Un pò di buon senso per il Risorgimento

Un pò di buon senso per il Risorgimento

Tratto da : Istituto della Real Casa di Savoia
Centro Studi, 18 ottobre 2010

La propaganda neoborbonica è lontana dalla verità storica
Nel 145° anniversario di Firenze capitale, proponiamo alcune riflessioni, basate per la maggior parte sui risultati delle ricerche di studiosi meridionali, sui temi più cari alla propaganda neoborbonica, che si è scatenata in occasione della preparazione delle celebrazioni per il 150° della proclamazione del Regno d’Italia.

La conquista del Regno delle Due Sicilie
La propaganda neoborbonica lamenta il fatto che nell’800 il Regno duosiciliano fu conquistato con le armi. Ma è un fatto storico che nel 1735 la dinastia borbonica si impadronì con la forza del meridione d’Italia a scapito dell’Impero asburgico, nell’ambito della conclusione della guerra di successione polacca (terzo trattato di Vienna del 1738, poi pace di Parigi del 1739). In quel momento, l’Italia meridionale passò dalla dominazione austriaca degli Asburgo a quella spagnola dei Borbone.
Fino al XX secolo, quasi tutte le conquiste hanno avuto un’origine militare e furono successivamente sancite da trattati internazionali. Basti ricordare il Congresso di Vienna, che modificò profondamente le frontiere europee dopo la caduta di Napoleone I.
La lamentela è dunque del tutto strumentale, non ha senso e dimostra scarsa conoscenza della storia e della geopolitica del vecchio continente.


L’Italia confederale
Alcuni neoborbonici ricordano il progetto confederale che per un certo periodo venne, almeno in apparenza, preso in considerazione da diversi stati preunitari. Accusano poi la dinastia sabauda di aver prevaricato questo progetto per pura sete di conquista.
Ma la verità è un’altra. Il momento in cui il progetto confederale (nel senso di una confederazione
di stati) ebbe una qualche possibilità di concretizzarsi fu il 1848, con la Prima Guerra l’Indipendenza italiana.
“La notizia che Carlo Alberto ha sollevato il tricolore d’Italia corre per la penisola. Il Granduca annunzia l’adesione alla guerra, però non con le sue truppe, ma una colonna di 5.000 volontari,
fra cui studenti e professori di Pisa, parte il 5 aprile ed il 17 attraversa il Po. Da Roma partono i regolari sotto il generale piemontese Durando, che ha per aiutante di campo Massimo d’Azeglio, partono i volontari sotto il generale Andrea Ferrari, partono gli svizzeri. A Napoli il ministero costituzionale di Carlo Troya decide di partecipare alla guerra. Il generale Guglielmo Pepe si mette alla fine d’aprile in marcia con 14.000 uomini”.
Ma il 29 aprile il Papa nega alla guerra d’indipendenza il suo appoggio. “Non così aveva parlato il 29 marzo all’inviato di Carlo Alberto. Il Re veniva ora visitato da monsignor Corboli-Bussi
incaricato ufficialmente di trattare per la costituzione di una Lega doganale. Il 15 maggio il movimento liberale di Napoli si conchiudeva con la repressione sanguinosa di Ferdinando II e l’esercito borbonico riceveva a Bologna l’ordine di retrocedere.
Nessuno doveva collaborare con il Piemonte. Carlo Alberto trovava dunque il vuoto tutt’intorno, ma scriveva il 24 maggio: “Io non sono per nulla turbato; io sono pieno di confidenza in Dio”.
Questi fatti, narrati da un vero storico (Francesco Cognasso, Accademico dei Lincei e Presidente della Deputazione Subalpina di Storia Patria), dimostrano il disinteresse per l’indipendenza e l’unità italiane da parte di tutti gli stati preunitari, eccetto naturalmente quello sabaudo, e l’impraticabilità del progetto confederale.
E spiegano perché, da quel momento, anche a causa delle promesse che altri non mantennero, Casa Savoia fu costretta ad agire da sola.

La corruzione dei comandanti borbonici
La propaganda neoborbonica accusa il Regno di Sardegna di aver usato la corruzione per la conquista del Regno duosiciliano.
A parte il fatto che la corruzione imperversava già nel sud, a tutti i livelli, da molto prima del 1860, gli stessi neoborbonici così confermano che i generali duosiciliani erano facilmente corrompibili. Il che non depone certo a favore della qualità dei vertici del relativo esercito.
Va soprattutto osservato, però, che dovere di ogni buon comandante è quello di compiere la missione affidatagli preservando, con ogni mezzo umano e per quanto materialmente possibile, la vita dei propri soldati.
D’altra parte, le finanze borboniche erano piuttosto ricche, ma nessuno dei comandanti sardo-piemontesi si lasciò corrompere…

Il brigantaggio
La propaganda neoborbonica esalta i briganti quali campioni della resistenza meridionalista
e della fedeltà alla dinastia dei Borbone, che in effetti finanziò a lungo le “imprese” dei briganti.
Va però ricordato che il brigantaggio era un vero problema per il meridione già due secoli prima del Risorgimento, sotto la dominazione spagnola.
Anche durante il regno di Gioacchino Murat, diversi decenni prima della spedizione dei Mille, il brigantaggio fu aspramente combattuto, in particolare dal Colonnello francese Charles Antoine Manhés, ricordato per i suoi metodi violenti e crudeli. I francesi stigmatizzarono l’utilizzo delle bande da parte dei proprietari latifondisti locali, che se ne servivano per tenere i loro contadini in una situazione di sottomissione del tutto simile alla schiavitù.
Anche il Re di Napoli Ferdinando IV (dal 1816 Re delle Due Sicilie Ferdinando I) si servì delle forze armate per combattere il brigantaggio: basti ricordare l’opera del Generale Richard Church, che eliminò, ad esempio, Papa Ciro (Ciro Annicchiarico), brigante delle Murge, l’8 febbraio 1817.
Sergio Romano (“Storia d’Italia dal Risorgimento fino ai nostri giorni”) afferma che il brigantaggio al sud non fu “né la resistenza descritta dai legittimisti né la guerra di popolo inventata dalla storiografia marxista. Fu un vecchio fenomeno, registrato da tutti i viaggiatori europei delle generazioni precedenti, ma fortemente acuito dallo sbandamento dell’esercito Borbonico e dal crollo dell’apparato amministrativo del regno”.
Secondo Giuseppe Galasso (“L’esercito di Franceschiello, una storia di onori e calunnie”, in “Corriere della Sera”, 27 febbraio 2010), “Il Regno d’Italia, proclamato tre giorni prima della resa di Civitella, muoveva i suoi primi difficilissimi passi. Nel 1866 vi fu la sua prima prova bellica, in alleanza con la Prussia, con la sfortunata guerra contro l’Austria. Se il legittimismo Borbonico avesse avuto nel sud la consistenza e il vigore che molti revisionisti o nostalgici attribuiscono ad esso, quello sarebbe stato il momento della verità. In quei frangenti la nuova Italia molto
difficilmente avrebbe potuto resistere a una grande insurrezione o a una guerra civile in atto all’interno. Non accadde nulla di simile. Il miracolo del 1799 non si ripeté; e il nuovo Stato dimostrò una base etico-politica superiore al previsto e fu in grado di resistere alle sue grandi prove di allora e di dopo, a Nord come a Sud. Anzi, proprio dopo il 1866 le agitazioni nel Sud declinarono decisamente”.
Insomma, i fatti dimostrano che il brigantaggio aveva ben poco a che fare con il patriottismo anti-sabaudo, ma che sfruttò semplicemente il momento storico per tentare d’accreditarsi per ciò che non era, allo scopo di fare meglio i suoi sporchi e violenti interessi. Anche quando, al comando di stranieri, collaborò con unità militari irregolari.
E’ pur vero che raccolse fra le sue fila anche soldati provenienti dall’esercito borbonico, ma di fatto li asservì alla sua strategia criminale, che lo portava obbligatoriamente a combattere l’esercito italiano per aver mano libera nei saccheggi e nelle ruberie, sempre più estesi, che voleva porre in atto. Saccheggi, omicidi, stupri e ruberie che perpetrava sistematicamente ai danni della sua stessa gente! Un fenomeno che continuò ad essere sostenuto da Re Francesco II, nonostante le nefandezze perpetrate ai danni del popolo ed i turpi sacrilegi.
Che grande differenza con la scelta di Re Umberto II, che nel 1946, pur consapevole degli imbrogli nel referendum istituzionale, si sacrificò, scegliendo un esilio volontario e permettendo la concordia fra gli italiani invece di fomentare la guerra civile!

La situazione dell’economia duosiciliana nel 1850
La propaganda neoborbonica afferma che il Regno delle Due Sicilie era economicamente prospero ed avanzato. Ma la verità dei fatti relativi alla situazione economica del regno nel 1850, ben dieci anni prima della spedizione dei Mille, viene ben sintetizzata dal prof. Carmine Cimmino (“Il Mediano”, 14 agosto 2010):
“Avendo scritto dieci anni fa un libro sui briganti del Vesuvio, conosco perfettamente gli argomenti dei nostalgici dei Borbone. Rispondo con dati tratti da documenti borbonici e da scrittori borbonici“.
Dunque, in quell’anno l’industria metalmeccanica napoletana era la prima d’Italia, grazie anche ai capitali stranieri e alla politica protezionistica.
Ma la produzione agricola passava da una crisi all’altra, soprattutto perché i prezzi dei prodotti si mantenevano bassi: non c’erano strade, e il commercio interno non poteva svilupparsi.
Tra il 1830 e il 1850 il grano arrivò a costare sul mercato di Napoli 7 ducati l’ettolitro, mentre in Basilicata i contadini erano costretti a venderlo a meno di 2 ducati l’ettolitro.
La quota pro capite del commercio estero del Regno era tra le più basse d’Europa: ducati 6,52 per abitante, comprendendo nel conto la Sicilia; e senza la Sicilia, ducati 5,52 per abitante. Il dato è del 1858: in quell’anno, la quota del Regno di Sardegna era di ducati 40,13 per abitante, e quella della Toscana era di ducati 31,70; perfino la quota dello Stato Pontificio era superiore: ducati 9,06 per abitante”.
Va aggiunto che la politica protezionistica borbonica causò il tracollo delle industrie duosiciliane appena queste si trovarono ad affrontare la libera concorrenza. Il prof. Cimmino (op. cit.) prosegue:
“Mancavano le banche. C’era un istituto bancario a Napoli, con una succursale a Bari; nel 1850 la Cassa di Palermo e di Messina venne trasformata in "Banco dei Reali Domini al di là del Faro"; intere regioni erano prive di “sportelli“ bancari, e perfino per i commercianti della provincia di Napoli era quasi impossibile ottenere fedi di credito. Era così insopportabile la situazione che nel 1842 gli “Annali del Regno delle due Sicilie” osarono pubblicare un lungo saggio, intitolato
"Proposta di banche provinciali di risparmio e di circolazione". Dilagava l’usura, ovviamente (Domenico Demarco in “Il crollo del Regno delle due Sicilie” e Nicola Ostuni in “Finanza e economia nel Regno delle Due Sicilie”, che è del 1992, hanno analizzato scientificamente la questione sulla base dei bilanci dello Stato )”.

V’è poi la questione legata all’agricoltura.
Nel regno borbonico i metodi di coltivazione erano arretrati, basati com’erano sullo schema latifondista (estensivo), meno efficiente delle coltivazioni intensive in voga al nord e causa di un “equilibrio” sociale (gradito ai potentati locali ed alla dinastia borbonica) che fra le sue più drammatiche conseguenze ebbe quella dello sfruttamento dei lavoratori agricoli, imponendo
condizioni di vita così degradate da fomentare la nascita ed il radicamento del brigantaggio.
Molto chiaro, a questo proposito, il prof. Cimmino (op. cit.):
“Vorrei raccontarvi la vita quotidiana nei Comuni: la vita dei clan dei “galantuomini” e la vita dei “miseri”, così come viene descritta, con assoluta chiarezza, dalle relazioni degli Intendenti borbonici (i Prefetti di oggi), dagli atti comunali, dalle “suppliche“ che i parroci più sensibili rivolgevano alla Maestà del Re “umiliandosi davanti al trono”, dalle Commissioni Sanitarie che dovevano affrontare le epidemie cicliche di colera e di “febbri tifoidee”. E mi riferisco non ai Comuni di quelle regioni in cui, come avrebbe scritto Carlo Levi, Cristo non era arrivato, ma ai Comuni della Provincia di Napoli e di Terra di Lavoro: province considerate ricche e sotto il
controllo diretto dell’ Amministrazione Centrale. Ho letto centinaia di documenti del fondo Sottointendenza di Castellammare e dell’Intendenza di Napoli, e atti di processi, e centinaia di
note e relazioni della polizia borbonica: potrei aggiungere all’elenco i molti diari di viaggio di stranieri che visitavano il Regno. Le carte borboniche non riescono a nascondere le storie dell’ordinaria sopraffazione e il dramma di una povertà che spesso alimentava un degrado morale intollerabile”.
Aldo Alatri (“L’Ottimista”, 23 giugno 2010) ricorda che “Una società che non riesce a rinnovarsi e a guardare avanti è destinata a implodere a favore di chi guarda al futuro. È il caso dei Regni di Borbone e di Savoia nel XIX secolo. Chi non sa guardare avanti e affrontare
le sfide che la vita gli propone, non sarà mai felice, proverà sempre paura anziché entusiasmo e, in frangenti cruciali e drammatici, sarà destinato a soccombere.
A supporto della nostra tesi potremmo portare centinaia di esempi, tanti quante le civiltà dell’uomo che si conoscono. Ne citiamo uno che riguarda la nostra identità di Italiani e che giudichiamo molto attuale: l’implosione del Regno delle Due Sicilie.
(…) Sul piano sociale ed economico Ferdinando II si appoggiò alla nobiltà latifondista, anziché favorire la crescita dell’aristocrazia capitalista e della borghesia (costituita solo dai burocrati di corte) quando la rivoluzione industriale e culturale angloamericana, prima ancora che francese, stava segnando la crescita e l’affermazione della classe borghese e del libero mercato, fondamenta dell’attuale società occidentale. Ferdinando II commise un errore fatale: non seppe rinnovare il
proprio paese, lasciandolo vecchio e arretrato sotto tutti i punti di vista”.
Angelo D’Orsi, professore di Storia del pensiero politico all’Università di Torino, ricorda che “il Regno del Sud era un territorio profondamente depresso ed era almeno un secolo e mezzo indietro
rispetto allo sviluppo del resto d’Europa. L’operazione fatta dai Savoia aveva un senso allora e ne ha uno ancora oggi, se guardiamo a come sono andate le cose in seguito. In qualche modo ha contribuito a far crescere il Mezzogiorno rispetto a ciò che era allora”. (“La Stampa”, 1 novembre 2009)

Le finanze del Regno duosiciliano
La propaganda neoborbonica denuncia il “furto” delle finanze del regno meridionale.
E’ un fatto che esse erano abbastanza ricche, ma ciò che conta è capirne la ragione.
Lasciamo la parola ad Aldo Alatri (op. cit.), secondo il quale “Napoli aveva il bilancio in attivo, ma grazie a una politica di tesaurizzazione che lasciava il reame privo di strade ed infrastrutture (su circa 1600 paesi, 1400 non avevano nemmeno una trazzeria che li collegasse al resto), scuole, servizi, con l’agricoltura organizzata ancora in latifondi enormi come province (coltivate con mezzi rudimentali come l’aratro a chiodi ed essenzialmente a cereali, quindi senza rotazione) e industrie (in tutto due!) che sopravvivevano solo grazie ai dazi e i monopoli”.
La mancanza di vere strutture utili allo sviluppo culturale ed economico (ad esempio, la costruzione di qualche ponte, pur se tecnicamente pregevole, non risolve certo il problema della viabilità di un regno!) fu il risultato di una scelta precisa, come spiega il prof. Cimmino (op. cit.): “Chiunque abbia letto i documenti dell’Ufficio borbonico Ponti e Strade sa che intere province erano tagliate fuori dal resto del Regno. Per rendersene conto basta leggere le relazioni della Polizia borbonica sull’ultimo viaggio di Ferdinando II, da Napoli in Puglia.
Eppure, la borghesia produttiva chiedeva rispettosamente, ma fermamente, lo sviluppo delle comunicazioni: per rendersene conto, basta leggere i fascicoli degli “Annali civili del Regno delle Due Sicilie” (soprattutto i fascicoli del 1852 e del 1854): forse è utile dire che la pubblicazione degli Annali era controllata dal governo Borbonico, e che ogni “pezzo” veniva vagliato dalla censura”.
Anche le forze armate furono lasciate in una situazione d’arretratezza: basti pensare al fatto che nel 1860 ancora mancavano i cannoni a canna rigata a lunga gittata, presenti invece in buon numero nei reparti sardo-piemontesi.
A soffrire di questa situazione di mancanza d’investimenti strutturali di base erano tutti i settori della vita pubblica; con qualche eccezione naturalmente, incapace, però, di incidere sostanzialmente sulla situazione generale.
Angelo Sindoni, storico moderno e prorettore dell’Università di Messina, profondo conoscitore del Mezzogiorno, afferma (“Avvenire”, 20 marzo 2010) : “Il convincimento che sotto i Borbone si stava meglio è assolutamente ingenuo e privo di storicità: solo per dirne una, esistevano ancora residui di proprietà feudale ed ecclesiastica che era indivisibile e ostacolava la nascita di una moderna borghesia.
Per non parlare delle istituzioni e dei codici, tipici di una monarchia dell’ancien régime.
Senza contare che, a parte Napoli che grazie al suo status di capitale godeva indubbiamente di attenzioni particolari, in tutto il regno fin dal 1820 erano presenti forti sentimenti anti-Borbonici, specie in Sicilia.
Il Piemonte era uno dei pochi Stati italiani che presentavano spiccati tratti di modernità. Non si può dimenticare che dopo il 1848 fu l’unico a conservare lo Statuto. E anche un antimonarchico come Francesco Crispi dovrà ammettere che la corona rappresentava un forte fattore di unità, mentre la repubblica avrebbe diviso.
Va anche detto che l’attenzione alla questione meridionale, ovvero al divario tra il Sud e il resto del Paese, nasce proprio all’interno dello Stato italiano, con le famose inchieste di Sonnino e Franchetti e le “Lettere meridionali” di Pasquale Villari. E che molti statisti, basti pensare a Giolitti, cercarono di affrontarla. Non ci riuscirono, sicuramente. Ma non ci riuscì nemmeno il fascismo e nella Repubblica il problema ancora esiste. Ma i Borbone la questione non se l’erano neanche posta”.
L’istruzione pubblica Nonostante l’elenco dei “primati” sbandierati dalla propaganda borbonica sia piuttosto lungo, non vi figurano voci di rilievo relative all’istruzione pubblica di base, quella più importante e necessaria al miglioramento delle condizioni di vita di ogni popolo.
La cosa non sorprende, perché, come spiega il prof. Cimmino (op. cit.), “la borghesia poteva procurarsi maestri e professori privati di buon livello, e alcune “facoltà“ dell’Università di Napoli erano eccellenti: ma in quasi tutto il Regno il numero di coloro che non sapevano né leggere né scrivere era spropositato.
Numerosi decurioni (consiglieri comunali) di Comuni della Provincia di Napoli firmavano i verbali di consiglio aiutandosi con una stampiglia di legno”.
“I Borbone persero il Regno per necessità storica: Francesco I e Ferdinando II cercarono, con una perseveranza maniacale, di chiudere le genti del Sud in una specie di bolla gigantesca che li isolasse da un mondo che cambiava senza sosta. Accadde così che piccoli gruppi di eccellenza, ingegneri, architetti, medici, raggiungessero posizioni d’avanguardia: ma l’analfabetismo di massa toccava percentuali altissime, e il programma delle scuole pubbliche di primo grado era roba da ridere. Nell’ultima battaglia, sul Volturno, i soldati napoletani si coprirono di gloria, ma pochi di essi sapevano leggere e scrivere; tutti i sodati piemontesi, invece, leggevano e scrivevano con una certa facilità. Questo dato sarebbe sufficiente, da solo, a spiegare il crollo del Regno. La logica della storia è spesso più lineare di quanto si pensi”.
Giuseppe Cacciatore, filosofo salernitano e membro dell’Accademia dei Lincei, ricorda che nel regno duosiciliano la legge imponeva “il giuramento davanti ai vescovi delle diocesi dei professori universitari per avere il permesso ad insegnare”.
(“Il Messaggero”, 20 maggio 2010)
Anche se l’alfabetizzazione di massa era ancora ben lungi dal realizzarsi un po’ dovunque in Italia ed in Europa, non v’è dubbio che il regno borbonico manifestasse una significativa arretratezza anche in questo campo.

Le ferrovie
La propaganda neoborbonica annovera fra i cosiddetti “primati” del regno duosiciliano quello della prima ferrovia italiana.
E’ un fatto che il primo tronco ferroviario della penisola fu costruito a doppio binario da Napoli a Granatello di Portici (per soli km 7,640) per permettere ai Reali di raggiungere da Napoli la Reggia di Portici. Il 1 agosto 1842 la ferrovia aveva raggiunto Castellammare di Stabia e due anni dopo
Pompei e Nocera, ma lo sviluppo successivo fu molto lento. All'unità infatti la linea arrivava soltanto a Capua e a Salerno.
Nel Regno di Sardegna, con Regie Lettere Patenti n. 443 del 18 luglio 1844, Re Carlo Alberto dispose la costruzione della ferrovia Torino - Genova via Alessandria, che venne completata il 18 dicembre 1853 ed inaugurata il 16 febbraio 1854.
Seguì l'apertura di altri tronchi in Piemonte, la cui rete, nel 1859, collegava già tra loro le frontiere svizzere e francesi con quella austriaca del Lombardo - Veneto.
Alla vigilia dell'unità d'Italia, la rete piemontese assommava a 802 km, quella del Lombardo-Veneto a 522 km, quella toscana a 257 km e quella dello Stato Pontificio a oltre 100 km in esercizio, nonché altri 300 km circa (Bologna-Porretta e Bologna-Ancona) in costruzione.
Fanalino di coda la rete del Regno delle Due Sicilie, rimasta a 99 km, meno di 1/8 della rete del Regno di Sardegna e meno della metà di quella del Granducato di Toscana. Tra l’altro, la Sicilia avrà la sua prima ferrovia solo con la monarchia sabauda.
Partito per primo, il regno borbonico finisce dunque ultimo in classifica nel giro di pochi anni.
Le ragioni dell’inferiorità duosiciliana vengono chiarite, ad esempio, dal prof. Carmine Cimmino (op. cit.), che spiega come, relativamente ai settori strategici dello sviluppo economico e sociale, “le scelte di Francesco I e di Ferdinando II obbedirono a un “secretum imperii”: impedire ’ampliamento e il potenziamento del ceto borghese, bloccare la diffusione di una mentalità borghese”.
Insomma, a ben vedere, il “primato” vantato dalla propaganda borbonica non ha significato…

Il giudizio del popolo meridionale
Meno di 90 anni dopo la spedizione dei Mille, il popolo meridionale votò massicciamente a favore della monarchia sabauda non soltanto in occasione del referendum istituzionale (con una forte maggioranza in tutto il Meridione, nel Lazio ed in Sardegna. Napoli, ex capitale borbonica,
espresse l’80% a favore della Monarchia sabauda) ma anche in occasione delle elezioni politiche ed amministrative (successi monarchici a Bari, Benevento, Foggia, Lecce, Salerno etc).
Per esempio, il capoluogo partenopeo elesse diversi sindaci monarchici: al Prof. Avv. Giuseppe Buonocore (1946-48), voluto anche dall’allora Arcivescovo, il Cardinale Ascalesi, successero Achille Lauro (1952-57), Nicola Sanselli (1957), nuovamente Achille Lauro (1961) e Vincenzo Calmieri (1962-63).

Un giudizio incontrovertibile a favore di chi realizzò l’unità della Patria.
I fatti dimostrano come fra propaganda neoborbonica e verità storica vi sia un autentico abisso.
Non è nostro intento dimenticare i bravi soldati duosiciliani che hanno combattuto con coraggio e dignità per mantener fede al loro giuramento al Re, né il tentativo di Re Francesco II, figlio della Venerabile Maria Cristina di Savoia, di far fronte alle sue responsabilità ed ai tradimenti dei più alti gradi del suo esercito e della sua amministrazione.
Neppure crediamo sia giusto accollare a quel sovrano la responsabilità di decisioni prese quando non era ancora nato e che fecero prevedere a Metternich che la dinastia borbonica sarebbe morta di una “infezione” contratta durante i moti del 1820/21: la paura.
Auspichiamo però che si possa giungere presto alla condivisione, con buon senso, di un patrimonio storico nazionale, al quale tutti gli italiani hanno diritto. Il gioco al massacro della nostra memoria storica risorgimentale non giova a nessuno, mentre danneggia tutti e tende a privare le generazioni future di una memoria storica senza la quale l’identità nazionale non può dirsi completa.
Chi non sa da dove viene non sa dove va…
Concludiamo con le parole di alcune personalità di rilievo, certamente non sospettabili di particolari simpatie sabaude.
Giorgio Napoletano : Il 10 maggio 2010 a Marsala, il Capo dello Stato ha invitato a non "ripescare le vecchissime tesi, non degne di un approccio serio alla riflessione storica, di un Mezzogiorno ricco, economicamente avanzato a metà Ottocento che con l’Unità sarebbe stato bloccato e spinto indietro sulla via del progresso" ed ha concluso affermando come non valga neppure la pena di commentare "un nostalgico idoleggiamento del Regno borbonico". (“Il Giornale”, 11 maggio 2010)

Sergio Romano : “Credo che il dibattito meridionale sulle «colpe» storiche dei Savoia, di Cavour e di Garibaldi sia fondamentalmente sbagliato e in molti casi soltanto una sorta di contrappasso per l’insistenza con cui la storiografia risorgimentale ha esaltato la spedizione dei Mille e l’abilità del governo di Torino.
Attenzione, non vorrei essere frainteso. Credo che quella dei Mille sia stata una bella pagina di storia nazionale, ma sono convinto che il vero problema storico del 1860 non sia la conquista
del Regno meridionale.
La questione a cui i meridionali dovrebbero prestare maggiore attenzione è la rapidità del suo collasso. Dovrebbero chiedersi perché un vecchio Regno, dotato di buoni corpi militari (l’artiglieria, la Marina) e distinto, soprattutto nel Settecento, da alcuni intellettuali di grande qualità, si sia dissolto nel giro di poche settimane. Occorrerebbe individuare le ragioni storiche e le responsabilità di un evento così improvviso. La buona storia non si scrive per regolare vecchi conti. Si scrive per comprendere le cause di ciò che è accaduto e trarne qualche lezione”.
“Il Mezzogiorno non ha saputo cogliere tutte le occasioni che potevano essere colte dall’unità nazionale. E chi oggi rimpiange il sud come Stato economicamente e scientificamente avanzato,
ben amministrato, si attacca al mito. (“Corriere della Sera”, 1 luglio 2010).
E’ soltanto un mito quello dello Stato borbonico progredito. (…) Io credo che il Sud tutto sommato non possa negare i vantaggi avuti dall’unità, se si considera non solo il livello di alfabetismo, ma anche il livello dell’economia e della sanità” (dall’intervista in “L’Eco di Bergamo”, 24 aprile 2010).

Ernesto Galli della Loggia :
“Almeno nella sua vulgata di massa, quella del Sud si presenta come una protesta che non tiene assolutamente conto, non fa menzione neppure, di quello che pure tutti gli osservatori imparziali hanno indicato da decenni come tra i principali, o forse il principale ostacolo di qualunque possibile sviluppo del Mezzogiorno. Vale a dire la paurosa, talvolta miserabile pochezza delle classi dirigenti politiche meridionali, specie locali, protagoniste di malgoverno e di sperperi inauditi, ma che continuano a stare al loro posto perché votate dai propri elettori”. (“Corriere della Sera”, 29 agosto 2010)

Carlo di Borbone, Duca di Castro:
“L’Unità d’Italia è un fatto indiscutibile. Rimette in discussione il passato solo chi ne ha paura. E chi ha paura non va avanti”.
(“Corriere del Mezzogiorno”, 4 ottobre 2010)