Cinque giornate di Milano - Lotta senza quartiere

La gloria delle cinque giornate di Milano
La lotta senza quartiere

Durante la notte tra il 18 ed il 19 marzo 1848, il Conte Casati, non credendosi più sicuro in casa Visiberti, si trasferì a palazzo Taverna in via dei Bigli, che divenne il nuovo quartiere generale dell'insurrezione e la sede del comitato dirigente, composto dallo stesso Casati, dagli assessori Beretta, Vitaliano Borromeo, Giuseppe Durini, Pompeo Litta, Gaetano Stringelli, Anselmo Guerrieri Paolo Bassi ed Enrico Guicciardi.
Il giorno 19 marzo il cielo, tornato sereno, vide tutta la città in armi stretta in un cerchio di nemici.
Gli austriaci occupavano i bastioni, le porte, e i punti strategici anche con artiglierie, ma la città al suo interno era un ribollire di popolo. Dappertutto si faceva a gara nel costruire barricate, che sorgevano a centinaia agli sbocchi e alle strozzature delle vie, agli incroci e agli ingressi delle piazze. Dovunque si combatteva con ardore ed accanimento. Gli Austriaci, sempre più irritati della resistenza che incontravano; i Milanesi sempre più audaci e decisi a liberare la città dal nemico.


“I nemici - scrive La Farina - provarono a inoltrarsi da Porta Orientale, e giunsero fino al Seminario, ma furono costretti a ritirarsi. I Tirolesi continuavano a molestare i cittadini da dietro i trafori marmorei del duomo, gli Ungheresi difendevano con vivissimo fuoco la corte, i poliziotti combattevano con quell'audacia che è figlia della disperazione; ma i finanzieri, i pompieri e buona parte dei gendarmi italiani si erano uniti al popolo. I seminaristi uscirono pure loro nella via e la sbarrarono con letti, cassettoni, scaffali, libri e fagotti. In tutta la città si combatteva con grande impeto e valore, ma non in modo ordinato; ciascuno faceva da sé, spronava e il proprio ingegno consigliava secondo l'ira e il furore.... I birichini milanesi, appiattiti dietro agli steccati, alzavano i cappelli e i berretti in cima a delle aste e tenevano così a bada i nemici, che sparavano furiosamente per ore intere contro quei zimbelli, fra le risa ed i fischi di quelli che guardavano.
Per scoprire e sapere quello che accadeva in altri luoghi della città e sui bastioni e fuori, astronomi ed ottici stavano su i campanili, e di là gettavano biglietti legati a un anello di ferro che correva lungo un filo di ferro, per non perder tempo nello scendere e salire le lunghe scale. I chimici fabbricavano polvere e cotone fulminante, gli ingegneri ordinavano difese e ripari, i meccanici tentavano di costruire cannoni di legno cerchiati di ferro; gli allievi dell'Orfanotrofio, con meravigliosa prestezza passavano fra i combattenti, attraversavano gli steccati delle barricate e portavano qui e là, biglietti e dispacci. Dappertutto una continua e sanguinosa battaglia; e le donne incitavano i mariti, i fratelli, i figlioli, li chiamavano e li sospingevano in aiuto dei combattenti".

Durante la giornata, sulla piazza dei Mercanti, gli insorti catturarono un cannone ed espugnarono Porta Nuova su cui il nizzardo Augusto Anfossi piantò il tricolore.

Prove di grande valore e di grande perizia nel dirigere le operazioni le diedero Luciano Manara, Anfossi appunto, Enrico Dandolo, Luigi della Porta, Emilio Morosini e Luigi De Cristoforis.

Giuseppe Broggi, trentaquattrenne, famoso tiratore, appostato nel vicolo Rosini, spazzò con i suoi tiri precisi i nemici che avanzando dal bastione tentavano di occupare via Monforte; uccise parecchi ufficiali austriaci fra cui il Generale Volman. Morì perché colpito da una palla di mentre faceva fuoco all'angolo del Corso con la sua infallibile carabina. Fine gloriosissima !

Il giorno 20 marzo, la battaglia riprese con una furia ancora maggiore. Il Podestà Casati ricostituì la Commissione municipale allo scopo di "mantenere qualche ordine ed assicurare il rispetto alle proprietà e alle famiglie", avvertendo però che intendeva "agire e restare nei limiti della più stretta legalità". Su proposta di Cattaneo, per meglio disciplinare le operazioni di guerra, fu costituito un Comitato di guerra, del quale fecero parte lo stesso Cattaneo, con Pompeo Litta, Giorgio Clerici, Giulio Terzaghi, Enrico Cernischi Carnevali, Dissoni e Torelli.

Il Comitato di guerra servi infatti a dare le priorità su cui concentrare gli sforzi. Furono infatti coordinate azioni per sgombrare il prima possibile i nemici che occupavano ancora il centro della città e che, affamati e quasi privi di munizioni, avevano già ricevuto l'ordine di ritirarsi nel Castello. Fu così riconquistato dai cittadini il Broletto e caddero nelle mani degli insorti piazza dei Mercanti, il palazzo Reale, il palazzo di Giustizia e quello della Polizia.
Torresani, il capo della polizia, travestito da normale gendarme, si era rifugiato durante la notte nel Castello, abbandonando la famiglia, che comunque fu rispettata; il famigerato Bolza fu invece catturato in un nascondiglio e sottratto all'ira popolare soltanto dal Conte Vitaliano Borrromeo.
"Se lo ammazzate - disse Cattaneo - fate una cosa giusta; se non lo ammazzate fate una cosa santa"; e il popolo capi ! venne lasciato in vita. Uomo senza onore che si era venduto al nemico della patria. Preso il Palazzo di Giustizia, furono scarcerati i detenuti politici, tra questi, Filippo Villani, Manfredo Camperio, Giuseppe Branbilla, Ercole Salvioni ed Alessandro Borgazzi, appena liberi, si armarono e corsero alle barricate !
Anche la zona Duomo, e sul duomo stesso, quel giorno, gli Austriaci furono cacciati; snidati uno ad uno i cacciatori tirolesi dalle guglie. Luigi Torelli di Sondrio e Scipione Bagaggin di Treviso, scalarono la guglia più alta piantarono il tricolore accanto alla Madonnina !

Due tentativi furono fatti per porre termine alla lotta : uno del Radetzky, che, per mezzo del Maggiore Ettinghausen, propose una tregua di quindici giorni durante i quali i combattenti avrebbero conservato le rispettive posizioni. Era un modo per prendere tempo ed organizzarsi, e fu chiaramente respinta; l'altra proposta fu dei Consoli stranieri presenti in città, i quali, avendo protestato contro la minaccia del Radetzky di bombardare Milano, ricevettero dal Maresciallo una lettera in cui egli diceva che :

"per rispetto ai governi che rappresentavano sospendeva le misure severe che si obbligava di prendere contro Milano sino all'indomani, giorno 21, a patto che ogni ostilità cessasse dalla parte avversa".

Per tutta risposta, il 21marzo, la lotta diventò ancora più aspra e serrata. Si proseguì metodicamente negli assalti dei pubblici edifici ancora occupati in mano allo straniero : il palazzo del Genio, il palazzo del Comando Generale a Brera, il collegio di San Luca, le caserme di San Francesco, di S. Apollinare, di S. Simone, di San Simpliciano, di S. Vettore, di S. Eustorgio.
Tra queste, difficile fu l'occupazione del palazzo del Genio, difeso da centosessanta soldati. Il Nizzardo Anfossi, che dirigeva le operazioni d’assalto, per fiaccare la resistenza dei difensori, si era appostato nel palazzo del Monte di Pietà, puntando contro la porta principale dell'edificio un piccolo cannone; si stava per tirare il terzo colpo quando una palla di moschetto lo colpì in piena fronte, dandogli solo il tempo di dire “Dio e Patria”. Aveva trentasei anni; era andato esule in Francia nel 1832, poi si era recato in Egitto e aveva combattuto valorosamente sotto Ibrahim Pascià guadagnandosi il grado di colonnello; andato a Smirne e datosi al commercio si era arricchito, ma ai primi segni di riscossa italiana era tornato in Patria, ed era giunto a Milano pochi giorni prima che scoppiasse la rivoluzione.

Questa perdita fece raddoppiare gli sforzi e l’audacia dei Milanesi contro il palazzo del Genio. Mentre Manfredo Camperio tentava di abbattere la porta con una scure, spuntò un popolano sciancato, di nome Pasquale Sottocorno che, sfidando il fuoco austriaco accatastò contro il portone fasci di paglia e di fieno appiccandovi il fuoco. Gli austriaci furono cos’ costretti ad arrendersi.
Questo valoroso morì nove anni dopo, il l° ottobre del 1857, a Torino, esule e dimenticato, costretto a guadagnarsi da vivere facendo il ciabattino.

Mentre la lotta infuriava e il peggio toccava agli Austriaci che venivano spinti sempre più verso la periferia, i Consoli stranieri tentarono nuovamente di far cessare le ostilità proponendo queste condizioni :

1° sospendere le ostilità per tre giorni continui incominciando dalle sei pomeridiane dello stesso giorno 21 marzo;
2° pochi colpi nonostante la tregua, qualora tirati da una parte o dall'altra non avrebbero avuto motivo di rottura della sospensione delle ostilità;
3° poter introdurre liberamente in città i viveri e i corrieri, e lecito a chiunque di uscirne;
4° il Maresciallo Radetzky poteva impedire l'ingresso ai campagnoli specialmente se armati".

Anche questo, era un cessate il fuoco che avrebbe giovato solamente a Radetzky che già aveva chiesto rinforzi da Verona. Non venne quindi accettata e i consoli dovettero riferire Feld Maresciallo una orgogliosa deliberazione della città :

"Il magistrato municipale ha naturalmente un'autorità limitata dalla forza delle cose, per cui potrebbe compromettere la propria lealtà se s' impegnasse in una tregua che difficilmente gli potrebbe venir concessa di mantenere, visto l'ardore della popolazione che vuole combattere" .

La speranza della vittoria ormai, sorrideva ai Milanesi, e questa, dati i successi ottenuti, sembrava prossima ad essere raccolta. Erano coscienti di ciò, anche le popolazioni della campagna intorno alla città, perché informati dai Milanesi per mezzo di proclami e messaggi affidati a palloni.
Uno di questi diceva :

"Noi gettiamo dalle mura questo foglio per chiamare tutte le città e tutti i comuni ad armarsi immediatamente in guardia civica, facendo capo alle parrocchie, come si fa a Milano; di ordinarsi in compagnie di cinquanta uomini, si eleggeranno ciascuna un comandante e un provveditore, per accorrere ovunque la necessità della difesa lo imponga. Aiuto e vittoria !".

Un altro ancora affermava : "Fratelli ! La vittoria è nostra. Il nemico in ritirata limita il suo terreno al castello e ai bastioni. Accorrete; stringiamo una porta tra due fuochi e abbracciamoci".

Dalle campagne e dai paesi vicini si era subito risposto all'appello dei prodi Milanesi.
"Per dodici miglia all'intorno - scrive La Farina - si vedevano andare sulle strade carri pieni di gente armata; bande di contadini ovunque s'incontravano; si udivano dappertutto grida di esortazione, di letizia e tanti viva all'Italia, viva Milano”

Cinquecento armati dalla Svizzera italiana, riuniti ai montanari del lago di Como ed alla più animata gioventù di quella città, fanno prigionieri mille e duecento croati, combattono a Monza e giungono sotto le mura di Milano, e qui si ingrossano con altre due schiere: l'una delle quali aveva preso trecento prigionieri a Varese, mentre l'altra veniva dal Lago Maggiore, “sfuggita” alle guardie piemontesi che avevano ordine di disarmarla (!). Altra schiera era giunta dalla parte di mezzogiorno: un certo Gui, che la guidava, era morto gloriosamente sotto le mura di Milano, e un insorto di nome Trabuchi, catturato dai nemici a Lodi fu fucilato. L'ingegnere Alessandro Borgazzi, dopo avere condotto attraverso la ferrovia parecchie migliaia d'uomini, penetra arditamente in città, concerta con il consiglio di guerra un attacco da dentro e da fuori; torna a raggiungere e a mettersi il testa alle sue schiere, ma il giorno seguente nell'azione resta ucciso.
Durante la notte, prevedendo la vittoria, l'amministrazione municipale si trasformò in Governo provvisorio, dando la notizia al popolo con questo proclama :

"L'armistizio offertoci dal nemico fu da noi rifiutato, ad istanza del popolo che vuol combattere. Combattiamo dunque con lo stesso coraggio che ci fece vincere in questi quattro giorni di lotta, e vinceremo ancora. Cittadini, riceviamo con piede fermo quest'ultimo assalto dei nostri oppressori, con quella fiducia che nasce dalla certezza della vittoria. Le campane a festa rispondano al fragore del cannone e delle bombe; e venga pure il nemico, noi sappiamo lietamente combattere e lietamente morire. La patria adotta come suoi figli gli orfani dei morti in battaglia ed assicura ai feriti gratitudine e sussistenza. Cittadini, questo annuncio viene fatto da' sottoscritti costituiti in Governo provvisorio, che, reso necessario da circostanze imperiose e dal voto dei combattenti, viene così proclamato: Casati, Presidente; con Vitaliano Borromeo, Giuseppe Durini, Pompeo Litta, Gaetano Stringelli, Cesare Giulini, Antonio Beretta, Marco Greppi, Alessandro Porro e Cesare Correnti, segretario generale".

Contemporaneamente il Comitato di guerra comunicava ai cittadini :

"Ottomila uomini raccolti dalla campagna stanno per darvi la mano; le truppe straniere domandano tregua; non lasciate tempo ai discorsi. Coraggio! Finiamola per sempre. L'Europa parlerà di voi; la vergogna di trent'anni è lavata. Viva l'Italia ! Viva Pio IX".

E il classico “Viva Pio IX” compare molte volte, non manca quasi mai, lo si scrive e lo si grida ovunque. Pio IX è ormai una bandiera per i liberali non solo moderati, ma anche quelli più accessi, e persino degli anticlericali, il simbolo del risveglio e dell’orgoglio nazionale, ma il Governo provvisorio deve già allora “lavorare” per mantenere la concordia tra le fazioni degli insorti con un secondo proclama necessario a evitare dissidi tra gli “Albertisti” pro Carlo Alberto e Cattaneo a causa di una richiesta di aiuto che questi avevano inoltrato al Re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia. Questo il testo :

“Cittadini, finché dura la lotta non è opportuno mettere in campo opinioni sui futuri politici destini di questa nostra carissima Patria. Noi siamo chiamati per ora a conquistarne l'indipendenza, ed i buoni cittadini di null'altro devono adesso occuparsi fuorché di combattere. A causa vinta, i nostri destini saranno discussi e fissati dalla nazione".

Alberto Conterio