L’epilogo - La partenza del Re

Capitolo XVI

L’epilogo - La partenza del Re


Nel pomeriggio del 10 giugno, dopo l’adunanza della Corte Suprema di Cassazione De Gasperi si recò nel pomeriggio al Quirinale col verbale della riunione della Corte. Il Primo Presidente, Pagano, si rifiutò di accompagnarlo dicendo che non voleva essere scambiato per «l'usciere che va a dare lo sfratto al Sovrano». De Gasperi disse : « Maestà, lei mi conosce troppo bene per rendersi conto che personalmente io sarei di questo avviso. Ma devo tenere conto del Governo che in questo momento è già riunito al Viminale. I suoi principali esponenti hanno già espresso la loro intransigenza: vogliono proclamare la Repubblica in serata». Umberto rispose: «Mi rifiuto di credere che il Governo possa giungere a tanto!». Quando De Gasperi uscì dal Quirinale trovò sulla piazza una folla ostile che lo fischiò. Commentò amaramente:

«Che situazione! Al Quirinale mi fischiano e mi sputano addosso. Al Viminale trovo una gabbia di belve che mi aggredisce. Cosa può fare un pover’uomo in una situazione simile?». Al Viminale, dove il governo era riunito in permanenza, il clima era estremamente teso e incandescente. Martedì 11 sul Viminale fu issato per la prima volta il Tricolore senza scudo sabaudo, ma dopo un'ora De Gasperi riuscì a farlo ammainare. Tuttavia, per un'ora sventolarono a Roma due bandiere contrastanti : al Quirinale quella con scudo sabaudo e al Viminale il Tricolore repubblicano senza scudo.
De Gasperi, la sera dell'11, nel corso di una lunghissima e burrascosa telefonata, fece un estremo tentativo presso il Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, per convertirlo alla tesi della delega dei poteri. Lucifero ricevette la telefonata al Quirinale, nella sala adibita a mensa per gli ufficiali in servizio. Tenne testa a De Gasperi per più di un'ora. Il tono della conversazione si fece via via sempre più vibrato. Ad un certo momento, Lucifero disse a De Gasperi che il Re non poteva cedere l'esercizio dei poteri di Capo dello Stato perché così facendo avrebbe lasciato il Governo arbitro della situazione nella fase più delicata e conclusiva della vertenza istituzionale. De Gasperi rispose seccamente : «Il Governo si rende garante della regolarità del referendum». Lucifero, che ormai aveva perduto le staffe, ribatté: «È la Corte Suprema che deve giudicare l'operato del Governo. Il Governo non può garantire un bel niente. Le sue parole mi ricordano quelle che Mussolini pronunciò il 3 gennaio dopo l'assassinio di Matteotti: “La questione morale la risolvo io”». De Gasperi, con la voce alterata dall'ira, ribatté: «Le proibisco di fare questo confronto». Lucifero, sullo stesso tono: «Lei non mi proibisce proprio nulla. Io sono un libero cittadino e faccio tutti i confronti che credo».

Il Governo, quindi, nella notte fra il 12 e il 13 giugno passò all'azione.

La sera del 12 giugno Umberto volle trascorrere alcune ore serene e riposanti, lontano dalla tensione del Quirinale, in un ambiente borghese e cordiale, conversando con amici, alla buona, senza i fastidi dell'etichetta e del cerimoniale. Si recò quindi a cena dell’amico Luigi Barzini. Verso mezzanotte, Barzini fu costretto ad assentarsi per andare a giornale presso il quale lavorava e lì vide l'ordine del giorno del Governo, diramato alla stampa pochi minuti prima. Lo lesse e commentò : «Piccolo colpo di Stato!». Telefonò a casa e pregò la moglie di informarne il Re. Umberto vide la signora impallidire al telefono. Comprese immediatamente che qualcosa di grave era accaduto. Fu in questo modo che apprese che il Governo lo aveva deposto dal Trono e aveva affidato i poteri di Capo dello Stato al Presidente del Consiglio dei Ministri. La mattina del 13 giugno, la situazione generale a seguito della grave e illecita decisione del Governo, diventa esplosiva tanto da lasciare intravedere la possibilità di sfociare in guerra civile.
SM il Re Umberto e il Ministro della Real Casa esaminarono insieme la situazione. Tutti erano d'accordo sulla illegalità del gesto compiuto dal Governo. Furono poi riferite al Re le opinioni espresse dai diversi consiglieri. Gli furono presentati anche piani concreti di azione, ma Umberto troncò bruscamente e decise di partire il giorno stesso.

Una memoria di Giulio Andreotti del 1993 di quel momento storico, sintetizza bene quello che poteva succedere, comprovando il senso del dovere del Sovrano : “Debbo dire, ancora una volta, adesso a 10 anni dalla morte di Umberto, ch’egli fu estremamente responsabile. Sempre. Se avesse puntato i piedi avremmo avuto, quasi certamente la guerra civile e l’Italia non sarebbe, forse, mai più risorta dalle ceneri della guerra”.

Riportiamo di seguito l’ultimo proclama del Re prima della sua partenza :
"ITALIANI!
"Mentre il Paese da poco uscito da una tragica guerra vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore ed altre lacrime siano risparmiati al popolo che ha già tanto sofferto.
"Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d'Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice della illegalità che il governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori.
"Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge, e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto.
" A tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all'ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l'esortazione a voler evitare l'acuirsi di dissensi che minaccerebbero l'unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più navi le condizioni del trattato di pace.
" Con l'animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il pensiero a quanti sono caduti nel nome d'Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani.
Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli.
"Viva l'Italia!
UMBERTO
" Roma, 13 giugno 1946 ".

Nel suo proclama, il re parla del “gesto rivoluzionario” del governo, riferendosi al comunicato della notte precedente, con il quale lo si metteva praticamente fuori legge, nominando De Gasperi Capo provvisorio dello Stato. In realtà il “gesto rivoluzionario” non era quello, bensì il comunicato precedente emesso nella giornata dell’11 giugno, contenente il rifiuto di effettuare la rilevazione disposta dalla Corte Suprema e la sostanziale proclamazione della repubblica con tanto di giornata di festeggiamenti.
Era la rottura brutale della legalità, e andava denunciata immediatamente, con un atto clamoroso e importante, all’opinione pubblica italiana e internazionale.
L’aver aspettato due giorni fu fatale !
Il Governo incoraggiato dall’inerzia del Sovrano, si sentì libero di portare la propria azione alle estreme conseguenze, da un lato destituendo il Re e dall’altro reprimendo nel sangue i moti popolari al sud in favore della Corona (la strage di Via Medina a Napoli infatti si verificò in questo arco temporale).


Il giorno 13 giugno era troppo tardi. Il Re non era più il Capo dello Stato, gli insorti raccoglievano morti e feriti. Si può comprendere la decisione quel giorno di partire. Decisione peraltro sbagliata ! Ripetiamo, occorreva agire prima. I Sovrano ancora Capo dello Stato aveva non solo il diritto, ma il dovere di assumere tutti i poteri contro il governo ribelle alla Suprema Magistratura, di scioglierlo e di arrestarne i membri. Egli aveva con se un consenso popolare imponente e spontaneo, la ragione del diritto, e infine una situazione politica internazionale favorevole, che, in caso di conflitto civile, avrebbe posto le potenze occidentali contro il comunismo e quindi contro la repubblica.
Chiaramente Egli temeva uno scontro tra italiani, non voleva esserne la causa, non aveva ambizioni di potere e non dubitava della buona fede degli avversari, ma la sostanziale insicurezza nei propri mezzi, condizionò le sue scelte ben più del suo alto senso del dovere, che comunque fu spinto al limite del sublime, quasi un desiderio di sacrificio della sua persona in olocausto all’avvenire della Patria.
E’ difficile oggi valutare, giudicare, esaltare o condannare il suo operato. Re Umberto era così e basta. “Un esempio meraviglioso, e al tempo stesso un danno grave alla istituzione che aveva fatto l’Italia” ha scritto l’Avv. Malnati (1)

Umberto lasciò l'Italia poco dopo le 16 dei 13 giugno. Poco prima della partenza giunsero al Quirinale tre ufficiali d'aviazione, trafelati, e al generale Cassiani, aiutante di campo, dissero: «Abbiamo saputo che il Re si accinge a partire con l'apparecchio del capitano Lizzani. Per carità, non parta. Sta per cadere in un tranello infame. Non si fidi dell'equipaggio. Si tratta di elementi repubblicani che fanno parte di una congiura ordita da alcuni membri del Governo. A tradimento porteranno il Re a Milano e lo consegneranno ai partigiani comunisti, che ne faranno giustizia sommaria : è tutto predisposto. Si tratta di una macchinazione diabolica».
Cassiani riferì la cosa a Umberto che allargò le braccia e disse: «Io ho la coscienza a posto, e chi ha la coscienza a posto non ha nulla da temere. Del resto è assurdo attribuire a un ufficiale italiano simili bassezze».

Alle 15 i Corazzieri si schierarono nel Cortile d’Onore del Quirinale. Quando Umberto comparve, il loro Comandante, Riario Sforza, ordinò per l'ultima volta: «Guardie del Re, saluto al Re!». Per l'ultima volta i Corazzieri gridarono: «Viva il Re!».
Stavano rigidi sull'attenti e quasi tutti avevano il viso solcato dalle lacrime. Umberto abbracciò Riario Sforza e si allontanò in fretta per non essere sopraffatto dalla commozione. Sulla macchina che lo portò a Ciampino presero posto anche il Ministro Lucifero e il generale Infante, col gagliardetto sabaudo. A Ciampino Umberto fu accolto e applaudito a lungo da una folla commossa, tanto che più tardi un ufficiale americano disse a Lucifero: «Che strana cosa: un Re va in esilio e il suo Popolo gli batte le mani…».
Umberto abbracciò uno dopo l'altro i suoi fedeli collaboratori. Questi, più tardi, rincasando, constatarono che, malgrado le mille preoccupazioni e incombenze di quella febbrile giornata, il Re aveva trovato il tempo di mandare a ognuno di essi uno affettuosa lettera di saluto e un piccolo oggetto personale per ricordo. Lo videro salire a bordo con commozione contenuta. Alle 16,09 l'apparecchio si staccò dal suolo. Solo allora le poche persone che accompagnavano il Re in esilio videro delinearsi sul suo viso un'ombra di disperazione.


S.M il Re a Lisbona sceso dall'Aereo

Note

1 Franco Malnati in “La casta contro i Savoia” Ed. Catinaccio - Bolzano 2008