Massimo d’Azeglio
(1798 - 1866)
“Certo che in un secolo positivo come il nostro ed in un paese particolarmente positivo come il Piemonte, due figure come quelle di Carlo Alberto e di Massimo d’Azeglio, eminentemente poetiche, escono dal quadro e sembrano un anacronismo”.
Così si esprimeva nel suo diario politico la Contessa Margherita Provana di Collegno, a tre anni dalla morte di Re Carlo Alberto.
“Certo che in un secolo positivo come il nostro ed in un paese particolarmente positivo come il Piemonte, due figure come quelle di Carlo Alberto e di Massimo d’Azeglio, eminentemente poetiche, escono dal quadro e sembrano un anacronismo”.
Così si esprimeva nel suo diario politico la Contessa Margherita Provana di Collegno, a tre anni dalla morte di Re Carlo Alberto.
Si può infatti affermare che Carlo Alberto e Massimo d’Azeglio fossero gli ultimi esponenti di un romanticismo politico che con tutti i suoi errori ebbe una virtù, una forza, la fede che poté talvolta illuderli, ma che li aveva animati ad operare positivamente e preparare l’avvenire della Monarchia e dell’Italia, come afferma un grande storico del calibro di Nicolò Rodolico, autore della più ampia biografia di Carlo Alberto.
Massimo d’Azeglio e Carlo Alberto erano coetanei, essendo nati entrambi in un anno turbolento quale il 1798, il primo il 24 ottobre ed il secondo il 2 ottobre, ambedue a Torino, piemontesi ed il Piemontese era, secondo una definizione del d’Azeglio, “duro a se stesso, sopporta ogni malanno, non teme la vita travagliata, né il pericolo, quando è pel suo paese, la sua Casa di Savoia, il suo onore”.
Esponente di una nobile famiglia, ultimo di otto figli dell’austero e cattolicissimo Marchese Cesare d’Azeglio e di Cristina Morozzo di Bianzé, Massimo ereditò dai genitori la fermezza del carattere e l’intransigenza nei principi. Costretto, con la sua famiglia all’esilio a Firenze, durante l’occupazione francese del Piemonte, dal 1800 al 1807, ritornò in patria con la restaurazione, intraprese la carriera militare nel Piemonte Reale Cavalleria che lasciò nel marzo 1819 per recarsi a Roma e dedicarsi alla sua passione: la pittura di paesaggio istoriato, allora molto in voga. Si trasferì a Milano, dopo la morte del padre, nel 1830, e sposò l’anno dopo la figlia primogenita di Alessandro Manzoni, Giulia, dalla quale ebbe una figlia, Alessandrina.
In quegli anni frequentò letterati ed artisti ed affiancò alla sua già celebre attività di pittore, quella di letterato e romanziere ottenendo un grande successo di pubblico e presso la critica.
Lasciate poi la penna ed il pennello iniziò ad occuparsi di politica perché come scrisse egli stesso nei “Ricordi”: “mi sentivo il bisogno di una grande occupazione d’intelletto e di cuore” ed aggiunse: “ci pensò la Provvidenza a trovarmela, e fu tale che mi ha dato da fare più che non immaginavo”. Massimo d’Azeglio, insieme al fratello Roberto ed a Cesare Balbo apparteneva a quella nobiltà piemontese moderata e liberale che era contraria ai moti sanguinari ed alle sporadiche rivolte locali, era l’uomo delle riforme graduali, vicino a Carlo Alberto dopo il 1830-31 come molti altri esponenti dell’aristocrazia piemontese e prospettava l’opportunità di un accordo di tutte le forze liberali della penisola con il Piemonte sotto l’egida di Re Carlo Alberto e con il ricorso a metodi legali. Antisettario ed antirivoluzionario, il d’Azeglio si recò nelle Romagne in un momento in cui il rivoluzionarismo era in crisi e cercò di convincere i rivoluzionari romagnoli che non era più il tempo delle congiure e delle rivolte ma che occorreva avere fede in Carlo Alberto, il solo tra i Principi italiani che avesse ambizione, volontà e forza per scacciar lo straniero dal suolo italiano.
Al suo ritorno dal viaggio nelle Romagne, nell’ottobre del 45, Massimo d’Azeglio si decise a chiedere un’udienza a Re Carlo Alberto.
Gli aveva già parlato una prima volta il 25 gennaio 1829 ed in quell’occasione Carlo Alberto gli aveva detto: “vous savez que nous sommes vieux amis!”. Ma quei tempi erano lontani e la situazione politica era profondamente mutata. Era la prima volta che un Italiano si recava da un Re in nome di un popolo ed in nome di rivoluzionari che disperavano delle rivoluzioni. Dopo avere ampiamente esposto la situazione politica in Romagna, il d’Azeglio disse al Sovrano che era necessario ed urgente cercare dei rimedi ad evitare rivoluzioni, eccidi ed intervento straniero ed attese trepidante la risposta del Re.
Carlo Alberto, in piedi di fronte a lui, pallido ma franco e con un sorriso che ne rischiarava un poco il volto severo, fissandolo negli occhi, risoluto e tranquillo rispose con quelle storiche parole:
“Faccia sapere a quei signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che siano certi, che, presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana”.
Fu lo stesso Massimo d’Azeglio a narrare questo episodio nell’ultimo capitolo dei “Ricordi” di cui costituisce una delle pagine più belle e più note. Questo fu davvero il prologo del Risorgimento italiano!
Come scrisse poi il d’Azeglio: “Chi mi avesse detto che quella grande occasione così lontana d’ogni previsione nel ’45 e che ambedue dovevamo disperare di vedere mai, era da Dio stabilita tre anni dopo? E che in quella guerra, tanto impossibile secondo le apparenze d’allora, egli doveva perdervi la corona e poi la patria e poi la vita…” Con lo scoppio della Prima Guerra d’Indipendenza, coerente alla propria fede, Massimo d’Azeglio partì per il campo di battaglia come aiutante del generale Giovanni Durando, comandante delle truppe regolari pontificie ed il 10 giugno 1848 venne gravemente ferito a Monte Berico nella difesa di Vicenza. Ritornato a Torino rifiutò il 10 dicembre l’offerta della presidenza del consiglio, lasciando il posto al Gioberti, ma dopo l’abdicazione di Re Carlo Alberto ed il fallimento dell’esperimento del De Launay si decise ad accettare la proposta del nuovo Re Vittorio Emanuele II il 7 maggio 1849.
“Porsi al timone quando la nave è sdrucita dalle percosse della tempesta e fa segno di affondare, non è impresa da tutti, e richiedeva, ad assumerla, il grande animo del d’Azeglio” scrisse pittorescamente il Camerini. Conclusa in mezzo ad ogni difficoltà la pace con l’Austria il 6 agosto 1849 che vedeva ridotta l’indennità da 230 a 70 milioni e salvato lo Statuto Albertino, integro il territorio
del Piemonte, salvo l’onore del paese per le questioni dei fuorusciti e l’amnistia a causa dell’opposizione della Sinistra si dovette operare lo scioglimento della Camera con il secondo Proclama di Moncalieri, del 20 novembre 1949, un gesto audace, voluto dal d’Azeglio che fu l’artefice del proclama, che consentì di salvare gli ordinamenti costituzionali contro ogni possibile pericolo di
reazione e fece trionfare la fede nei principi statutari e nelle istituzioni liberali in un momento d’estrema difficoltà.
Il Proclama di Moncalieri fu un atto che impegnava la Monarchia, facendo intervenire direttamente la Corona nel dibattito, una atto di audacia fortunato che risuonò con energia insolita nell’appello al
popolo e che rivelò la mano ferma del d’Azeglio, fautore dello Stato forte ma nell’ambito della legge. Fu lo stesso d’Azeglio in una lettera alla moglie a rivendicare a sé la paternità del Proclama di
Moncalieri che fu un capolavoro di saggezza politica. Con l’intervento personale il Re si appellò direttamente al suo popolo, assumendo la sua responsabilità ed alla fine vinse, salvando l’integrità dello Statuto. Nel Proclama di Moncalieri Re Vittorio Emanuele II così si rivolse ai
suoi sudditi :
“Per la dissoluzione della Camera dei Deputati, le libertà del paese non corrono rischio veruno. Esse sono tutelate dalla venerata memoria di Re Carlo Alberto mio padre, sono affidate all’onore di Casa Savoia, sono protette dalla religione de’ miei giuramenti; chi oserebbe temere per loro?…Giammai fin qui la Casa di Savoia non ricorse invano alla fede, al senno all’amore de’ suoi popoli”.
Durante il governo del d’Azeglio il Piemonte si rafforzò nell’esercito, migliorò le proprie strutture interne e le condizioni economiche, uscì dall’isolamento diplomatico mirando a persuadere i Governi di Francia, Inghilterra e Belgio che il Piemonte era l’avamposto dell’Occidente liberale. Con le leggi Siccardi del 1850 si imposero le basi per più moderni rapporti fra lo Stato e la Chiesa.
D’Azeglio ebbe nel suo Governo la collaborazione di eminenti ministri come Alfonso La Marmora alla Guerra e di Camillo Cavour al ministero dell’agricoltura prima ed alle finanze poi.
Il compito ed il merito del d’Azeglio fu quello di avere raccolto sul campo di una sconfitta il Piemonte e di averlo poi consegnato risanato e rafforzato al suo successore : il Conte di Cavour.
Uscito alla scena politica, Massimo d’Azeglio ritornò al pennello ed alla penna. Ritornò alla politica per compiere una missione a Roma nel marzo del 1859, per sondare gli spiriti e sconsigliare moti insurrezionali, e per successive missioni a Parigi ed a Londra, svolse il ruolo di Commissario straordinario in Romagna e poi, nel gennaio del 1860 come Governatore di Milano. Dal 1855 era stato anche direttore della Pinacoteca Reale e negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla stesura della sua opera letteraria più famosa : “I miei ricordi” che rimase incompiuta per la morte sopravvenuta a Torino il 15 gennaio 1866.
Massimo d’Azeglio e Carlo Alberto erano coetanei, essendo nati entrambi in un anno turbolento quale il 1798, il primo il 24 ottobre ed il secondo il 2 ottobre, ambedue a Torino, piemontesi ed il Piemontese era, secondo una definizione del d’Azeglio, “duro a se stesso, sopporta ogni malanno, non teme la vita travagliata, né il pericolo, quando è pel suo paese, la sua Casa di Savoia, il suo onore”.
Esponente di una nobile famiglia, ultimo di otto figli dell’austero e cattolicissimo Marchese Cesare d’Azeglio e di Cristina Morozzo di Bianzé, Massimo ereditò dai genitori la fermezza del carattere e l’intransigenza nei principi. Costretto, con la sua famiglia all’esilio a Firenze, durante l’occupazione francese del Piemonte, dal 1800 al 1807, ritornò in patria con la restaurazione, intraprese la carriera militare nel Piemonte Reale Cavalleria che lasciò nel marzo 1819 per recarsi a Roma e dedicarsi alla sua passione: la pittura di paesaggio istoriato, allora molto in voga. Si trasferì a Milano, dopo la morte del padre, nel 1830, e sposò l’anno dopo la figlia primogenita di Alessandro Manzoni, Giulia, dalla quale ebbe una figlia, Alessandrina.
In quegli anni frequentò letterati ed artisti ed affiancò alla sua già celebre attività di pittore, quella di letterato e romanziere ottenendo un grande successo di pubblico e presso la critica.
Lasciate poi la penna ed il pennello iniziò ad occuparsi di politica perché come scrisse egli stesso nei “Ricordi”: “mi sentivo il bisogno di una grande occupazione d’intelletto e di cuore” ed aggiunse: “ci pensò la Provvidenza a trovarmela, e fu tale che mi ha dato da fare più che non immaginavo”. Massimo d’Azeglio, insieme al fratello Roberto ed a Cesare Balbo apparteneva a quella nobiltà piemontese moderata e liberale che era contraria ai moti sanguinari ed alle sporadiche rivolte locali, era l’uomo delle riforme graduali, vicino a Carlo Alberto dopo il 1830-31 come molti altri esponenti dell’aristocrazia piemontese e prospettava l’opportunità di un accordo di tutte le forze liberali della penisola con il Piemonte sotto l’egida di Re Carlo Alberto e con il ricorso a metodi legali. Antisettario ed antirivoluzionario, il d’Azeglio si recò nelle Romagne in un momento in cui il rivoluzionarismo era in crisi e cercò di convincere i rivoluzionari romagnoli che non era più il tempo delle congiure e delle rivolte ma che occorreva avere fede in Carlo Alberto, il solo tra i Principi italiani che avesse ambizione, volontà e forza per scacciar lo straniero dal suolo italiano.
Al suo ritorno dal viaggio nelle Romagne, nell’ottobre del 45, Massimo d’Azeglio si decise a chiedere un’udienza a Re Carlo Alberto.
Gli aveva già parlato una prima volta il 25 gennaio 1829 ed in quell’occasione Carlo Alberto gli aveva detto: “vous savez que nous sommes vieux amis!”. Ma quei tempi erano lontani e la situazione politica era profondamente mutata. Era la prima volta che un Italiano si recava da un Re in nome di un popolo ed in nome di rivoluzionari che disperavano delle rivoluzioni. Dopo avere ampiamente esposto la situazione politica in Romagna, il d’Azeglio disse al Sovrano che era necessario ed urgente cercare dei rimedi ad evitare rivoluzioni, eccidi ed intervento straniero ed attese trepidante la risposta del Re.
Carlo Alberto, in piedi di fronte a lui, pallido ma franco e con un sorriso che ne rischiarava un poco il volto severo, fissandolo negli occhi, risoluto e tranquillo rispose con quelle storiche parole:
“Faccia sapere a quei signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che siano certi, che, presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana”.
Fu lo stesso Massimo d’Azeglio a narrare questo episodio nell’ultimo capitolo dei “Ricordi” di cui costituisce una delle pagine più belle e più note. Questo fu davvero il prologo del Risorgimento italiano!
Come scrisse poi il d’Azeglio: “Chi mi avesse detto che quella grande occasione così lontana d’ogni previsione nel ’45 e che ambedue dovevamo disperare di vedere mai, era da Dio stabilita tre anni dopo? E che in quella guerra, tanto impossibile secondo le apparenze d’allora, egli doveva perdervi la corona e poi la patria e poi la vita…” Con lo scoppio della Prima Guerra d’Indipendenza, coerente alla propria fede, Massimo d’Azeglio partì per il campo di battaglia come aiutante del generale Giovanni Durando, comandante delle truppe regolari pontificie ed il 10 giugno 1848 venne gravemente ferito a Monte Berico nella difesa di Vicenza. Ritornato a Torino rifiutò il 10 dicembre l’offerta della presidenza del consiglio, lasciando il posto al Gioberti, ma dopo l’abdicazione di Re Carlo Alberto ed il fallimento dell’esperimento del De Launay si decise ad accettare la proposta del nuovo Re Vittorio Emanuele II il 7 maggio 1849.
“Porsi al timone quando la nave è sdrucita dalle percosse della tempesta e fa segno di affondare, non è impresa da tutti, e richiedeva, ad assumerla, il grande animo del d’Azeglio” scrisse pittorescamente il Camerini. Conclusa in mezzo ad ogni difficoltà la pace con l’Austria il 6 agosto 1849 che vedeva ridotta l’indennità da 230 a 70 milioni e salvato lo Statuto Albertino, integro il territorio
del Piemonte, salvo l’onore del paese per le questioni dei fuorusciti e l’amnistia a causa dell’opposizione della Sinistra si dovette operare lo scioglimento della Camera con il secondo Proclama di Moncalieri, del 20 novembre 1949, un gesto audace, voluto dal d’Azeglio che fu l’artefice del proclama, che consentì di salvare gli ordinamenti costituzionali contro ogni possibile pericolo di
reazione e fece trionfare la fede nei principi statutari e nelle istituzioni liberali in un momento d’estrema difficoltà.
Il Proclama di Moncalieri fu un atto che impegnava la Monarchia, facendo intervenire direttamente la Corona nel dibattito, una atto di audacia fortunato che risuonò con energia insolita nell’appello al
popolo e che rivelò la mano ferma del d’Azeglio, fautore dello Stato forte ma nell’ambito della legge. Fu lo stesso d’Azeglio in una lettera alla moglie a rivendicare a sé la paternità del Proclama di
Moncalieri che fu un capolavoro di saggezza politica. Con l’intervento personale il Re si appellò direttamente al suo popolo, assumendo la sua responsabilità ed alla fine vinse, salvando l’integrità dello Statuto. Nel Proclama di Moncalieri Re Vittorio Emanuele II così si rivolse ai
suoi sudditi :
“Per la dissoluzione della Camera dei Deputati, le libertà del paese non corrono rischio veruno. Esse sono tutelate dalla venerata memoria di Re Carlo Alberto mio padre, sono affidate all’onore di Casa Savoia, sono protette dalla religione de’ miei giuramenti; chi oserebbe temere per loro?…Giammai fin qui la Casa di Savoia non ricorse invano alla fede, al senno all’amore de’ suoi popoli”.
Durante il governo del d’Azeglio il Piemonte si rafforzò nell’esercito, migliorò le proprie strutture interne e le condizioni economiche, uscì dall’isolamento diplomatico mirando a persuadere i Governi di Francia, Inghilterra e Belgio che il Piemonte era l’avamposto dell’Occidente liberale. Con le leggi Siccardi del 1850 si imposero le basi per più moderni rapporti fra lo Stato e la Chiesa.
D’Azeglio ebbe nel suo Governo la collaborazione di eminenti ministri come Alfonso La Marmora alla Guerra e di Camillo Cavour al ministero dell’agricoltura prima ed alle finanze poi.
Il compito ed il merito del d’Azeglio fu quello di avere raccolto sul campo di una sconfitta il Piemonte e di averlo poi consegnato risanato e rafforzato al suo successore : il Conte di Cavour.
Uscito alla scena politica, Massimo d’Azeglio ritornò al pennello ed alla penna. Ritornò alla politica per compiere una missione a Roma nel marzo del 1859, per sondare gli spiriti e sconsigliare moti insurrezionali, e per successive missioni a Parigi ed a Londra, svolse il ruolo di Commissario straordinario in Romagna e poi, nel gennaio del 1860 come Governatore di Milano. Dal 1855 era stato anche direttore della Pinacoteca Reale e negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla stesura della sua opera letteraria più famosa : “I miei ricordi” che rimase incompiuta per la morte sopravvenuta a Torino il 15 gennaio 1866.