Tumulti milanesi contro Carlo Alberto
Il Re di Sardegna lascia Milano
La mattina del 5 agosto, ratificata la convenzione, il Re affidò l'incarico ai Generali Salasco, Bava e Olivieri di esporre alla Congregazione municipale, al Comitato di difesa e allo Stato Maggiore della Guardia nazionale i motivi che lo avevano costretto a scendere a patti con il nemico. Fatta la comunicazione, i più mostrarono di esser persuasi della necessità della convenzione, la stesso generale Zucchi, interrogato da alcuni se era anche sua intenzione abbandonare Milano, rispose che senza l’apporto dell’esercito piemontese, la città era indifendibile.
Ma, nelle ore più cupe, c’è sempre chi in nome della pura demagogia, invece di servire il popolo, si serve del popolo… e fu così che l’Avvocato Restelli protestò fermamente, affermando che :
"il Comitato di pubblica difesa non essendo stato interpellato, lasciava la responsabilità di quell'atto e si asteneva dal discuterne i motivi addotti; non esser vero però che ci fosse difetto di viveri e di denaro, perché vi erano farine per otto giorni; e il Comitato aveva disposto che in quello stesso giorno e nei seguenti si versassero nelle casse quattro milioni di lire del prestito forzato; perciò come membro del Comitato di pubblica difesa, come cittadino e come italiano, protestava contro quel patto vergognoso" …come se otto giorni di farina e quattro milioni di lire potessero sconfiggere le ingenti forze austriache accampate fuori città, e aggiunse :
"Milano, lasciata dalle armi sabaude, doveva resistere fino all'estremo; che la popolazione era disperatamente preparata alla difesa; prova di ciò l'entusiasmo mirabile da essa mostrata nell'erigere serragli e ripari, e il suo festoso accorrere alle armi: ora quell'entusiasmo, che l'umiliante capitolazione non aveva potuto abbattere, doversi assecondare; che se fosse destinata a soccombere, cadrebbe salvando però sempre l'onor suo". Parole, soltanto vane parole, dettate in primis dalla inesperienza militare e in secondo luogo dal disprezzo per le sofferenze altrui, che si sarebbero provocate da una lotta setta quartiere e comunque senza speranza !
Sparsa in questi termini, la notizia alla città dell'avvenuta capitolazione, sorse una viva agitazione che ben presto degenerò in tumulto. Enorme fu lo sdegno verso Carlo Alberto, lo stesso Re che aveva condotto il suo esercito alla battaglia meno opportuna dal punto di vista militare (e con meno possibilità di successo) per tentare di difendere Milano, ora veniva accusato di aver tradito i milanesi. Una turba di forsennati verso mezzogiorno si raccolse intorno al palazzo Greppi con il proposito d'impadronirsi della persona del Re, onde Pompeo Litta e Luigi Anelli, membri della Consulta, facendosi strada tra la calca, si recarono dal sovrano e lo scongiurarono di non abbandonare Milano in mani nemiche.
Nella piazza il tumulto cresceva e a stento i carabinieri reali contenevano la folla che tentava di irrompere nel palazzo.
Carlo Alberto allora, con notevole sangue freddo s'affacciò al balcone e, …tra applausi dei più, i fischi e le schioppettate dei più scalmanati e le volgari ingiurie di pochi ciarlatani, dichiarò che avrebbe continuato la guerra. Poiché la folla non pareva ancora soddisfatta di quelle dichiarazioni verbali fece pubblicare un bando con queste parole :
"Cittadini ! Il modo energico con il quale l'intera popolazione si manifesta contro qualsiasi idea di transazione con il nemico, mi ha determinato a continuare nella lotta, per quanto le circostanze sembrino avverse. Tutto deve esser vinto da un solo sentimento: la liberazione d'Italia.
Cittadini! il momento è solenne; che tutti si pongano all'opera. Forti della giustizia della nostra causa, il cielo coronerà gli sforzi di un popolo eroico affratellato con un esercito, che ha già versato tanto sangue per la causa italiana. Io rimango fra voi con i miei figli; per la causa comune io soffro da quattro mesi i disagi della guerra con la più eletta del mio popolo. Io confido in voi: mostrate dal canto vostro che giusta è la mia convinzione e tutti uniti saluteremo quanto prima il giorno della comune liberazione".
Ma anche queste erano parole vuote. L'esercito sardo non era più uno strumento militare valido, la città sarebbe stata presto circondata e sottoposta a bombardamento d’artiglieria, e poi gli stessi soldati piemontesi erano indignati contro i milanesi per l’ignobile protesta. Credendo inoltre che il Re fosse ostaggio della folla, si preparava a liberarlo.
Saputo questo però, Carlo Alberto ordinò che nulla venisse fatto in tal senso dichiarando :
“Dovesse anche questo popolo assassinarmi, non permetterò giammai che i miei soldati si pongano al rischio di versare il sangue italiano !".
Intanto i tumulti non si chetavano, ma forse alimentati ad arte, si ingrossavano sempre più; si chiudevano le botteghe, si sbarravano le porte, s'insultavano gli ufficiali regi. Lo stesso Generale Manfredo Fanti, non riconosciuto, corse pericolo di essere linciato dalla folla; si tentò di far saltare il portone del palazzo Greppi con un barile di polvere e gli autori del tentativo avrebbero effettuato il loro proposito se non fosse corso a sbandarli con un manipolo di bersaglieri e un battaglione della brigata Piemonte, il Colonnello Alfonso La Marmora.
Nel frattempo il Podestà Paolo Bassi, il Generale Rossi, l'Arcivescovo Romilli, tre assessori e un rappresentante del Console francese si recavano da Radetzky, il quale li accoglieva garbatamente, e prolungava, in seguito alla loro richiesta; il termine stabilito per l'espatrio dei cittadini. Malgrado ciò l'agitazione popolare non accennava a diminuire, anzi, esplosa per cause mai stabilite la polveriera della caserma del Genio, fu sparsa la voce che erano stati i piemontesi, con il risultato che i tumulti aumentarono ancora tanto da temere seriamente per la vita del Re.
Il Re di Sardegna lascia Milano
Si era fatta sera di quel 5 agosto 1848, quando nell’impossibilità di poter più governare la folla che aumentava sempre i numero e in rabbia, truppe sarde al comando del Colonnello Della Rocca e del tenente Luigi Torelli giunsero ad unirsi a quelle condotte in giornata da quelle di La Marmora, a palazzo Greppi. Trassero dalla folla il Re, e con rapida manovra scortarono il Sovrano ed il figlio Duca di Genova fino a Porta Orientale. Da lì si proseguì a Porta Romana e a Porta Vercellina.
Le campane presero a suonare a stormo. Non pochi soldati caddero uccisi dalla furia popolare al fianco del Sovrano, che anche questa volta, risulto miracolosamente illeso. Finalmente, sgombrato il cammino delle barricate, Carlo Alberto riuscì a mettersi al sicuro fuori Milano.
Un solo battaglione delle Guardie rimase in città, per consegnare, secondo i patti stipulati con gli Austriaci, Porta Romana.
Il resto dell'esercito sardo, in tre colonne, per Magenta, Abbiategrasso e Rho, prese mestamente la via del Piemonte, seguito da quasi centomila Lombardi, uomini e donne, vecchi e bambini, che si recavano in esilio oltre il Ticino o in Svizzera pur di non ricadere sotto il giogo austriaco con la speranza della riscossa.
Il giorno 6 agosto, Radetzky, alla testa delle sue truppe, entrava in Milano, trovando la città quasi deserta, muta e costernata. Il 7, Carlo Alberto giungeva invece a Vigevano e riceveva i Ministri Casati e Gioberti, venuti per persuaderlo a continuare la guerra fidando nell'imminente arrivo degli aiuti francesi. Il Sovrano ormai disilluso, dichiarò che "era necessaria una tregua delle armi se si voleva ricominciare poi la guerra con probabilità di vittoria". Allora i due Ministri rassegnarono le loro dimissioni e quelle dei colleghi, e il Re le accettò.