Il grido di "Insbuscenskij"
Savoia, a cavallo!
L'episodio già leggendario nel misurato racconto di un ufficiale superstite :
come una catapulta urlante, il glorioso Reggimento scaraventato all'attacco della fanteria siberiana.
Nel luglio del 1941 il Reggimento «Savoia Cavalleria » fu rimpatriato dalla Iugoslavia per essere trasferito sul fronte russo. Trasportato in treno fino in Romania, esso iniziò il movimento a cavallo attraverso i Carpazi, lungo le strade di Moldavia, Bessarabia e Ucraina. In 35 giorni percorse più di 1200 chilometri ed ai primi di settembre si attestò alle rive del Dnieper. Dopo aver preso parte alla battaglia di forzamento del fiume, il Reggimento riprese le marce verso est ed il 28 ottobre concorse con il 3° Bersaglieri e le truppe tedesche alla conquista di Stalino.
Trascorso l'inverno in riposo, riprese le operazioni l'11 luglio 1942 occupando Krasnij Luc e raggiungendo il 15 agosto, dopo una marcia di oltre 400 chilometri, le rive del Don. Qui, con il Reggimento «Lancieri di Novara», contribuì a frenare l'attacco che le truppe sovietiche sferrarono il 20 agosto contro le nostre linee con l'intendimento di aprire un varco alle spalle dei soldati tedeschi operanti a Stalingrado.
Dopo giorni di duri combattimenti, il Reggimento si trovava la notte sul 24 agosto 1942 a quota 213,5 nei pressi di Insbuscenskj. In attesa dell'alba per riprendere il movimento verso il fiume, il «Savoia» aveva assunto una formazione di sicurezza, chiudendosi in un quadrato di armi automatiche, artiglierie e pezzi controcarro a protezione degli uomini e dei cavalli che, al centro, riposavano all'addiaccio.
Alle 3,30 il Colonnello Comandante fece uscire una pattuglia con compiti esplorativi. Dopo poche centinaia di metri essa si scontrò con elementi nemici sistemati a difesa. Immediatamente tutto lo schieramento avversario divampò tenendo sotto il suo tiro il Reggimento che aveva appena iniziato le operazioni per riprendere il movimento. Vi furono attimi di incertezza. Poi le nostre armi automatiche presero a rispondere al nemico. Infine si udì un ordine: «Secondo squadrone, a cavallo!». « Savoia Cavalleria », per l'ultima volta nella storia dell'Arma, si apprestava alla carica.
Mi svegliai di soprassalto e cacciai la testa fuori del sacco a pelo, dentro il quale mi ero allungato per terra, le briglie di Palú legate al polso destro. Adesso i colpi che mi avevano strappato al sonno si erano fatti più intensi. Cercai di volgere lo sguardo verso la zona da cui provenivano e vidi la notte punteggiata dalle fiammelle azzurre delle mitragliatrici. "Ci síamo", pensai. E appena un attimo dopo udii da qualche parte il comando: «Secondo squadrone, a cavallo!».
Ero in piedi prima ancora che il cervello cominciasse a pensare. Gettai il sacco a pelo a Balsamo, il mio attendente, e montai a cavallo. Mentre raggiungevo la testa dello squadrone, sentii pesarmi addosso la vastità di quel cielo notturno, che da un momento all'altro si sarebbe illuminato a giorno.
"Ma che succede? Ci ritiriamo?" : questa fu la mia prima reazione cosciente, quando mi resi conto che ci stavamo allontanando dai fuochi azzurri. E non fu un pensiero piacevole, perché a ridosso della linea di combattimento c'era un grande vuoto, uno spazio enorme senza alcun punto di appoggio,
Erano quattro giorni che non toglievamo le selle ai cavalli. Dormivamo quando e come era possibile. La situazione precisa del fronte ci era ignota. Sapevamo unicamente che i russi si erano infiltrati nelle nostre linee e che cercavano di sfruttare i loro successi iniziali. Il nostro compito consisteva soprattutto nell'accorrere a turare le falle più preoccupanti, nel dare al nemico la sensazione di non poter sentirsi sicuro in nessun posto.
La sera del 23 avevamo ricevuto l'ordine di raggiungere una certa quota difficilmente identificabile in quella zona piatta, movimentata da lievi ondulazioni del terreno e costellata di campi di girasoli. A un certo punto del cammino ci eravamo fermati per dare un po' di riposo agli uomini e ai cavalli e anche perché era pericoloso e inutile proseguire nella fitta oscurità.
In attesa dell'alba, il Reggimento si sistemò a difesa: noi del secondo squadrone ci collocammo all'interno del quadrato, disposti a gruppi, pronti a balzare su al minimo allarme. La notte era fredda, il silenzio intenso. Uomini e cavalli (i primi sdraiati, i secondi in piedi) ci addormentammo di colpo.
Quella notte, qualcuno forse si domandò se per caso non avessimo sbagliato direzione, andandoci ad attestare lontano dall'obbiettivo fissato alla nostra incursione: una strada attraverso la quale i russi, che avevano superato il Don, ricevevano munizioni e rifornimenti. Nella steppa tutto è possibile, data la mancanza di riferimenti topografici precisi.
Invece noi e i russi, gli uni all'insaputa degli altri, ci eravamo accampati a meno di un chilometro di distanza. Anche gli scopi della manovra erano gli stessi: noi volevamo sorprendere il nemico sul fianco e interrompere i suoi rifornimenti; loro cercavano di tagliare la ritirata ai nostri reparti attestati lungo il fiume.
Ma in quell'alba sul Don, cavalcando alla testa dei miei cavalieri, io non potevo avere coscienza che del brusco risveglio e dei fuochi azzurri che ci lasciavamo alle spalle. Sentivo alla nuca il respiro degli uomini del mio plotone, e sapevo che non avrebbero indietreggiato di fronte a nessun pericolo.
Ed ecco a un tratto, mentre i cavalli acceleravano l'andatura, improvvisamente i fuochi azzurri apparvero sulla sinistra. Dunque la nostra non era una ritirata! Avevamo semplicemente fatto una conversione al largo per poter piombare sul fianco del nemico con la massima potenza d'urto.
Il cuore mi diede una scossa nel petto e mi strinsi a Palù, trasmettendogli il mio entusiasmo e la mia esaltazione. Sentii il cavallo vibrare, tendersi in avanti come se a un tratto avesse capito che qualcosa di meraviglioso stava per compiersi, che la vecchia cavalleria tornava a essere una catapulta che piomba sul nemico, consumando in pochi minuti i frutti di una lunghissima preparazione.
Ma era ancora possibile, nell'epoca dei carri armati e delle armi automatiche, condurre vittoriosamente a termine questo compito classico? Il quesito mi balenò alla mente solo per rendermi avvertito che la risposta l'avremmo avuta fra poco e che, comunque fosse andata la carica, ormai per noi non esistevano più alternative di sorta: bisognava andare avanti e tenersi stretti, serrare le file al massimo, formare un corpo unico di uomini e cavalli. Sì, anche di cavalli; perché questi animali così sensibili, così ombrosi, così facili a impressionarsi e a cambiare rotta, avanzavano ora con un galoppo terribile, gli occhi miopi - dilatati nell'esaltazione della carica puntati sulle fiammelle azzurre delle mitragliatrici.
Fu nel momento preciso in cui la carica si scatenava che un cavaliere apparve al fianco del comandante dello squadrone. Era il maggiore Manusardi , che qualche mese prima aveva lasciato il comando del reparto perché promosso di grado. «De Leone», gridò, «sono un tuo gregario. Voglio caricare anch'io col mio vecchio squadrone!» L'interpellato fece cenno di assenso, mentre le fiammelle azzurre erano diventate paurosamente vicine e le palle fischiavano da ogni parte, tagliando l'aria come staffilate, e i cavalieri cominciavano a urlare il loro grido di guerra: «Savoia!».
Palù, il mio fido, scorbutico cavallo dal manto grigio non regolamentare, che a suo tempo avevo ricevuto in eredità dal comandante di «Savoia Cavalleria», Raffaele Cadorna, diede allora uno strappo alle redini e partì, prima affiancando e poi superando il cavallo del comandante, capitano De Leone, che mi gridò arrabbiato per l'atto di indisciplina: « Dove vai con quel brocco? ». Ribattei, sullo stesso tono: « Tienilo tu, se ne sei capace! Io non ci riesco! ».
E poi vidi De Leone cadere dal cavallo che era stato falciato dalla mitraglia. Allora Manusardi assunse il comando dello squadrone, brandendo come arma il frustino da cui non si separava mai. Ed eravamo ormai sui russi, che ci balzavano incontro, chi cercando di colpirci, chi sollevando le braccia in segno di resa, chi correndo alla cieca nell'illusione di sottrarsi all'urto dei cavalli. Dietro di me, intanto, il trombettiere Carenzi, detto «Facciun», si affannava invano a tirar fuori la pistola Very per segnalare ai nostri che cessassero il fuoco. Ci riuscì infine, ma quando ormai eravamo passati e il quarto squadrone, che attaccava frontalmente, a piedi, si era già reso conto della situazione.
« Signor tenente, il suo cavallo muore! »
Questo grido mi meravigliò. Non mi ero accorto che Palù fosse ferito, e tanto meno ferito a morte. Avevo soltanto avvertito, a un certo momento, che non riuscivo più a tenerlo e le redini mi avevano tagliato le mani nello sforzo di mantenerne il comando. Comunque mi volsi alla voce, che era quella del mio attendente, e constatai che egli aveva ragione. Il cavallo perdeva sangue da innumerevoli ferite e mi bastò un'occhiata per capire che stava per crollare. Smontai di sella e mi cercai un'altra cavalcatura.
Parecchi cavalli, anche dopo aver perso i loro cavalieri, avevano continuato la carica, superando con lo squadrone le linee russe. Alcuni si abbattevano al suolo adesso, dissanguati. Uno aveva addirittura una delle gambe anteriori troncata; eppure non si era arrestato, perché soltanto la morte può fermare un cavallo quando carica.
Il maggiore Manusardi, intanto, riordinava le file dello squadrone. Dal canto loro i russi, passato lo spavento e l'orgasmo, riprendevano coraggio e cominciavano a bersagliarci di colpi. Sostare era pericoloso. Saltai sul primo cavallo illeso che mi venne sottomano e mi accinsi a partire per la seconda carica, seguito dal mio attendente.
E ancora una volta, a ranghi serrati, ci lanciammo sulle linee russe, seguendo il frustino del maggiore Manusardi. L'urlo dei cavalieri copri il fischio delle pallottole, l'impeto della carica ci impedì di vedere chi cadeva e chi proseguiva. lo avvertii a un tratto che il mio nuovo cavallo allentava il suo galoppo, ma non me ne diedi pensiero perché mi era bastata un'occhiata per capire che si trattava di un animale che valeva poco. Cercai comunque di spingerlo a dare il massimo di se stesso e il cavallo rispose tendendosi in uno sforzo supremo. Non durò a lungo, però: con una grande spruzzata dì sangue - era stato anche lui colpito a morte - si afflosciò al suolo.
La carica era ormai finita. Mi rialzai e raggiunsi le linee italiane mentre il terzo squadrone, guidato dal capitano Marchio, puntava a sua volta contro i russi, per la terza carica. Nel frattempo il quarto squadrone, che per primo aveva impegnato il nemico con un attacco frontale, a piedi, guadagnava terreno, attestandosi in vista dell'assalto risolutivo.
Una delle prime notizie che appresi fu la morte del capitano Silvano Abba, comandante del quarto squadrone. Costretto dalle necessità tattiche a operare come un fante vista dei compagni che andavano alla carica lo aveva riempito di amarezza. Avrebbe voluto poter saltare anche lui in sella al suo cavallo e partire al galoppo, ma dovette contenersi. E allora pensò che se non gli era concesso di partecipare alla carica, nessuno poteva impedirgli di fotografare il «Savoia Cavalleria» mentre irrompeva sui russi.
Ma le fotografie scattate da Silvano Abba, le fotografie che dovevano consegnare alla storia il documento della carica eroica dei cavalieri italiani fra i girasoli del Don, si persero nel turbine della battaglia. Silvano Abba cadde fulminato da una raffica di mitraglia, che mandò in frantumi la macchina fotografica. Egli perciò non vide gli uomini del quarto squadrone compiere l'ultimo balzo e snidare i russi dalle loro posizioni, dopo che la terza carica li aveva letteralmente sconvolti.
Quando io rientrai, a ogni modo, la battaglia era ancora nel pieno svolgimento e l'esito finale appariva incerto, tanto più che i russi avevano rivelato di essere nettamente superiori, sia per quantità di uomini che di mezzi. Tuttavia qualsiasi considerazione di ordine generale passò in secondo piano, ai miei occhi, di fronte al fatto che il mio attendente era scomparso nel tratto più tremendo della carica.
Passò del tempo. Il sole saliva nel cielo e l'aria si faceva calda. Sulle posizioni nemiche, la lotta si andava frazionando in cento episodi singoli allorché mi vidi sbucare dinanzi tre uomini con le mani alzate, sospinti in avanti da un soldato italiano armato in un modo inverosimile e quasi curvo sotto il peso di certe grosse borse che si era appese al collo.
«Signor tenente, le ho portati questi!», gridò lo strano soldato. Era il mio attendente. Appena si fu liberato dei prigionieri, mi agitò sotto gli occhi il sacco a pelo. «Non l'ho lasciato indietro!», disse con orgoglio.
Come sì sia svolta l'avventura del mio attendente, non l'ho mai saputo di preciso; ma forse neppure il protagonista dell'incredibile vicenda sa con esattezza come fece a catturare un ufficiale e due soldati armatissimi, lui provvisto soltanto di una modestissima bomba a mano O.T.O., una bombetta di quelle che i bersaglieri ritenevano adatte alle signorine.
Una spiegazione dell'episodio c'è, tuttavia, e me la diede lui stesso con semplicità: «Che vuole, signor tenente», disse, «la carica li aveva storditi, non capivano più nulla». E per lui il discorso fu concluso, né lo riapri quando gli comunicai che nella borsa appartenente all'ufficiale c'erano documenti importantissimi, che contenevano i piani dettagliati delle azioni che il nemico si proponeva di svolgere per annientare la nostra resistenza.
Il resto, almeno per me, non ha storia. Molto prima di mezzogiorno la battaglia era finita e «Savoia Cavalleria» si trovava a essere padrone assoluto del campo, con un numero di prigionieri superiore ai suoi effettivi. Nel posto di soccorso, dove avevamo concentrato i feriti, italiani e russi, trovai un soldato del mio plotone che aveva perso una gamba. Era Sulas, un sardo di carattere ombroso e diffidente, un tipo molto difficile da trattare. Mi chinai su di lui ed egli mi strinse la mano. Disse: «Ne valeva la pena, signor tenente».
Mi allontanai, e col mio attendente andai alla ricerca di Palù, il vecchio cavallo bizzoso col quale mi pareva di formare, quando ero in sella, una cosa sola.
Palù soffriva di reumatismi, non aveva più molti anni da vivere, era proprio un vecchio cavallo: ma quando finalmente lo trovai steso al suolo, con gli squarci delle ferite nel petto e sulla testa, provai una commozione così intensa che fui costretto ad appoggiarmi al soldato che mi accompagnava. Poi mi chinai al suolo e, in silenzio, cominciai a sciogliere la sella bagnata dal sangue di Palù, letteralmente crivellata di schegge.
A mezzogiorno, il rombo di una macchina che si avvicinava ci mise in allarme, ma l'incertezza durò pochissimo: era una camionetta del comando che ci raggiungeva. Ne scese Bianchi, l'uomo della mensa, in giacca bianca, impeccabile, che cominciò a distribuire panini imbottiti, scusandosi di non aver potuto preparare di meglio. Aveva percorso venti chilometri nella steppa per ritrovarci.
Massimo Gotta