Cavour e la sua formazione europea

Intervento di Giampiero Goffi al convegno "Il conte di Cavour monarchico e liberale" del 16 ottobre tenutosi al Circolo della Stampa di Milano

La tradizione risorgimentale, custodita da alcuni e riscoperta da altri in coincidenza con le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, viene prevalentemente associata, nell’immaginario collettivo, alla figura, alle imprese e al mito di Giuseppe Garibaldi. Di una certa popolarità ha goduto, per la sua lealtà costituzionale non meno che per le sue caratteristiche umane, anche l’immagine, sovente tradotta in monumenti, di Vittorio Emanuele II, ma la caduta della monarchia ha contribuito ad appannarne e talora a rimuoverne la fama. Una mostra ora allestita tra il Palazzo reale di Torino e il castello di Racconigi sembra rendere storicamente giustizia al Re Galantuomo e primo sovrano dello Stato unitario. Sull’altro versante, Giuseppe Mazzini, antesignano di un’Italia unita e repubblicana, è stato il punto di riferimento di una cerchia, via via più ristretta, di intellettuali, ma il suo austero richiamo ai doveri non è fatto per incontrare, oggi men che meno, un facile consenso.


Neppure Camillo Benso, conte di Cavour, di cui ricorre il bicentenario della nascita (Torino, 10 agosto 1810) ha conseguito larga simpatia fra i contemporanei e adeguato riconoscimento fra i posteri, se si eccettua il generale cordoglio che accompagnò la sua repentina scomparsa, il 6 giugno 1861, meno di tre mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia di cui era stato il principale ‘tessitore’. Nella nostra vicenda nazionale Cavour come, più tardi, un Giolitti o un De Gasperi, possono essere ricondotti, fatte salve le rispettive e ben definite identità, ad un criterio e ad una prassi di moderazione invisi agli estremisti, ai massimalisti e ai populisti. Nella politica liberale della sua maturità Cavour perseguì, alla guida del governo piemontese e poi italiano, l’obiettivo di un equilibrio fra la conservazione di valori e di assetti (peraltro mai confusa con la reazione) e l’innovazione attraverso le riforme, tali da scongiurare esiti rivoluzionari o derive giacobine. Anche la sua strategia delle alleanze in Europa (Francia, Inghilterra) e il ruolo decisivo giocato nel percorso unitario (dalle annessioni all’intervento per bloccare Garibaldi dopo la spedizione dei Mille) concorrono a delineare una prospettiva che aveva i suoi capisaldi nella libertà e nella stabilità, nell’istituto monarchico quale suprema sintesi della Nazione, e nel Parlamento quale ambito imprescindibile di discussione e di decisione.

Eppure il giovane Cavour, quale risulta dagli studi ‘classici’ di Francesco Ruffini prima e di Rosario Romeo poi, ma anche dalla più recente biografia di Adriano Viarengo non era nato politicamente moderato. Aveva anzi manifestato “tutta la sua insofferenza” per le chiusure della Restaurazione subalpina, fondata sull’alleanza del trono e dell’altare. Insofferenza che lambiva gli stessi rapporti familiari, tenuto conto che il padre Michele era divenuto il “vicario di Polizia” del re Carlo Alberto. La sua irrequietezza - intellettuale, politica e sentimentale - trovava sollievo, invece, nei rapporti con i parenti ginevrini della madre, i Sellon e i De la Rive, di tradizione protestante e di cultura illuministica. Il cadetto di casa Cavour, che aveva polemicamente interrotto la carriera militare, era infatti andato assumendo posizioni radicali, forse repubblicane, tendenzialmente razionaliste, esplicitamente anticlericali.

Lo ‘spartiacque’ della sua evoluzione liberale è rappresentato dai lunghi soggiorni di formazione da lui compiuti, fra gli anni Trenta e Quaranta, in quelle che erano le capitali della cultura e della politica europee, Parigi e Londra, oltre a Ginevra e Bruxelles. Nel 1830, in Francia, era avvenuta la ‘rivoluzione di luglio’ che aveva rovesciato la monarchia tradizionale di Carlo X, fratello di Luigi XVI (il Re ghigliottinato nel 1793), e aveva instaurato la cosiddetta monarchia ‘borghese’ di Luigi Filippo d’Orleans. A quel modello monarchico-costituzionale, accompagnato dallo sviluppo della vita parlamentare e da una fase di progresso economico, Cavour incominciò a guardare con favore. Nel 1834-35 egli visitò per la prima volta Parigi e Londra insieme all’amico Pietro di Santarosa. Successivamente si stabilì in Francia per circa sei anni. Seguì alla Sorbona i corsi di diritto di Royer-Collard e quelli di Pellegrino Rossi (poi ministro di Pio IX), provò ammirazione e fiducia per il cattolicesimo liberale dell’abbè Coeur, ebbe la possibilità di avvicinare François Guizot e Alexis de Tocqueville (quest’ultimo già incontrato nel suo primo viaggio a Londra), e di ascoltarli nelle discussioni all’Assemblea nazionale francese. L’interpretazione da essi offerta della Rivoluzione del 1789 non dovette rimanere senza conseguenze nell’elaborazione dell’identità politica di Cavour. Guizot, ad esempio, riconosceva la validità dei principi che avevano portato alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, il loro fondamento nel diritto naturale e nell’avversione all’accentramento assolutistico che aveva connotato, a partire dal regno di Luigi XIV, la monarchia dei Borboni. Condannava tuttavia la repubblica giacobina, l’egalitarismo esasperato e demagogico, il sangue del Terrore, infine la concentrazione cesarista del potere nelle mani di un uomo uscito dalla Rivoluzione, il primo console Napoleone Bonaparte, poi autoproclamato imperatore. Tocqueville, più tardi autore del fondamentale saggio su L’Ancient Regime et la Revolution (1856), si rendeva a sua volta conto del velleitarismo di chi, nella Francia della Restaurazione (ma il discorso poteva anche estendersi al Piemonte) proponeva, sic et simpliciter, un ritorno al passato, come se nulla, in venticinque anni, fosse accaduto. E, d’altra parte, con sagace intuizione della tendenza del secolo e degli scenari futuri, non nascondeva i rischi di degenerazione totalitaria e “gli esiti distruttivi per le stesse istituzioni rappresentative e per le pubbliche e private libertà” (Domenico Fisichella) dei sistemi democratici non corretti e contenuti dall’ispirazione liberale. Dai cosiddetti “dottrinari” alla Guizot, Cavour apprese dunque la politica del “giusto mezzo” tra radicalismi di segno opposto; da Tocqueville, del quale conosceva i tomi sulla Democrazia in America, la prudenza e le preoccupazioni di un liberale insieme moderno e conservatore, singolarmente indicato, negli appunti cavouriani, come “legittimista francese”.

Al loro apporto nella formazione del conte va tuttavia aggiunto quello di un altro pensatore transalpino, Benjamin Constant, che viveva in Svizzera, e che nel 1819 aveva pubblicato un’analisi comparativa fra la libertà degli antichi e quella dei moderni; libertà, quest’ultima, di cui avvertiva la novità e la differenza rispetto alla “democrazia” esaltata da Jean Jacques Rousseau che, nel nome della volontà generale, finiva per comprimere e dissolvere l’autonomia individuale, e che si era affermata come predominante nell’esperienza rivoluzionaria francese.

Il pensiero di Constant, ma nondimeno quello di Tocqueville, furono significativi per Cavour anche sotto il profilo politico-religioso, sia nell’idea di separazione giuridica fra Stato e Chiese (appresa dal pastore protestante elvetico Alexandre Vinet e formulata nella nota espressione di “libera Chiesa in libero Stato”), sia in quella, non contraddittoria, di un’alleanza fra lo spirito di libertà e lo spirito di religione. La madre di Cavour, Adele di Sellon, svizzera e calvinista, si era convertita al cattolicesimo con l’assistenza di sacerdoti cattolici piemontesi in fama di giansenismo, compiendo un percorso analogo a quello di un’altra personalità del nostro Ottocento, Enrichetta Blondel, prima moglie di Alessandro Manzoni. In Cavour non risulta infine esclusa una visione religiosa della vita, recuperata anche nella convinzione, espressa fino all’ultimo, che proprio la libertà avrebbe ridato slancio e vigore alla Chiesa cattolica. Il rapporto del ‘laico’ Cavour con la fede subirà infatti un mutamento, se è vero che nel 1854 egli si mise d’accordo con il proprio parroco, il francescano Giacomo da Poirino, perché, al termine della vita, gli impartisse i sacramenti, come poi avvenne, senza esigere previe ritrattazioni in materia di politica ecclesiastica, e affermando che a lui “premeva molto morire con la consolazione della religione dei suoi padri”. Un gesto questo, che non rimarrà privo di conseguenze per padre Giacomo, come confermato da una lettera emersa dagli Archivi vaticani, e resa pubblica meno di un mese fa, nella quale, più di vent’anni dopo, il religioso chiedeva e otteneva il perdono del papa Leone XIII per la mancata richiesta di ritrattazione.

Nell’aprile 1843 Cavour compì un nuovo viaggio nella capitale britannica. E qui ebbe modo di consolidare la conoscenza e la simpatia per l’antica tradizione parlamentare della monarchia inglese, fatta risalire alla Magna Charta libertatum del 1215. Incontrò le figure più insigni dei Whigs (liberali) e dei Tories (conservatori), che erano allora i contendenti del bipartitismo britannico (più tardi arriveranno i laburisti), da William Gladstone a Robert Peel, da William Pitt a Benjamin Disraeli; assistette a dibattiti alla Camera dei Comuni; entrò nella cerchia intellettuale di lord Lansdown; approfondì lo studio del liberoscambismo in economia, che già lo aveva condotto alla lettura di autori quali Adam Smith, David Ricardo, Jeremy Bentham. Economisti, dunque, ma anche filosofi morali, come lo scozzese David Hume, il cui scetticismo religioso incontrerà invece la severa critica del fratello di Cavour, il marchese Gustavo, a sua volta cultore di filosofia. Tuttavia, come scrive Romeo, “la più immediata affinità del suo spirito vivace e di tutto curioso con i caratteri propri dell’intelligenza francese, lo inducevano a riconfermare la sua preferenza per quella sorta di seconda patria ideale che ormai egli si era eletto sulle sponde della Senna”. La lezione appresa in Europa rimase viva e presente nei criteri e nei metodi della successiva azione politica di Cavour. Ancora giovane, egli rientrò in Piemonte con la volontà di affermarsi e di lavorare ad un progresso ordinato, senza rivoluzioni, e possibile, senza utopie. L’amministrazione del piccolo comune di Grinzane, la partecipazione alla Società degli asili infantili (a Torino era approdato Ferrante Aporti ed erano attivi in questo campo i marchesi di Barolo) e soprattutto all’Associazione agraria, l’attività giornalistica con la fondazione nel 1847, de “Il Risorgimento”, insieme al più moderato e cattolico Cesare Balbo, costituiranno la ‘palestra’ del futuro parlamentare e uomo di governo Il problema dell’indipendenza prima, e dell’unità nazionale poi, furono affrontati dallo statista con un prezioso realismo politico, ponendo la questione italiana nei consessi delle potenze, intessendo una fittissima rete di rapporti diplomatici, scartando l’idea mazziniana, rischiosa e controproducente, delle insurrezioni di popolo. Di recente, complici gli stimoli dell’attualità politica, si è parlato e si è scritto anche di un Cavour federalista. La via federale, o meglio confederale, all’unità italiana fu in Piemonte, agli inizi del Risorgimento, una prospettiva comune (bastino i nomi di Balbo, di Gioberti e di Rosmini) soprattutto ai moderati, quella considerata più accessibile e accettabile, quella che comportava minori sconvolgimenti. E nella quale anche il conte si riconobbe fintantoché l’evoluzione degli avvenimenti non impose una diversa soluzione, divenuta evidente con la seconda guerra d’indipendenza del 1859, anche per l’esigenza di non sostituire l’egemonia austriaca sulla Penisola con quella della Francia di Napoleone III che sarebbe di fatto scaturita dall’applicazione, peraltro unilaterale, degli accordi di Plombiéres.

Cavour fu fedele alla dinastia sabauda nonostante la diffidenza, prima, nei confronti di Carlo Alberto, e le più recenti e dirette incompatibilità con Vittorio Emanuele II. E’ emblematico l’episodio del burrascoso colloquio di Monzambano, all’indomani dell’armistizio di Villafranca, che sfiorò i reciproci insulti e si concluse con le dimissioni del presidente del Consiglio. In quell’occasione il Re si rivelò un politico accorto, mentre il ministro lasciò prevalere l’impulsività dello sdegno per quello che considerava un tradimento da parte dell’alleato francese. Scriveva Cavour in una lettera: “Come rappresentante del principio monarchico, come simbolo dell’Unità, sono pronto a sacrificare al Re la vita, le sostanze, ogni cosa infine; come uomo desidero da lui un solo favore, il rimanermene il più lontano possibile”. E’ parimenti noto che il sovrano preferiva avere a che fare con il più docile D’Azeglio o, addirittura - politica ecclesiastica esclusa - con l’avvocato Urbano Rattazzi, espressione della sinistra moderata e comprimario del connubio che caratterizzò il governo e la vita parlamentare del Regno di Sardegna negli anni decisivi del Risorgimento. Ma al di là di ogni reciproca incomprensione, gli scopi di Vittorio Emanuele II e del suo primo ministro erano convergenti, e il sovrano, in morte di Cavour, non mancò di riconoscere i meriti dello statista. Testimoni della sua ultima visita al conte ne descrissero la sincera commozione, avvalorata dalla successiva offerta della tumulazione nella Reale Basilica di Superga, peraltro declinata dalla famiglia Cavour in ossequio alle disposizioni testamentarie dello scomparso. Cavour dette un contributo determinante alla trasformazione della monarchia piemontese da rappresentativa a parlamentare, oltre la lettera dello Statuto albertino, Costituzione che peraltro lo consentiva in quanto ‘flessibile’. Fra le luci e le ombre di un periodo storico complesso e di un disegno politico arduo, seppe guardare all’indipendenza, alla libertà e all’unità della Patria italiana, al rinnovamento delle istituzioni e allo sviluppo economico e sociale senza antistorici rimpianti né derive radicali, ma con le preoccupazione di diffonderne gradualmente le conquiste a sempre più largo numero di cittadini. In tali obiettivi, nel senso della misura con il quale li perseguì, e dunque nella costanza del suo sforzo di equilibrio politico, si possono riconoscere anche le radici e le prospettive europee del pensiero e dell’azione del conte di Cavour.