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Partigiana precoce


Partigiana precoce


Facciamo due conti: L’anziana signora ha 78 anni. Diciamo che è diventata partigiana nel 1943, come tutti, grazie a Sua Maestà il Re, che deponendo Mussolini sgombrò il campo… siamo di fronte ad un fenomeno da baraccone. Costei sarebbe stata un combattente precoce, all’età di appena 3 anni...
Ora sappiamo che la maggior parte dei bambini sotto i 10 anni crede giustamente a Babbo Natale, ma che questo giornale creda di poterci prendere per il…  insomma, di prenderci in giro e rivoltante.
Possiamo comprendere che l’ANPI, ormai a caccia anche di clandestini per riempire le sue fila, non si faccia scrupoli di una “giovane” anziana signora, ma l’Ordine dei Giornalisti ha delle grosse responsabilità in questa buffonata.
È proprio l’Ordine dei giornalisti, che, non prendendo mai una misura contro questo sistema vergognoso di fare informazione, legittima l’errata preoccupazione per le Fake News, altro che ergersi a giudice e controllore. Per il bene della democrazia in questo Paese, facciamo qualche cosa! 

Churchill-Mussolini. il carteggio segreto?



Churchill-Mussolini. il carteggio segreto?
Le lettere tra un capo partigiano e una spia confermano l'esistenza del compromettente documento

di Matteo Sacchi
15 gennaio 2014

Il carteggio Churchill-Mussolini, uno dei documenti più misteriosi della storia contemporanea italiana, torna di nuovo a far parlare di sé. La vicenda è abbastanza nota al grande pubblico.

Prima e durante la seconda guerra mondiale il duce del fascismo e il primo ministro britannico intrattennero quasi sicuramente una corrispondenza riservata. Mussolini aveva custodito gelosamente quelle carte, soprattutto da quando le sorti dell'Asse si erano volte inesorabilmente alla sconfitta.


Cosa contenevano? Molto probabilmente aperture di Churchill verso il più fragile dei suoi nemici - l'ex primo lord dell'ammiragliato considerava la penisola italiana il ventre molle della «Fortezza europa» del nazifascismo. Il contenuto esatto di quegli scritti non è noto, ma nel marzo del '45 Mussolini confidò ad Alessandro Pavolini: «Questi documenti valgono per l'Italia più di una guerra vinta... perché documentano la malafede inglese». Probabilmente esagerava perché qualsiasi corrispondenza val ben poco a confronto con una disfatta militare. Però di certo se le tenne ben strette durante la sua fuga verso Dongo. Come ricostruito da alcuni storici, a esempio Luciano Garibaldi, il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, Benito Mussolini aveva con sé due borse piene di documenti contenenti - secondo le testimonianze - parte della sua corrispondenza con Churchill. Le due borse furono subito requisite dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”. Da quel momento il destino dei documenti diventa meno chiaro. Secondo alcuni testimoni, dopo la produzione di alcune copie, il 4 maggio 1945, il materiale fu esaminato da una commissione formata, tra gli altri, dal segretario della Federazione comunista locale, Dante Gorreri, e dal nuovo prefetto di Como, Virginio Bertinelli.

Era materiale scottante, ma forse i partigiani non capirono quanto. Sta di fatto che poi accadde l'incredibile: il 2 settembre 1945, a nemmeno due mesi dalla conclusione della guerra, dopo aver perso le elezioni e non più primo ministro, Winston Churchill si recò sul lago di Como, a trascorrere una breve vacanza nella Villa Apraxin di Moltrasio, dietro falso nome. Forse si trattò di una missione di recupero aiutata e gestita dai servizi segreti inglesi. Infatti dopo quel momento del famoso carteggio non si ebbe più traccia.

Ora a questo quadro si aggiunge un nuovo tassello. In una ricostruzione dello storico Roberto Festorazzi pubblicata sul nuovo numero di Oggi emerge che in questo intrigo internazionale ebbe un ruolo rilevante anche un agente dei servizi segreti italiani, Bruno Piero Puccioni (1903-1990). Puccioni era stato un fascista della prima ora e già nella Repubblica sociale in qualità di agente aveva svolto il ruoli di collegamento tra fascisti, partigiani e alleati (le parti si parlavano molto più di quanto si creda). Da una villa del borgo di Damaso, non lontano da Dongo, Puccioni era riuscito a stabilire buoni rapporti con i partigiani moderati tra i quali il nobile fiorentino Pier Luigi Bellini delle Stelle, comandante della 52ª Brigata. Puccioni cercò di elaborare un piano per salvare Mussolini e consegnarlo agli americani. Il piano fallì e Mussolini venne fucilato (non è qui il caso di riaprire la discussione annosa se per volontà partigiana o con una spintarella degli agenti inglesi).
Quel che è certo è però che Puccioni e Bellini delle Stelle cercarono anche nel dopoguerra di rimettere le mani sul carteggio. Festorazzi ha ritrovato alcune delle loro missive. Così scrive, secondo Oggi e Festorazzi, Bellini delle Stelle a Puccioni il 7 maggio del '49: «Il carteggio pare sia andato a chi già supponevamo, ma seguendo tutt'altra via da quella che ho dapprima seguito... Pare però che seguendo questa via si possa giungere ad entrare in possesso di una copia fotografica di tutti i 63 fogli...». Il piano dei due ex nemici-amici evidentemente non andò a buon fine. Secondo Festorazzi speravano con quelle carte di far tornare Trieste all'Italia. Di certo questa è un'ulteriore conferma dell'esistenza del carteggio e di quale strada probabilmente prese.

Come spiega al Giornale Francesco Perfetti, contemporaneista della LUISS Guido Carli di Roma: «Che il carteggio sia esistito ormai è un fatto che negano soltanto alcuni storici inglesi, più che altro per un non molto sensato amor di patria». E che potesse essere compromettente? «All'epoca senz'altro, chiaro che potesse imbarazzare il primo ministro inglese, anche se non va sopravvalutato. Non credo ci sia al suo interno qualcosa che possa cambiare la Storia. Al massimo le prove di quella Realpolitik che si pratica sempre in tempo di guerra e che era un tratto chiaro e noto del modo di operare di Churchill. Quanto alla simpatia umana che molti conservatori inglesi e Churchill provarono a lungo prima della guerra per Mussolini è cosa nota anche quella».


Occhetto: "Fino all'89 non sapevo cosa fossero le foibe"



Occhetto: "Fino all'89 non sapevo cosa fossero le foibe". È vittima della sua stessa disinformazione?

L'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo. È vittima della sua stessa disinformazione?

di Riccardo Pelliccetti
13 gennaio 2014

Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali.


Quei massacri di migliaia di italiani a fine guerra sui confini orientali sono stati nascosti e negati talmente a lungo da apparire quasi una leggenda. Forse per questo Achille Occhetto, ex segretario del Pci, che con il suo partito ha contribuito a far credere che non esistessero, afferma candidamente in un’intervista: “Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la svolta della Bolognina. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza”. D’altronde è stato l’ultimo leader dei comunisti italiani, maestri nella propaganda e nel distorcere la verità. E perciò può essere rimasto vittima della sua stessa disinformazione se ha scoperto un pezzo di storia solo nel 1989. Oppure continua a mentire come hanno fatto i suoi compagni per quasi mezzo secolo, raccontando che gli esuli dell’Istria, Fiume e Dalmazia non erano semplici italiani in fuga dalle stragi comuniste ma fascisti che scappavano per i loro misfatti. Un messaggio che aveva già fatto presa nel 1947. C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi  si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima.

La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento. Ma è stato impossibile seppellire la memoria: troppi profughi, troppi testimoni e quella destra che alimenta i ricordi. E poi c’è Trieste, che Occhetto conosce bene, città decorata con la medaglia d’oro al valore militare dal capo dello Stato, nella cui motivazione c’è scritto “…subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria…”. Tutti sapevano delle foibe, anche se era scomodo e sconveniente parlarne. Per questo motivo facciamo fatica a credere che il prode Achille l’abbia saputo così tardi. Fosse stato per il Pci, probabilmente non se ne sarebbe mai parlato, ma per fortuna è stato sconfitto dalla storia. E al grande libro dei fatti è stata aggiunta quella pagina strappata.

I partigiani ammettono la vergogna di esodo e foibe



I partigiani ammettono la vergogna di esodo e foibe

Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale

Da Padova, Fausto Biloslavo – 01.12.2013

Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani.

Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso».


Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni».

Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità».

Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle “prove di dialogo” con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe.

In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

http://www.ilgiornale.it/news/cultura/i-partigiani-ora-ammettono-vergogna-esodo-e-foibe-972396.html

La costituzione e la monarchia



La costituzione e la monarchia

di Riccardo Scarpa
Da : L’Opinione - Edizione 82 del 29-04-2008

Le riflessioni sulla “Resistenza” del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, hanno riaffermato, nell’occasione dell’ultimo 25 d’aprile, un profilo alto del garante delle libere istituzioni e della coscienza nazionale. Con quel ricordo rispettoso d’ogni caduto, a prescindere dalla scelta compiuta in momenti difficili, ed al contempo con quel esigere rispetto per la storia, per quanto attenga ai principî fondanti dello Stato libero. Ne risulta la conferma d’un profilo della suprema magistratura dello Stato tanto morale quanto, direi, fisica, da re, quale un Umberto che non avesse patito i risultati referendarî alla Romita e fosse lì, ringiovanito, con una sua naturale tendenza ad una «monarchia socialista», quella ipoteticamente saragattiana e non l’obiettivo polemico del Missiroli prefascista. Detto questo, si consentano dei rispettosi rilievi storiografici, indispensabili proprio per rimarcare i principî fondanti d’un senso di patria che possa essere condiviso appieno. 


Il Capo dello Stato, nel discorso di Genova, avoca alla «Resistenza» il merito d’aver fatto sì che la nuova Costituzione del 1947-48, promulgata da Enrico De Nicola, sia frutto d’un Assemblea costituente eletta a suffragio universale diretto, al contrario delle due altre date alle potenze dell’«asse» sconfitta. Queste ultime, infatti, o sono frutto, come la «Legge fondamentale» della Repubblica Federale di Germania, di opera dei Länder locali sotto controllo delle potenze occidentali, con l’approvazione d’una Consulta costituzionale eletta per modo di dire, oppure, come in Giappone, direttamente date per ispirazione dello stesso generale Douglas Arthur MacArthur, comandante delle forze alleate del Pacifico. Questo avvenne, però, per tre circostanze che debbono essere rese esplicite. Sono le scelte del re Vittorio Emanuele III e del principe Umberto quale luogotenente generale del Regno, nei difficili frangenti fra la fine dell’ultimo governo Mussolini, il 25 luglio del 1943, l’8 settembre successivo e la ricostituzione delle Regie forze armate col I Raggruppamento motorizzato e, poi, Corpo italiano di liberazione.

Queste scelte furono:
1)         la tanto discussa decisione, costituito un Governo che liberasse lo Statuto dalle sovrastrutture fasciste, nelle difficili circostanza generate da modi e forme nelle quali gli anglo-americani resero noto l’armistizio, di «mettere al sicuro» i vertici istituzionali da rappresaglie germaniche per conservare la continuità dello Stato italiano, esattamente come fece Stalin nell’Unione Sovietica, riparando in gelide regioni interne distanti da Mosca per leghe non paragonabili al tiro di schioppo che separa Roma da Brindisi o Salerno, e non prendendo neppure in considerazione di riparare all’estero, come fecero i sovrani d’Olanda o Belgio e fece il generale Charles De Gaulle, per «dirigere la resistenza francese»;
2)         l’allaccio immediato di contatti istituzionali con gli alleati, che perciò non occuparono mai le province sotto controllo del regno, e ne riconobbero la sovranità sui territorî mano a mano liberati, sino a riaccreditare a Roma le rispettive rappresentanze diplomatiche una volta liberata la capitale;
3)         la immediata e spontanea resistenza, checché se ne dica, di molte unità militari agli occupanti germanici nella penisola, nelle isole greche e nei Balcani, e la ricostituzione di Forze armate regolari, combattenti con valore al fianco degli alleati, dalla partecipazione alla battaglia di Montelungo del I Raggruppamento motorizzato, nel dicembre del 1943, alla costituzione del Corpo italiano di liberazione (un corpo d’armata) nell’aprile del 1944, coi Gruppi di combattimento (divisioni) Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova i Piceno, cioè d’un esercito di 413.000 uomini, coadiuvato da una marina di 83.000 uomini e un’aeronautica di 31.000, è a dire di Forze armate che hanno lasciato sul campo 87.000 caduti tra l’8 settembre del 1943 e l’8 di maggio del 1945, alle quali s’aggiungono gli 80.000 militari presenti nelle formazioni partigiane ed i 590.000 internati dai Germanici, poiché rifiutarono con essi ogni collaborazione, pel giuramento reso al Re ed alla Patria.

Tutto ciò ha impedito che lo Stato italiano abbia dovuto subire alcuna «debellatio», cioè annullamento della sua esistenza statuale. Proprio quanto, invece, venne imposto alla Germania rappresentata dall’ammiraglio Karl Dœnitz, per conto del governo d’affari formato dal conte Johann Schweirn von Krosigk per trattare una resa che fu incondizionata. Situazione espressa nella «legge» promulgata, il 25 di Febbraio del 1946, col n°46, da parte del Comitato di Controllo interalleato che dispone: «Lo Stato prussiano, insieme col suo governo centrale ed i suoi ufficî, è abolito». A parte il tono ridicolo dell’enunciato, che è come se gli alleati, nel 1943 o nel 1945, avessero abolito il Regno di Sardegna, sta in fatto che lo Stato italiano, per le tanto discusse scelte politiche del momento di S. M. il Re Vittorio Emanuele III, e del suo governo, non subì una simile «debellatio», e per tanto fu pienamente sovrano nel scegliere come e con quali forme riformare il proprio ordinamento costituzionale. Se, poi, le modalità scelte per decidere la forma di Stato e di Governo furono quelle del referendum e dell’elezione d’un Assemblea costituente, votati per suffragio universale e diretto, ciò lo si deve a decreti legislativi luogotenenziali di Umberto di Savoia.

Infatti re Vittorio Emanuele III, col Regio decreto del 2 agosto 1943, n.705, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni e dichiarato, così, chiusa la XXX legislatura, ma le elezioni per la nuova Camera si davano per rinviate alla fine delle ostilità, e nelle more il potere legislativo veniva assunto dal governo, con decreti legge, che comunque mantenevano la clausola della presentazione al Parlamento per la conversione. Il sovrano, cioè, si limitò ad agire nell’ambito statutario, in attesa che le circostanze politiche consentissero il normale funzionamento dello Statuto Albertino. È con la nomina d’Umberto a luogotenente generale del Regno, che quest’ultimo, alla fine di tutto un processo politico, con decreto legislativo luogotenenziale del 25 giugno del 1944, n°151, che onestamente gli editori dovrebbero pubblicare a premessa storica della Costituzione vigente, si prevede l’elezione a suffragio universale diretto dell’Assemblea costituente e lo svolgimento del referendum sulla forma istituzionale dello Stato.

Quindi, la nazione ha scelto liberamente le sue forme costituzionali per due fatti storici concreti: la permanenza dello Stato sovrano nato dal Risorgimento, procurata da scelte, rivelatesi opportune e corrette, colle quali Re Vittorio Emanuele III ha concluso il suo lungo regno; una volontà politica democratica, rappresentata con fedeltà dalla luogotenenza e dal breve regno di Umberto II.
Se, poi, un personale politico miope, nelle sue visioni di prospettiva storica, tiene ancora le ossa dei protagonisti lontane dal Pantheon risorgimentale, ciò lo si deve alla mancanza di coraggio con cui lor signori affrontano ogni giorno quel referendum diuturno che, come scriveva Ernest Rénan, è la nazione: il sentimento della quale, proprio per questo, continua a perdere il referendum ogni giorno, esclusi quelli in cui gioca la nazionale.