Al Presidente Giorgio Napolittano.
“sofferenze subite dagli sloveni a causa del Fascismo”
“sofferenze subite dagli sloveni a causa del Fascismo”
di Filippo Giannini
Avevo promesso che sarei tornato sull’argomento circa le asserzioni del Presidente Giorgio Napolitano e le “sofferenze subite dagli sloveni a causa del Fascismo”. Mi avvalgo di una testimonianza del bersagliere Mario Sorrentino, combattente prima in Africa Settentrionale, e dopo l’8 settembre 1943, volontario nella Guardia Nazionale Repubblicana nella Rsi.
Mario, scomparso da diversi anni, mi lasciò un suo Diario, probabilmente con l’intento di far conoscere la sua vita. Farò in modo, se ne avrò le possibilità di accontentarlo.
Ecco una delle testimonianze di Mario Sorrentino, dedicata al Presidente Giorgio Napolittano.
“(…). La notte passò lenta e all’alba uscimmo tra i binari in attesa del nostro treno che si stava formando.
Qualche cosa di strano colpì la nostra attenzione fino ad assorbirla completamente.
La sera prima un lungo convoglio di vagoni merci era stato portato sulla linea. Tutte le carrozze erano chiuse, sigillate. Un rumore oscuro partiva da esse, tale che noi credemmo si trattasse di trasporti di bestiame.
Uscendo insonnoliti, al mattino vedemmo il treno ancora lì, e incuriositi ci avvicinammo.
Era scortato da ùstascia, quei terribili soldati croati eredi di tutta la crudele anima balcanica. Le finestrelle in alto erano sbarrate, e graticciate di fil di ferro. Erano una trentina di vagoni, gremiti di serbi deportati dai croati.
Quelli che potevano se ne stavano arrampicati alle sbarre delle finestrelle e leccavano su di esse l’umidità della notte. Si tenevano sù a forza di braccia e il loro collo lasciava vedere i tendini tesi che sembravano spezzarsi da un momento all’altro. I loro occhi esprimevano lo spasimo.
Dall’interno giungeva sino a noi, nel fetore opprimente della promiscuità, l’eco selvaggio della sofferenza e della miseria.
Accenti lamentosi di bimbi, grida isteriche di donne, voci rauche di uomini resi folli dalla paura e dal tormento. Inferno dantesco lasciato indovinare dalle pareti dei vagoni, sorde e mute.
“Cavalli 8, uomini 40”. In tutte le lingue del mondo, su tutti i vagoni merce. E su quelli, centinaia di infelici a brancicare nello sterco e nel buio. L’odore della carne ammassata e sudante faceva torcer la testa e stimolava i conati del vomito.
Ho visto una volta un autocarro di pecore traversare, puzzando, una via della mia città. Erano ingabbiate e in ordine e avevano il loro strame, compiansi quelle bestie. E quelli erano uomini. Di quell’umana specie di cui, da secoli, si proclama la dignità e la libertà. Ed altri uomini li avevano rinchiusi lì dentro. Gli uni si chiamavano serbi, gli altri croati, e nessuno più “uomo”.
Lo sgomento e lo sdegno erano nei nostri cuori. Avevamo vent’anni e andavamo a combattere perchè fosse resa giustizia al popolo italiano. Stavamo attoniti dinanzi al vagone.
Qualcuno di quei disgraziati ci scorse, lesse nei nostri occhi, riconobbe la nostra uniforme e la pietà che non aveva dai fratelli, la chiese a noi, ai nemici.
Una voce lamentosa, disse in un rantolo: “Bono taliano, VODÈ”.
Gli italiani hanno dipinta sul volto la loro bontà o dabbennaggine. Tutto il mondo, quando non ci opprime o deruba, quando ha bisogno di noi, dice: “Bono, taliano”.
Quella voce aveva un accento di bestia. Quella parola “acqua” incendiò il vagone, e subito, lungo tutto il convoglio, fu un solo tremendo coro, una allucinante richiesta: “Vodè’ vodè”, “Acqua, acqua”.
Non bevevano, in luglio, da tre giorni.
Fui colto da una sete irresistibile, che mi arse la lingua, mi fece secca la pelle e mi annebbiò lo sguardo.
“Bono taliano, vodè’, vodè”.
E questi “boni”, stupidi italiani, che son sempre tali con gli altri e mai con sè stessi, questi “boni taliani” che eravamo noi sedici, venimmo alle mani con la scorta, la sopraffacemmo e demmo a quei Cristi sulla Croce, quasi tutti ebrei, non aceto, ma acqua.
Lavorammo come invasati un’ora e più. Li vedemmo bere e bere. Vedemmo i figli strappare l’acqua da sotto la bocca dei padri, vedemmo una mamma che serbava un pò d’acqua nel portasapone per il suo bambino. Demmo acqua e poi acqua, coi secchi e con le boracce. Loro si attaccavano al collo avidi, ed era più la perduta che la bevuta.
Continuammo finchè fu necessario, portando acqua, bestemmiando la nostra pietà e la crudeltà degli ùstascia, finchè tutti ebbero bevuto, finchè vedemmo i loro occhi, a poco a poco, farsi chiari, tornare umani, le loro facce distendersi. Qualcuno vomitava e vomitava acqua.
Mentre il nostro treno si avvicinava, uno di noi, il romano Donati, che più degli altri aveva lavorato e imprecato, prese, prima di allontanarsi, la sua razione di viveri a secco e la gettò su di un vagone. Tutti facemmo così, e rimanemmo digiuni, mentre sui vagoni si contendevano, a morsi e pugni, le nostre gallette.
Povero Donati, chi Ti ammazzò, un anno dopo, se non gli stessi, o i figli o i fratelli degli stessi, cui tu avevi dato la tua galletta?
Ti uccisero …”Porco taliano”.
Dal “Diario” di Mario Sorrentino
Volontario G.N.R. nella R.S.I.
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