DS.040 - L’invenzione del Tradimento

Da Giorgio Rochat : l’invenzione del tradimento

25 ottobre 2007 - Conferenza

L’invenzione del tradimento

La rapida progressione dei reparti austro-tedeschi era così imprevedibile e incontenibile da suscitare disorientamento a tutti i livelli, poi dubbi crescenti, infine voci incontrollabili sulla crisi delle truppe. Non è possibile ricostruire il clima convulso di sconforto e speranze dei giorni di Caporetto, l’unica fonte sono i diari degli ufficiali inferiori che Mario Isnenghi ha raccolto e studiato. La loro reazione immediata è il rifiuto, poi il disorientamento, nessuno riesce a capire quanto sta succedendo, anche per la mancanza di informazioni (la rigida censura sulla stampa finì soltanto il 1° luglio 1919). La conseguenza fu la diffusione della leggenda di Caporetto come disastro dovuto in sostanza alla crisi dei soldati (non dei comandi, le accuse a Cadorna, Capello, Badoglio e altri vennero dopo), con molte varianti: tradimento, rivolta mancata, sciopero militare, collasso di truppe logorate dalla trincea, una sorta di ubriacatura collettiva dei soldati, e altro ancora. Se ne trova una traccia anche nella nota Canzone del Piave. Una leggenda che esplose nelle battaglie politiche sulla gestione del conflitto dell’estate 1919 con la pubblicazione dell’Inchiesta su Caporetto , ma continuò a vivere anche quando finirono le polemiche e la guerra divenne indiscussa e poi sacralizzata. Una leggenda strumentalizzata dal regime fascista, che cercava una legittimazione come protagonista della riscossa patriottica contro i traditori e disfattisti di Caporetto. E che continua a pesare oggi come immagine negativa dell’esercito e del soldato italiano.

Impiego il termine di leggenda perché questa visione di Caporetto non ha mai avuto un riscontro concreto nelle vicende della battaglia, né un qualche appoggio documentario. Negli studi di Pieri e Bencivenga, poi Monticone, nella Relazione dell’Ufficio storico dell’esercito, infine nel recente fervore di studi settoriali e documentati, anche con fonti nuove (rinviamo alle comunicazioni di questo convegno) la sconfitta viene ricondotta nei suoi termini militari: nessun tradimento o “sciopero militare”, nessun cedimento dovuto al rifiuto dei soldati. Fu la rapida e inattesa avanzata delle truppe austro-tedesche a determinare la facile resa o lo sbandamento di molti reparti nei primi giorni. Sbandamenti che si moltiplicarono nella ritirata, si dimentica spesso che buona parte degli uomini che ripiegarono in disordine appartenevano alle retrovie dell’esercito, centinaia di migliaia di non combattenti. Si dimentica anche che i primi a perdere il controllo della situazione furono i comandi, Cadorna e i generali, come è stato poi denunciato con ampiezza di dettagli e aspre polemiche.

Torniamo al punto di partenza, il disastro di Caporetto rientra nella norma della guerra, la leggenda che ne addebita la responsabilità ai soldati non ha base scientifica. Vale però la pena di ricordare che il padre della leggenda, il primo a parlare di tradimento delle truppe, fu Cadorna. Anche altri generali, come Badoglio e Caviglia, denunciarono il cedimento di alcune brigate (più tardi fecero ammenda), ma non avevano un accesso ai mass-media. Cadorna invece poteva parlare al governo e all’opinione pubblica con i suoi bollettini, era il maggiore responsabile della guerra, il generale che avrebbe dovuto difendere l’onore dei suoi soldati.

Nei miei primi studi sulla Grande Guerra avevo dato un giudizio piuttosto positivo di Cadorna (si veda la voce che gli ho dedicato nel Dizionario biografico degli italiani), ma allora il primo problema era di difendere il suo operato complessivo da un’altra leggenda, che addebitava alla sua ristrettezza di visione (o peggio) gli orrori della trincea e il fallimento delle offensive italiane (una leggenda dura a morire, anche per lo scarso interesse degli storici politici per i problemi militari). Cadorna non poteva capire la drammatica realtà di una guerra così diversa dalle previsioni, né accettare il fallimento di una guerra offensiva come quella italiana. In questo non era diverso da Joffré e dai generali inglesi o tedeschi, né più colpevole dei governi che fornivano le armi e i soldati per le grandi battaglie senza successo. Quindi non discuto la sua gestione della guerra italiana, ma non accetto la sua proterva tendenza a addebitare i suoi insuccessi al governo e al supposto disfattismo di cattolici, giolittiani e socialisti. Un governo più forte lo avrebbe rimosso già nel 1916 . Nei miei studi ho poi maturato il rifiuto del comportamento di Cadorna verso i soldati, verso i quali fu sempre avaro di riconoscimenti e privo di interesse concreto per le loro condizioni di vita, prodigo invece di critiche e di provvedimenti repressivi troppo noti per doverli ricordare. Un comandante ha il dovere di portare i suoi uomini a morire, ma deve rispettarli, non considerarli carne da cannone su cui riversare la colpa dei suoi insuccessi.

Fu Cadorna a inventare Caporetto come tradimento. Non ebbe mai dubbi. La mattina del 25 ottobre telegrafava al governo: “Alcuni reparti del IV corpo d’armata abbandonarono posizioni importantissime senza difenderle”. E poi diceva al suo fedele collaboratore gen. Gatti: “L’esercito, inquinato dalla propaganda dall’interno, contro cui io ho sempre invano lottato, è sfasciato nell’anima. Tutto, pur di non combattere. Questo è il terribile di questa situazione”. La sera del 25 Cadorna telegrafava a Roma: “Circa 10 reggimenti arresisi in massa senza combattere. Vedo delinearsi un disastro, contro il quale ho combattuto fino all’ultimo”. In realtà Cadorna non aveva informazioni precise sui combattimenti, il suo servizio informazioni era da sempre di scarsa efficienza. E infatti aveva perso il controllo della situazione, tanto da credere (contro quanto dicevano i suoi generali) che tutta la II armata fosse in piena crisi, travolta dal disfattismo, fino a negarle le linee necessarie per la sua ritirata dall’Isonzo. Il 27 ottobre Cadorna emanò il noto bollettino, diffuso all’estero prima che il governo riuscisse a bloccarlo: “La mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia … “. E poi telegrafava al governo: “L’esercito cade non sotto i colpi del nemico esterno, ma sotto i colpi del nemico interno, per combattere il quale ho inviato al governo quattro lettere che non hanno ricevuto risposta” . Dopo di che si può capire come Cadorna avesse perso il controllo della situazione e non fosse in grado di gestire la ritirata di truppe in cui non aveva più fiducia. Il suo bollettino del 27 ottobre rimase come la prima, più dura, autorevole, ma infondata accusa di tradimento rivolta ai soldati italiani.

Nota biografica

Giorgio Rochat (1936) ha studiato e studia la storia militare, coloniale e politica dell’Italia contemporanea.

E’ stato professore di Storia contemporanea nelle Università di Milano, Ferrara e Torino, dove ha insegnato Storia delle istituzioni militari anche presso la Scuola di applicazione dell’esercito. Presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia nel 1996-2000 e della Società di studi valdesi 1990-1999.

I più recenti dei suoi molti volumi sono: La Grande Guerra 1914-1918, con Mario Isnenghi. La Nuova Italia, Milano 2000; Le guerre italiane 1935-1943. Einaudi. Torino 2005.