiano. Era una necessità dolorosa. Gli sprovveduti che si abbandonarono a manifestazioni di giubilo potevano essere capiti nella loro pochezza; non così coloro che vedevano in quella firma la sconfitta dell’avversario politico e la loro personale vittoria. Dunque, Fecia di Cossato, pur comprendendo che la guerra non poteva continuare perché la coalizione aveva perduto, sentì molto l’amarezza di quelle ore. Non odiava i tedeschi, con i quali aveva collaborato dalla base di Betasom a Bordeaux, e che quindi considerava alleati. Non avrebbe mai concepito l’idea di attaccarli per primo, solo per il fatto che erano governati dal partito nazista. Non si interessava di politica e di ideologie.
Fin qui tutto vero.
Ma parla la storia, e racconta che i nazisti attaccarono per primi, senza dichiarazione di guerra, già nella notte dall’8 al 9 settembre 1943, e che lo fecero dappertutto, per terra, per mare e per aria. Racconta anche che Fecia di Cossato, al comando della torpediniera “Aliseo”, trovandosi in Corsica nel porto di Bastia attaccato dai tedeschi, obbedì all’ordine del Maresciallo Badoglio di “reagire ad attacchi di qualunque altra provenienza”, e sconfisse duramente gli aggressori, che dovettero abbandonare il porto e la città.
Non mi si venga pertanto a dire che siamo di fronte ad una persona che considera l’armistizio un tradimento verso l’alleato. E’, al contrario, un comandante di unità navale che difende una città e un porto contro un attacco a tradimento dell’ex alleato, e che ormai ritiene che l’ex alleato sia divenuto, per effetto di sua aggressione, un nemico da combattere. Non per ideologia, ma per legittima legge di guerra, da militare a militare. Gli italiani non hanno aggredito, sono stati aggrediti.
Il discorso è diverso. C’è una questione di onore militare, che respinge l’offesa, inflitta ad una flotta da guerra, di consegnarsi intatta nelle mani del nemico di ieri, e di cooperare con esso in sottordine.
Il militare comprende la necessità di bere l’amaro calice. Lo vuole l’interesse supremo della Patria, la sua riscossa faticosa, la sua salvezza dalla “tabula rasa” che i vincitori, a Casablanca, hanno deciso inappellabilmente di comminare ai vinti. Ragione di Stato, anche qui come ai tempi di Garibaldi e di Sarnico. Il Re si è reso garante, col sacrificio della sua persona, della suprema sofferenza di tutti.
L’uomo, tuttavia, sente nelle proprie carni il bruciore della ferita, che non si attenua col passare del tempo, ed anzi diviene sempre più aspro a mano a mano che vede intorno a sè le trame politiche, gli inganni, gli opportunismi.
Ecco la vera origine della scelta finale, che è ad un tempo una scelta di morte ed una scelta di vita.
Scelta di morte, in quanto, nel momento stesso in cui una cricca di politicanti calpesta il suo ideale sovvertendo le istituzioni con la violenza e l’intrigo, egli non ritiene giusto sopravvivere ed operare in un mondo che non è più suo.
Scelta di vita, perché immolandosi alla sacertà di un principio ha dato alle generazioni future , e quindi alla vita del mondo che verrà, un esempio incancellabile.
Signori, non intendo fare della retorica fuori posto.
Ma credo che i giovani, i quali da mezzo secolo sono stati tenuti all’oscuro di tante, di troppe cose, debbano sapere.
Essi non sanno quali e quanti atti di coraggio, di dedizione, di amore, vi siano stati nella nostra storia recente. La revisione storica deve essere questo. Deve reagire alla campagna di penoso disfattismo di cui si sono nutriti la scuola e la pubblicistica.
Nella raccolta del vecchio settimanale “Candido” di Giovanni Guareschi, dal 1947 al 1959, figura una rubrica intitolata “I vittoriosi dell’Italia sconfitta”. Già la rilettura di quegli articoli è fonte inesauribile di riscoperta degli ideali, e mi permetto di consigliarla a chi vuole disintossicarsi dai veleni della malignità e dell’odio.
Ecco, la migliore chiusura di questo mio ricordo di Carlo Fecia di Cossato può essere proprio la definizione di “Vittorioso dell’Italia sconfitta”.
La sua vittoria non è una carica politica, una gloria terrena, un trionfo passeggero: è la vittoria dell’eroismo, una vittoria eterna e meravigliosa."
Fedele, a chi ed a che cosa?
Fedele al Re Vittorio Emanuele III, al quale aveva prestato giuramento, ed alla istituzione monarchica, nella quale identificava la Patria.
L’espressione di questa fedeltà la troviamo in un breve trafiletto che si può reperire nei quotidiani usciti il 31 agosto 1944 nell’Italia del Centro-Sud (dalla Linea Gotica in giù). Io l’ho tratto dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari.
Si tratta, in tutta evidenza, del testo di un comunicato governativo, datato “Roma, 30 agosto”. Il titolo è: “Il suicidio in fortezza di Carlo Fecia di Cossato”.
Il comunicato dice quanto segue.
“Il Conte Carlo Fecia di Cossato, uno dei più noti comandanti di sommergibili, si è suicidato due giorni fa a Napoli. Dopo la liberazione di Roma, il comandante Fecia di Cossato chiese di essere esonerato dal comando perchè il nuovo Gabinetto Bonomi aveva rifiutato di giurare nelle mani del Re. Poichè, intanto, questo suo gesto rappresentava un atto di insubordinazione in tempo di guerra, il comandante Di Cossato fu condannato a tre mesi di arresti in una fortezza di Napoli, dove metteva fine alla propria vita.”
Giova rilevare che la versione governativa è inesatta nell’ultima parte, dove si afferma che vi era stata una condanna per insubordinazione, da scontarsi in fortezza, e che appunto in fortezza era avvenuto il suicidio.
Fecia di Cossato, in realtà, era stato sospeso dal servizio, ed allontanato da Taranto che era la sua base operativa, solo perché la sua vicenda aveva provocato una spontanea rivolta della Marina, e il ministro De Courten, fortemente preoccupato, temeva che il valoroso comandante, col suo prestigio, si mettesse alla testa di un movimento ostile al governo e favorevole alla Monarchia.
Questo non era certamente nelle intenzioni dell’interessato. Non era un politico, non era un intrigante, non aveva pensato neppure per un attimo ad iniziative tribunizie. Agiva d’impulso, seguendo i dettami della propria coscienza adamantina. Obbedì all’ordine, lasciò Taranto e si portò a Napoli. Era libero, non agli arresti in fortezza. Andò anche a Roma, cercò contatti, espresse la propria amarezza e il proprio dolore, si ritrovò solo, e alla fine, sopraffatto dall’angoscia per quanto stava accadendo, consumò in un attimo il proprio sacrificio, dando la vita in olocausto alla sventura dell’Italia.
Come giudicare l’odioso e gelido comportamento del governo di fronte ad un dramma umano e patriottico di quelle dimensioni? Come spiegare la bassa menzogna con la quale si voleva chiaramente infangare la sua figura di soldato, facendolo apparire quasi un disertore attraverso l’accusa di insubordinazione in tempo di guerra, e dando al pubblico l’impressione che il suicidio andasse attribuito alla vergogna per una inesistente carcerazione?
La risposta è facile.
Il governo voleva dare un esempio di durezza e di rifiuto nei confronti di quegli italiani che si fossero permessi, allora e in seguito, di contestare la sua pretesa di monopolizzare il potere in Italia.
E qui dobbiamo andare alla radice della questione.
Cosa era accaduto “dopo la liberazione di Roma”?
Vi era stato quello che chi vi parla ha definito, nel suo libro “La Grande Frode”, il primo colpo di Stato, e che causticamente potrebbe chiamarsi “il colpo di Stato del Grand Hotel di Roma”.
Occupata Roma dagli anglo-americani il 4 giugno 1944, doveva attuarsi, per brutale imposizione dei vincitori, il cosiddetto “ritiro a vita privata” dell’anziano Re Vittorio Emanuele III°. Questa formula ambigua creava, di fatto, un vuoto di potere nella carica di Capo dello Stato, in quanto il Principe Umberto, nominato Luogotenente, aveva una posizione provvisoria, e quindi istituzionalmente debolissima.
Il Re aveva subito la soluzione impostagli solo ed esclusivamente per non aggravare, con suoi problemi personali, la delicata situazione internazionale della Patria, ed aveva comunque subordinato la sua acquiescenza al riconoscimento, per una questione di dignità, del suo diritto ad effettuare il trapasso dei poteri in Roma, al Quirinale.
Ma gli anglo-americani stracciarono quell’accordo, e, non appena occupata la Capitale, imposero al Sovrano di ritirarsi immediatamente, senza andare a Roma. Essi sostennero che la cessione dei poteri era urgente, e che a Roma il Re non poteva arrivare per ragioni di carattere militare e di sicurezza. Vittorio Emanuele resistette, ma non fu sostenuto da Badoglio, il quale gli dichiarò formalmente, quale Capo del Governo, che non era possibile opporsi alla volontà degli americani e degli inglesi. Solo di fronte a tale dichiarazione, il Re firmò il documento che gli veniva sottoposto.
Badoglio, convinto che il solo cambiamento comportato dall’occupazione di Roma fosse la sostituzione di Vittorio Emanuele III° con il Principe Umberto, si recò subito a Roma allo scopo di prendere contatto con gli esponenti di quel Comitato di Liberazione Nazionale, che appartenevano agli stessi sei partiti che formavano il suo governo.
Egli pensava di dovere dare soltanto delle dimissioni “pro forma”, e di poter costituire facilmente un nuovo governo includendovi nuove personalità, sempre dei sei partiti, per presentarlo poi al Luogotenente e proseguire la sua attività, come aveva fatto nei due mesi che erano trascorsi dalla “svolta di Salerno”.
Arrivato a Roma, trovò riuniti al Grand Hotel, in Piazza Esedra, gli alti papaveri romani dei partiti, appena usciti trionfanti e pimpanti dalla clandestinità (che, per quasi tutti, era consistita in un comodo soggiorno in Vaticano). Costoro non lo lasciarono neppure parlare. Gli dissero subito che la sua persona non era gradita. Che il nuovo governo dell’Italia liberata era rappresentato da loro, o meglio dalle loro persone e dai loro partiti, in parole povere dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Che poteva andarsene tranquillamente da dove era venuto, cioè a Salerno, e che i membri del governo da lui presieduto, essendo tutti esponenti dei sei partiti, dovevano ormai considerarsi candidati a partecipare alla formazione del nuovo ministero che loro, a Roma, avrebbero costituito senza chiedere nulla nè a lui, Badoglio, nè al Luogotenente. Questo anche perchè compito fondamentale del nuovo governo sarebbe stato di mettere in discussione la forma istituzionale, demandando al popolo la decisione su di essa.
Così Badoglio, che aveva appena indotto il Re a sacrificarsi per un più alto ideale, si trovava di colpo lui pure spiazzato ed esautorato con un colpo di mano del tutto inatteso ed imprevedibile, che passò quasi inosservato nell’opinione pubblica italiana e mondiale in quanto, contemporaneamente, dal 6 giugno in poi, era iniziato il grande sbarco “alleato” in Normandia, e tutti gli occhi erano puntati sulla gigantesca battaglia in corso sul suolo francese.
Lo stesso Primo Ministro britannico, Winston Churchill, che fino a quel momento si era fermamente opposto alle furibonde spinte repubblicane della coalizione dei vincitori della guerra, fu colto completamente di sorpresa: aveva distolto per un attimo la sua attenzione dall’Italia, ed era bastato perchè alle sue spalle si realizzasse un ”fatto compiuto” di estrema gravità. Appena se ne rese conto, tentò di rimediare con un duro intervento polemico, ma riuscì soltanto ad ottenere un compromesso del tutto insoddisfacente, che, pur mantenendo la figura del Luogotenente quale Capo dello Stato provvisorio, lasciava tuttavia tutti i poteri effettivi di governo nelle mani del CLN.
In tal modo, era nato il governo presieduto dal debole Ivanoe Bonomi, ostaggio nelle mani dei partiti della sinistra politica, impegnati a fondo nel preparare l’avvento della Repubblica e l’abbattimento della Monarchia. E i membri di quel governo, non eletti da nessuno, installatisi nei posti chiave dello Stato con un basso intrigo sostenuto dallo straniero, quando si era trattato di compiere il consueto atto formale che consisteva nel giurare fedeltà al Capo dello Stato, si erano rifiutati di giurare, ed avevano inventato, il 12 giugno 1944, una formula anòdina di impegno generico ad operare “nell’interesse supremo della Nazione”.
Il popolo italiano, occupato a sopravvivere in mezzo a stragi e tragedie di ogni genere, non capì nulla dell’accaduto. La classe politica, complice e soddisfatta, mise la sordina. Il Re, solo ed abbandonato da tutti, si chiuse nel suo dolore, e si preparò a sopportare, dopo la morte civile e l’umiliazione, la prossima morte fisica: il suo cuore affranto non avrebbe potuto reggere, e non resse.
Un uomo, un uomo solo, in quell’Italia del Centro-Sud dove ormai vincevano il tradimento e l’opportunismo, seppe opporsi con coraggio e lealtà: Carlo Fecia di Cossato.
Quando, nella base di Taranto, i comandanti di Marina si trovarono riuniti per ascoltare la notizia della nuova situazione, nel silenzio attonito generale, il valoroso sommergibilista pluridecorato fece un passo avanti, e parlò con fermezza: “No, signor Ammiraglio. Io non riconosco la legittimità di un governo che ha rifiutato di giurare nelle mani del Re. Io ho fatto il mio dovere per osservare il mio giuramento. Se ora questo giuramento non ha più valore, chiedo di essere esonerato dal mio comando.”
Parole come macigni.
Gli equipaggi della Marina ne furono colpiti profondamente. E subito divampò la rivolta, l’ammutinamento. Il governo ebbe paura, e si affrettò a chiedere l’aiuto dei suoi amici all’interno del blocco anglo-americano: c’era la guerra, l’Italia era “cobelligerante”, non venivano tollerati disordini dietro la linea del fronte. Il moto fu represso. Ma Taranto e i suoi marinai restarono una spina nel fianco della fazione repubblicana: non per nulla, anche immediatamente prima e dopo il referendum, in quella città vi furono scontri violentissimi tra monarchici e repubblicani, con gran numero di morti e feriti da ambo le parti.
Il resto è noto.
Il comandante Fecia di Cossato non aveva fatto nulla perché i marinai si ammutinassero, ma il ministro della Marina De Courten lo tenne responsabile, non, ovviamente, di insubordinazione (sarebbe stato troppo!), bensì di avere rotto, col suo gesto, l’omertà e il conformismo nel quale lui stesso si era adagiato. Non lo chiuse in fortezza; si accontentò di accogliere la sua richiesta di esonero, trasformandola in sospensione dal servizio ed allontanandolo da Taranto.
Il combattente fedele fu travolto dalla delusione e dalla disperazione. Non poteva più vivere in un’Italia diversa da quella che aveva conosciuto ed amato. E si tolse la vita.
Pietro Nenni, novello Maramaldo, scrisse sul suo giornale, con macabra ironia, che il Conte Di Cossato aveva fatto harakiri.
Ebbene, sì. Ha fatto harakiri, come un altro importante personaggio della storia militare italiana dell’ultima guerra, il Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero. In circostanze differenti, ma per lo stesso principio, di fedeltà al giuramento monarchico. A Cavallero il Maresciallo tedesco Kesselring aveva offerto, per incarico di Hitler e di Mussolini, il comando supremo delle Forze Armate della neonata Repubblica Sociale, quello stesso che poi fu accettato da Rodolfo Graziani. E Cavallero rifiutò, brindando, di fronte a Kesselring, alla “Maestà del Re d’Italia” .La notte successiva, dal 13 al 14 settembre 1943, si uccise nel Comando germanico di Frascati.
Fecia di Cossato e Cavallero, due harakiri per un giuramento e per un Re.
E’ un disonore, forse, come sicuramente opinano i sostenitori del “politically correct”? Mai più. E’ l’affermazione di valori altissimi, i medesimi a cui si è ispirato, nel tremendo 1945, il popolo giapponese. Nell’arrendersi ad un nemico preponderante, esso impose a quel nemico il rispetto per la sua Monarchia, custode delle tradizioni nazionali più sacre.
In quella occasione, in un Paese devastato da atroci e spietati bombardamenti aerei che avevano causato la morte di due milioni di civili, migliaia e migliaia di eroici combattenti fecero harakiri con solenni rituali, chiedendo perdono all’Imperatore per non avere saputo vincere!
Barbarie? No, amore per la Patria, impersonata dal Sovrano, il quale, come il Re d’Italia l’8 settembre 1943, chiese al suo popolo di accettare la sconfitta e di cessare di combattere per assicurare la salvezza e la sopravvivenza della Nazione. Perché il Monarca non è tale solo quando dichiara la guerra, bensì anche quando decide, nell’interesse di tutti, di mettere fine ad essa.
E la fedeltà giurata si realizza proprio nell’obbedire senza giudicare.
Ricordate il famoso telegramma “Obbedisco” di Giuseppe Garibaldi, nell’estate 1866? Giudicò forse Garibaldi la decisione di rinunciare al Trentino?
Si era forse ritenuto “tradito”, sempre l’Eroe dei Due Mondi (come oggi afferma un quotidiano cittadino, abbeverandosi alla fonte avvelenata di Denis Mack Smith e di Galante Garrone) per i fatti di Sarnico del 1862, imposti dalla ragione di Stato, che non consentiva in quel momento una prematura guerra all’Austria? Obbedì allora, come obbedì sempre, repubblicano di ideologia, ma rispettoso verso il Re.
Alla stessa stregua, nè Cavallero nè Fecia di Cossato si permisero di giudicare l’armistizio, o il Re che l’aveva autorizzato, o la partenza del Re da Roma per Brindisi. Rimasero fedeli, ed obbedirono, a costo della vita. Come l’Ammiraglio Bergamini, comandante supremo della flotta, come i novemila di Cefalonia, come i quarantamila internati militari che morirono nei lager nazisti, come un’infinità di altri eroi, quasi tutti sconosciuti, perché in Italia si deve dire solo che l’8 settembre tutti scapparono a casa perché abbandonati e traditi da un Re fuggiasco.
Menzogna, menzogna, menzogna.
Questa infamia nasce nel dopoguerra, quando una classe politica faziosa si costruisce una storia tutta sua, mescolando abilmente le carte in tavola, fino a fondere la propaganda di guerra della Repubblica Sociale Italiana con le campagne politiche della sinistra contro la Monarchia e contro l’Italia monarchica.
Il caso del comandante Fecia di Cossato è emblematico proprio sotto questo aspetto, in quanto è precisamente nel dopoguerra che si fa strada la leggenda del suicidio dovuto alla vergogna per l’armistizio e per il preteso tradimento nei confronti dell’alleata Germania, leggenda da inquadrare in una recente corrente storiografica che tende a distruggere l’onore militare del popolo italiano, attribuendo al nostro Paese soltanto sconfitte e viltà. Una leggenda che tiene tranquillamente insieme destra e sinistra, ed è accreditata da firme come Montanelli e Bertoldi.
Di vero, riguardo alla vicenda personale di questo grande soldato, c’è solamente la terribile depressione morale per le implicazioni dell’evento del giugno 1944. La riflessione che si impose all’animo suo allorchè apprese della messa in discussione delle istituzioni dello Stato, ossia di un fatto eversivo di prima grandezza, fu effettivamente il richiamo all’armistizio, con quanto di umiliante lo stesso comportava per un ufficiale e per un gentiluomo.
L’armistizio, o meglio la resa incondizionata al diktat del nemico, non poteva, non doveva, essere accolto con gioia. Da nessun vero italiano. Era una necessità dolorosa. Gli sprovveduti che si abbandonarono a manifestazioni di giubilo potevano essere capiti nella loro pochezza; non così coloro che vedevano in quella firma la sconfitta dell’avversario politico e la loro personale vittoria. Dunque, Fecia di Cossato, pur comprendendo che la guerra non poteva continuare perché la coalizione aveva perduto, sentì molto l’amarezza di quelle ore. Non odiava i tedeschi, con i quali aveva collaborato dalla base di Betasom a Bordeaux, e che quindi considerava alleati. Non avrebbe mai concepito l’idea di attaccarli per primo, solo per il fatto che erano governati dal partito nazista. Non si interessava di politica e di ideologie.
Fin qui tutto vero.
Ma parla la storia, e racconta che i nazisti attaccarono per primi, senza dichiarazione di guerra, già nella notte dall’8 al 9 settembre 1943, e che lo fecero dappertutto, per terra, per mare e per aria. Racconta anche che Fecia di Cossato, al comando della torpediniera “Aliseo”, trovandosi in Corsica nel porto di Bastia attaccato dai tedeschi, obbedì all’ordine del Maresciallo Badoglio di “reagire ad attacchi di qualunque altra provenienza”, e sconfisse duramente gli aggressori, che dovettero abbandonare il porto e la città.
Non mi si venga pertanto a dire che siamo di fronte ad una persona che considera l’armistizio un tradimento verso l’alleato. E’, al contrario, un comandante di unità navale che difende una città e un porto contro un attacco a tradimento dell’ex alleato, e che ormai ritiene che l’ex alleato sia divenuto, per effetto di sua aggressione, un nemico da combattere. Non per ideologia, ma per legittima legge di guerra, da militare a militare. Gli italiani non hanno aggredito, sono stati aggrediti.
Il discorso è diverso. C’è una questione di onore militare, che respinge l’offesa, inflitta ad una flotta da guerra, di consegnarsi intatta nelle mani del nemico di ieri, e di cooperare con esso in sottordine.
Il militare comprende la necessità di bere l’amaro calice. Lo vuole l’interesse supremo della Patria, la sua riscossa faticosa, la sua salvezza dalla “tabula rasa” che i vincitori, a Casablanca, hanno deciso inappellabilmente di comminare ai vinti. Ragione di Stato, anche qui come ai tempi di Garibaldi e di Sarnico. Il Re si è reso garante, col sacrificio della sua persona, della suprema sofferenza di tutti.
L’uomo, tuttavia, sente nelle proprie carni il bruciore della ferita, che non si attenua col passare del tempo, ed anzi diviene sempre più aspro a mano a mano che vede intorno a sè le trame politiche, gli inganni, gli opportunismi.
Ecco la vera origine della scelta finale, che è ad un tempo una scelta di morte ed una scelta di vita.
Scelta di morte, in quanto, nel momento stesso in cui una cricca di politicanti calpesta il suo ideale sovvertendo le istituzioni con la violenza e l’intrigo, egli non ritiene giusto sopravvivere ed operare in un mondo che non è più suo.
Scelta di vita, perché immolandosi alla sacertà di un principio ha dato alle generazioni future , e quindi alla vita del mondo che verrà, un esempio incancellabile.
Signori, non intendo fare della retorica fuori posto.
Ma credo che i giovani, i quali da mezzo secolo sono stati tenuti all’oscuro di tante, di troppe cose, debbano sapere.
Essi non sanno quali e quanti atti di coraggio, di dedizione, di amore, vi siano stati nella nostra storia recente. La revisione storica deve essere questo. Deve reagire alla campagna di penoso disfattismo di cui si sono nutriti la scuola e la pubblicistica.
Nella raccolta del vecchio settimanale “Candido” di Giovanni Guareschi, dal 1947 al 1959, figura una rubrica intitolata “I vittoriosi dell’Italia sconfitta”. Già la rilettura di quegli articoli è fonte inesauribile di riscoperta degli ideali, e mi permetto di consigliarla a chi vuole disintossicarsi dai veleni della malignità e dell’odio.
Ecco, la migliore chiusura di questo mio ricordo di Carlo Fecia di Cossato può essere proprio la definizione di “Vittorioso dell’Italia sconfitta”.
La sua vittoria non è una carica politica, una gloria terrena, un trionfo passeggero: è la vittoria dell’eroismo, una vittoria eterna e meravigliosa."