La condizione delle donne profughe e dei bambini dopo Caporetto

La condizione delle donne profughe e dei bambini dopo Caporetto

Di Daniele Ceschin

L’elemento che in Italia fa acquistare anche alla Grande guerra il carattere di conflitto “totale” è senza dubbio il grado di coinvolgimento della popolazione civile, non solo per il suo ruolo nell’economia e nello sforzo bellico, per le forme di repressione militare e giudiziaria adottate nei suoi confronti , ma pure per le conseguenze legate alla rotta di Caporetto quando, con l’invasione del Friuli e del Veneto, quasi 250.000 civili fuggirono oltre il Piave e altri 900.000 rimasero sottoposti ad un regime di occupazione militare . Come gli esodi avvenuti in precedenza avevano ampiamente dimostrato – pensiamo in particolare a quello seguito alla Strafexpedition – anche a partire dall’ottobre del ’17 la maggior parte delle famiglie profughe era costituita da donne, vecchi e bambini, e per una volta le immagini della propaganda e le rappresentazioni date dalla stampa trovano un qualche riscontro. Questa tipologia della composizione del nucleo famigliare era largamente maggioritaria tra i profughi provenienti dai centri urbani delle zone invase; diversamente, le famiglie provenienti dalle località solamente sgomberate e comunque non invase, potevano quasi sempre contare sulla presenza maschile del capofamiglia, che spesso era impiegato e poteva garantire un reddito sicuro.

In realtà, tenendo conto della grossa componente femminile , più che di profughi dovremmo dunque parlare di profughe e da questo punto di vista è evidente come il profugato possa essere studiato anche secondo la prospettiva della storia di genere. Basti pensare, ad esempio, a come per le donne questa vicenda abbia rappresentato una straordinaria esperienza di scrittura e a come memorie, diari ed istanze di sussidio costituiscano, al di là del loro valore soggettivo, anche delle fonti indispensabili per ricostruire la complessità delle condizioni dei civili durante l’ultimo anno di guerra. Un fatto che da un lato conferma il peso che la scrittura femminile assunse durante il conflitto, dall’altro il ruolo di vera e propria supplenza che le donne svolsero durante il profugato, certo anche in quanto componente maggioritaria.

Spesso erano state proprio le donne, in assenza dei mariti, a decidere di allontanarsi dal Friuli e dal Veneto. Se le donne avevano organizzato la partenza, affrontato le difficoltà del viaggio verso l’interno e tenuto insieme il nucleo famigliare o quello che ne rimaneva, durante il periodo del profugato esse assunsero un ruolo decisionale senza precedenti. Le scelte più importanti come il tipo di alloggio, la richiesta di un sussidio, spesso anche la località dove soggiornare erano delegate a loro, ovviamente sempre nei limiti concessi dalla loro condizione. Detto che le donne profughe erano doppiamente indifese – prima in quanto donne e poi in quanto profughe – molte di loro si trovavano sfollate anche per pura casualità. Ad esempio, Emilia Mazzolini Cimenti il 27 ottobre 1917 si trovava presso l’ospedale di Udine per assistere la figlia ammalata e, non avendola trovata, era partita quasi inconsapevolmente per Treviso, recandosi prima a Milano e quindi a Magenta, dove avrebbe trascorso tutto il periodo del profugato; la sua sarebbe stata un’esperienza di sofferenza e di solitudine, aggravata dalla morte della figlia – riuscita anch’essa ad abbandonare Udine – e dal rimorso per aver abbandonato in territorio invaso il marito ed altri tre figli .

In effetti, per molte profughe l’ultimo anno di guerra rappresentò un periodo terribile soprattutto dal punto di vista delle divisioni famigliari. Alcune avevano i propri cari al fronte o comunque lontani per lavoro; altre avevano una parte della famiglia nel Friuli e nel Veneto occupati. La perdita del marito, di un fratello o di un figlio al fronte e la mancanza di notizie dei propri cari dispersi o prigionieri, costituivano poi delle situazioni ancora più terribili rispetto alle condizioni materiali quotidiane ed a quelle più generali di profughi di guerra:

La sottoscritta, profuga del Comune di Codognè frazione di Cimetta, trovandosi in cattivissime condizioni finanziarie, prega codesto Spettabile Comitato, di voler corrisponderle un sussidio giornaliero affine possa provvedere ai bisogni della vita. Fa anche presente che i propri genitori disgraziatamente sono rimasti nelle terre invase, e che un fratello è morto in guerra, e l’altro trovasi al fronte che combatte in prima linea, e di più, che la stessa è cagionevole di salute .

La descrizione della situazione famigliare, costituisce a suo modo un esempio del nuovo ruolo che la donna aveva assunto, suo malgrado, durante la guerra. Forse non era un caso che a scrivere fossero soprattutto le profughe rimaste sole con i loro figli spesso impossibilitate a lavorare in maniera continuativa. Nelle richieste di sussidio veniva quasi sempre riportata la composizione del nucleo famigliare, indugiando sul numero dei bambini, sulla loro età e condizione di salute e sulla difficoltà ad accudirli. Una citazione particolare avevano poi i famigliari impegnati al fronte nella difesa della patria, i figli o i mariti caduti o feriti e, elemento significativo, quelli prigionieri, in questo senso in una prospettiva certamente non riconducibile a quella dei «vinti»; al contrario, alla prigionia di un famigliare venivano attribuiti i caratteri eroici di un sacrificio e di una sofferenza del tutto simili a quelli dei parenti rimasti nei paesi invasi: «Il più che mi fà rabrividire l’averlo amalato sotto le mani barbere dal nemicho che se potessi trasfomarmi in un ucelo, andar là e rapirlo da quelle mani, e portarmelo qui» . Molte anche le donne che avevano perduto il marito durante il profugato e che ora erano costrette a chiedere un sussidio . Una profuga di Udine residente a Firenze, dopo la morte del marito versava in condizioni critiche, non aveva i soldi per saldare le spese del funerale, aveva contratto dei debiti e non era in grado di ritornare a Udine, dove già sapeva che non era rimasto nulla:

Dall’alto in cui mi trovavo, sono, a un tratto precipitata in basso e tutto in causa della guerra. Bisogna proprio dire che i profughi di condizione povera qui ci hanno guadagnato: sussidio, indumenti, buone mercedi, ecc. ecc. E le maestre? Godevano lo stipendio governativo senza esercitare detta professione, qui erano impiegate in uffici militari o privati ed erano anche sussidiate. […] Qui tutti i profughi se la passano veramente bene, ecco perché non rimpatriano!

In molte località il fatto di essere donne e di essere profughe costituiva uno svantaggio per accedere all’assistenza. Due maestre di Feltre, Mille Colò e Italia Dal Col, residenti ad Aquila degli Abruzzi dove erano occupate e sussidiate, si lamentavano dell’opera del locale Comitato femminile che si disinteressava quasi completamente della sorte delle profughe . Se quella delle donne, anche durante il periodo del profugato, appariva una voce di minoranza, la consapevolezza di costituire comunque un elemento importante all’interno della società di guerra, portava molte profughe a pensarsi ed a porsi come gruppo, anche dal punto di vista delle rivendicazioni economiche e sociali; un gruppo in quanto donne e profughe, piuttosto che in quanto lavoratrici, operaie od altro. Anche in questo caso, sono numerosi gli esempi che si potrebbero citare e che ci portano a pensare come sia comunque l’esperienza del profugato ad essere in un certo senso determinante e certamente meritevole di un approfondimento all’interno di un quadro di storia di genere. Questa istanza di donne veneziane – si firmavano semplicemente «Le profughe» – al loro sindaco Filippo Grimani, nella quale scrivevano che erano stanche del «camorismo» della riviera romagnola e che preferivano ritornare a Venezia anche in uno stato di miseria, è significativa per capire quali potevano essere state le forme di disagio e di sofferenza che avevano contraddistinto tutta quell’esperienza: «Non possiamo assolutamente sopportare di rimanere in Rimini. Si troviamo continuamente, ammalate noi e i nostri figli, e un clima in questa città che si perde la vita, e un anno che siamo quì e siamo stanche, di sopportare mille tormenti in tutto» .

Durante la primavera del ’18 il trasferimento degli uomini per motivi di lavoro, comportò un’ulteriore divisione dei nuclei famigliari e in numerose località, soprattutto in quelle più isolate dell’Italia meridionale, la popolazione profuga rimase composta prevalentemente da donne e bambini. Private di qualsiasi appoggio finanziario, impossibilitate a trovare un’occupazione che non fosse saltuaria, obbligate alla cura dei figli, molte profughe si trovavano costrette a lunghi trasferimenti giornalieri per riuscire ad integrare il sussidio governativo. Ad esempio, nel comune di Donnas (Aosta) era residente una colonia di circa 80 profughi composta quasi esclusivamente da donne e bambini; ricevevano il sussidio ogni tre o quattro mesi e quindi vivevano a carico delle autorità locali, ma erano anche in balia degli speculatori; i pochi uomini, in prevalenza operai, non potevano essere impiegati nei lavori agricoli, ma nemmeno nel locale stabilimento metallurgico ausiliario.

Spesso lo stato d’indigenza estrema era da ricondursi alla perdita delle reti di solidarietà tradizionali, fossero solo quelle dei parenti o dei compaesani. Le condizioni delle donne erano poi certamente aggravate dall’assenza di mediatori sociali, come potevano essere i consiglieri comunali o i parroci profughi, che potessero favorire in qualche modo l’opera di assistenza a livello locale. Questa mancanza di reti di relazione si sommava inoltre allo scarso peso in termini di contrattazione che di solito era proprio della donna, che in questo caso era un’estranea anche in quanto profuga. La quotidianità poteva diventare un problema quando difettavano anche le istituzioni assistenziali che pure dovevano essere garantite:

Aggiungo che in questa frazione di Civitella Cesi [Viterbo] siamo 14 profughi, tutte donne e bambini, eccettuato un solo uomo riformato, e siamo tutti poveri contadini, e non ci è stato mai possibile di potere ottenere alcun vestiario o paio di scarpe, nulla proprio nulla, mentre tanti altri nostri compagni di sventura furono anche in ciò largamente sovvenuti. Facemmo a suo tempo appello al Municipio suddetto, ma sempre con esito negativo. Tale è la nostra misera condizione .

Una profuga di Udine, vedova di guerra con 6 figli, scriveva a Domenico Pecile che per curare una sua bambina era stata costretta a vendere tutti i suoi anelli, compresa la vera nuziale e gli orecchini . Un caso simile era accaduto anche a Prata (Avellino), dove il sindaco – sul quale correvano molte voci sui soprusi commessi nei confronti delle profughe – aveva comprato un anello d’oro pagandolo una cifra irrisoria approfittando «delle condizioni disperate di una giovane profuga che ammalata ricorreva a tale sacrificio per provvedersi le medicine e gli alimenti non avendo potuto ritirare il sussidio spettantele» .

Notevoli erano dunque le difficoltà economiche. Italia Filosa, profuga di Feltre – il marito era intenato a Katzenau e il padre rimasto in territorio invaso – lamentava come fosse impossibile vivere in quattro persone con un sussidio di 5 lire a Marina di Massa, dove non vi era modo di guadagnare essendo un paese abitato in gran parte da profughi friulani, circa 600, e durante la stagione estiva da famiglie signorili . Una profuga di Treviso scriveva che si trovava a Nicotera (Catanzaro) assieme al marito infermo e a sei figli che non potevano lavorare, e che per un anno intero la sua famiglia aveva vissuto grazie al sussidio e a qualche persona caritatevole:

Ma la scomparsa di quella mano benefica, il rincaro ogni giorno crescente della vita, la recrudescenza di malattie epidemiche, che richiedono assistenze e spese superiori alle mie deboli forze, la mancanza di quasi tutti i generi di prima necessità, l’inerzia e l’abbandono delle Autorità locali preposte al governo della cosa pubblica, incuranti dei bisogni più urgenti dei cittadini e, per conseguenza, dei profughi qui dimoranti, hanno creato da un pezzo una situazione così deplorevole e disperata che la vita in questo desolato paese – ch’è tanto ridente per bellezze naturali – è per noi un martirio che supera i travagli stessi dell’esilio. Si muore d’inedia e di malattie, di stenti e di privazioni .

Nelle richieste d’indumenti e di calzature, veniva rimarcata la circostanza che i profughi indossavano ancora gli abiti della fuga , o perché i bagagli erano andati smarriti nella confusione del viaggio o perché le particolari condizioni nelle quali era avvenuto l’esodo non avevano permesso di portare con sé quello che occorreva per sopravvivere. In alcuni casi si sottolineava la noncuranza da parte dei Patronati e Comitati di assistenza nella distribuzione di beni che, in particolare durante la stagione invernale, venivano considerati necessari quasi quanto quelli alimentari . Una profuga di Spilimbergo residente a Marina di Massa, scriveva come avesse a lungo confidato che il locale Comitato fornisse a lei e alla sua famiglia i vestiti e le calzature di cui avevano bisogno, ma le distribuzioni erano state rare e insufficienti . In altri casi la mancanza di abiti veniva collegata anche ad una questione di decoro, se non di vero e proprio status sociale:

Fuggita dal mio caro paesello, durante l’invasione nemica, senza aver potuto portare con me neppure il necessario per cambiarmi, fui menata qui, in questa città delle Puglie [Cerignola (Foggia)], ove, sino a questo momento, non ho potuto avere indumenti di sorta e vado ora deperendo sensibilmente in salute per il clima troppo caldo e non salutare, specie per noi altri, nati e cresciuti tra le alpi nevose e abituati a respirare aure più pure. Qui non si può avere neppure l’acqua per lavarsi e devo pagarla a caro prezzo, diffalcando la spesa dall’esigua paga di lire due al giorno. Con l’enorme crescente rincaro dei viveri devo pensare a tutto con sole due lire; nè posso andare in cerca di decorosa occupazione, vergognandomi di uscire dal mio ricovero così malandata e indecentemente vestita. Io che, come ogni persona bene educata, non voglio scompagnarmi dalla decenza, come posso a questa pensare, se le due lire non bastano a sbarcare il lunario giornaliero del solo vitto? E come fare, se qualche giorno non ho che il solo pane per sostenermi?

Al disagio provocato dalle condizioni materiali si affiancava la vergogna che le profughe provavano nel chiedere qualcosa o semplicemente nell’avanzare un’istanza, soprattutto se questa richiesta veniva inoltrata ad una persona conosciuta a cui era noto il passato stato di agiatezza. Ad esempio una profuga di Padova residente a Roma, scriveva che non aveva mai chiesto alcun sussidio, perché la sua passata condizione sociale «non le permetteva di subire l’alta umiliazione di chiedere aiuto alla carità altrui» ; ogni remora però era caduta ora che le sue condizioni erano diventate insopportabili. In alcuni casi era proprio l’umiliazione nel chiedere che veniva pudicamente palesata: «Finché si aveva il sussidio non ho disturbato nessuno, per domandare nessun aiuto, perché per dire la verità mi vergogno, ma ora sono troppo alle strette, e son costretta a fare questo passo» . Nella nuova condizione si cercava dunque di nascondere in ogni modo la miseria, innanzitutto evitando di chiedere un soccorso ai Comitati o ai Patronati locali:

Fin che mi trovavo nel mio paese conosciuta da molti, la miseria non bussava tanto dolorosamente alla porta perché la popolazione cercava di rendermi meno amara l’esistenza, ma ora qui, in questo paese estraneo della Lomellina, la vita mi torna più dura. Buona gente ve ne sono ma... non a tutti io oso palesare la mia miseria. […]
M’hanno informata di rivolgermi presso comitati regionali “Pro profughi” ma io non ho osato farlo finora rifuggendo sempre dal pensiero di dover stendere la mano .

Nonostante in alcune località, anche molto disagiate, fossero state istituite delle provvisorie sale di maternità , nella maggior parte dei casi le donne erano costrette a partorire in condizioni molto difficili, come del resto a portare avanti la gravidanza . Molte profughe che partorirono durante l’ultimo anno di guerra, si trovarono contemporaneamente senza l’appoggio dei famigliari e nell’impossibilità di lavorare. Una profuga di S. Pietro al Natisone, che nel febbraio del ’18 aveva avuto un bambino, riferiva che a Licodia Eubea (Catania) erano rimaste solo le donne e che non si poteva lavorare anche a causa dell’ostilità della popolazione locale: «[…] qui siamo abbastanza mal visti che questa giente e peggio delle bestie. Ci guardanno male anoi e noialtri non potiamo piu soportare […]. Siamo qui come i zingari anche peggio tutti straciati» . Una circostanza confermata da una profuga irredenta di Monfalcone, vedova e madre di 7 figli, che riferiva del disinteresse da parte delle autorità locali e di come i profughi fossero non solo disprezzati «da tutto il popolo e anche dal municipio», ma anche costretti a chiedere la carità pubblica . Una puerpera di Udine scriveva alla regina Elena che a Ganzirri (Messina) si trovava in condizioni pietose . Anna Buliani, profuga di Treppo Carnico, che aveva avuto un bambino nel giugno del ’18, descriveva Ottaiano (Napoli) come il paese più misero di tutta la provincia, dove le condizioni igieniche e sanitarie erano disastrose e la mancanza di lavoro costringeva la maggior parte dei profughi ad andarsene ; nei mesi precedenti, nello stesso comune una puerpera era stata costretta a pagare 10 lire alla levatrice . Ma vi erano anche dei casi in cui le madri erano state costrette ad abbandonare i propri figli. Nel luglio del ’18, una ragazza di 20 anni originaria di Pordenone, abbandonava in una via di Milano il bambino che aveva partorito presso un brefotrofio appena otto giorni prima; era stata costretta a questo atto perché l’istituto si era rifiutato di occuparsi del bambino e lei, operaia presso uno stabilimento cittadino e abbandonata dal padre del bambino, non aveva i mezzi per mantenerlo ; rintracciata ed arrestata, venne successivamente aiutata dalla Federazione Profughi delle Provincie Irredente, Invase ed Evacuate .

Come per gli uomini, la condizione delle profughe era strettamente legata alle possibilità di lavoro. Il luogo comune che durante la Grande guerra la presenza delle donne nelle fabbriche e nelle campagne fosse riconducibile soltanto alla necessità di sopperire alla mancanza delle maestranze maschili destinate al fronte, sembra superato ormai da tempo. È assodato invece come la manodopera femminile fosse indispensabile al nuovo sistema industriale che per le esigenze belliche doveva funzionare a pieno regime . Per quasi tutte le donne fu difficile mantenere il precedente impiego. Una categoria di profughe che venne a trovarsi in una situazione precaria fu quella delle donne di servizio che avevano seguito nell’esodo le famiglie in cui erano impiegate; molte di loro rimasero infatti senza lavoro e le poche che lo conservarono si videro ingiustamente negata la concessione del sussidio; una situazione controversa, dal momento che il soccorso giornaliero aveva una carattere alimentare e che non si teneva conto che in forza delle mutate condizioni economiche non sempre i datori di lavoro erano in grado di assicurare alle donne di servizio lo stesso salario . Il periodo del profugato fu problematico anche per le levatrici che, come dipendenti comunali, rimasero quasi sempre disoccupate. Amelia Venturini, originaria di Mirano e profuga a S. Vito dei Normanni con 6 figli ed il marito invalido, aveva ottenuto dall’amministrazione la possibilità di esercitare la sua professione, ma la popolazione continuava a rivolgersi, per ragioni anche comprensibili, all’ostetrica locale .

Il lavoro veniva di norma offerto alle profughe che non avevano vincoli di famiglia ed in questo caso ad essere favorite erano le donne nubili dai 15 ai 40 anni, che in genere potevano scegliere di trasferirsi senza difficoltà anche molto lontano rispetto a dove avevano inizialmente trovato ricovero. Molte di queste profughe vennero impiegate nelle fabbriche di armi e munizioni, un settore che offriva un salario leggermente più alto rispetto alla media e per questo motivo particolarmente ambito. Per le profughe con figli la mobilità all’interno del mercato del lavoro era pressoché nulla, secondo una tendenza che l’economia di guerra aveva contribuito ad accentuare . Per gran parte di loro l’impiego nei laboratori istituiti per la confezione d’indumenti civili e militari era il massimo a cui potevano aspirare, proprio a causa della loro condizione di madre. Anche per le altre profughe la mobilità era comunque rigida, anche se la situazione era molto diversa a seconda delle località e del tipo di lavoro.

La manodopera femminile si adattò a numerosi mestieri pesanti, pur adeguatamente retribuiti, tanto nell’agricoltura che nell’industria. In Lomellina (Pavia), numerose ragazze di Bassano, molte della quali ancora in tenera età, trovarono facilmente impiego nelle risaie, adattandosi ad un mestiere faticoso e insalubre; non a caso, tra il maggio e il giugno del ’18 si registrarono numerose agitazioni e scioperi tra le lavoratrici in risaia per ottenere migliori salari e le otto ore giornaliere . Sempre nel pavese, a Robbio, alcune profughe che avevano rifiutato di lavorare in un cotonificio per un salario di 70 centesimi per dieci ore di lavoro giornaliere, accettarono di essere impiegate in uno stabilimento meccanico, dunque un lavoro ben più pesante anche se meglio retribuito .

In regioni come il Piemonte e la Toscana, caratterizzate anche prima dell’inizio della guerra da una massiccia immigrazione stagionale femminile, l’inserimento delle profughe nel mercato del lavoro era ancora più difficile; a differenza delle stagionali, queste non costituivano un gruppo – si trattava per lo più di singole operaie reclutate attraverso i Comitati – e dunque possedevano uno scarso potere di contrattazione e qualsiasi forma di rivendicazione per loro era in pratica impossibile. Se da questo punto di vista immigrate e profughe erano su piani diversi, per quanto riguardava le condizioni di vita entrambe le categorie di lavoratrici dovevano fare i conti con gli stessi problemi, a cominciare dall’alloggio e dalle disponibilità alimentari ; comune era infatti l’avversione nei loro confronti da parte della popolazione locale, preoccupata per la scarsità degli approvvigionamenti e il paventato razionamento dei generi che a partire dalla primavera del ’18 veniva ad essere introdotto un po’ ovunque, in particolare nelle località a forte presenza operaia. Se il fatto di non essere un gruppo organizzato, riconoscibile e dunque riconosciuto, costituiva un tratto comune alle operaie profughe, leggermente diversa era la situazione di coloro che lavoravano presso le industrie venete trasferite in altri distretti. Come del resto diversa ancora, e per certi versi migliore, era la condizione delle profughe impiegate in agricoltura, in lavori che comunque duravano poche settimane. In questo caso il grado di maggiore organizzazione consentiva di aumentare, per quanto possibile, anche il livello di conflittualità sociale, fatto non trascurabile durante l’ultimo anno di guerra.

La presenza, soprattutto durante i primi mesi, di numerose profughe disoccupate poteva favorire non solo la diminuzione del costo del lavoro, ma consentire episodi di ricatto delle parti padronali nei confronti della manodopera locale; sul finire del marzo 1918, ad esempio, presso lo stabilimento della Società Metallurgica Italiana di Livorno vennero licenziate 25 operaie, immediatamente sostituite da altrettante profughe . Il livello dei salari delle profughe impiegate nelle industrie era in linea con quello delle altre operaie, secondo delle gerarchie che stabilivano una retribuzione media di circa la metà rispetto a quella della manodopera maschile; soltanto nelle lavorazioni a cottimo questa differenza salariale era meno evidente. Negli ultimi mesi di guerra questo divario tra le retribuzioni maschili e quelle femminili diminuiva radicalmente grazie all’introduzione dell’indennità caroviveri, che se da un lato praticamente raddoppiava il salario, dall’altro costituiva una misura del tutto virtuale a causa dell’aumento, decisamente superiore, del costo della vita . In generale i salari erano comunque molto bassi, a fronte di orari di lavoro che di norma erano di 12 ore, ma spesso anche superiori.

Continua preoccupazione dell’Alto commissariato per i profughi fu quella di stimolare Comitati e Patronati profughi a creare laboratori di cucito per impiegare la manodopera femminile che per attitudine non poteva essere impiegata nelle industrie o in agricoltura . In un primo momento destinati alla confezione e alla fornitura d’indumenti ai profughi stessi, successivamente molti di questi laboratori accettarono lavori per conto delle amministrazioni pubbliche, in particolare per i comandi militari . Accanto ai laboratori venne suggerita anche l’organizzazione del lavoro a domicilio per tutte le profughe che per ragioni familiari non potevano allontanarsi dalla loro residenza.

Il laboratorio d’indumenti e di cucito divenne in breve tempo, anche per la propaganda, la dimensione del lavoro femminile, in particolare proprio quello delle profughe. In effetti, i laboratori di questo tipo si moltiplicarono un po’ in tutta Italia, anche in centri minori ed isolati, aperti a cura di Comitati e Patronati, ma anche della Croce Rossa Americana. In queste strutture venivano impiegate in media dalle 20 alle 50 profughe, per la maggior parte molto giovani; spesso questi laboratori erano affiancati da scuole di sartoria, di cucito o di ricamo dove le ragazze potevano imparare i rudimenti del mestiere. Particolarmente attive da questo punto di vista furono le profughe veneziane. A Livorno venne creato un laboratorio, grazie all’impulso di Ida Bottari Tonello che a Venezia ne aveva tre di questo tipo, dove lavoravano una settantina di ricamatrici. Molta importanza da parte della propaganda venne data al laboratorio diretto a Genova da Maria Pezzè Pascolato . Come a Venezia, la parte principale era rappresentata dalla lavorazione di indumenti militari che impegnava inizialmente circa un centinaio di operaie, nella totalità veneziane, anche se in seguito veniva assunta anche qualche profuga friulana. Venne creata anche una scuola di merletti – i disegni erano dall’artista Achille Tamburini – per assicurare per il dopoguerra una buona maestranza in quest’arte, e dove trovavano impiego 120 profughe che vivevano e lavoravano in comune . Normalmente, oltre alle profughe, molti laboratori davano lavoro anche a donne del luogo. A Pesaro, ad esempio, nel laboratorio per merletti e ricami inaugurato nel luglio del ’18 a cura della Croce Rossa Americana per dare occupazione a circa 50 profughe veneziane, vennero impiegate anche lavoratrici povere e disoccupate, che in gran parte appartenevano a famiglie di richiamati . Nel maggio del 1918, il laboratorio istituito dal Comitato Assistenza Profughi di Nicastro per la confezione d’indumenti, contava 75 lavoratrici tra profughe e donne del luogo e chiedeva insistentemente ordinazioni .

A Firenze vennero istituiti vari laboratori per la fabbricazione di scarpe, e in particolare uno dove erano impiegate esclusivamente profughe che chiedevano all’Alto commissariato cuoio, macchine ed un sussidio mensile o, in alternativa, delle commesse . La Fondazione Formiggini di Bologna si assunse il compito di aprire un laboratorio di cucito per le operaie profughe. A Frascati venne istituito un laboratorio per la confezione d’indumenti militari che dava lavoro a circa 30 profughe. A Caltanissetta in un laboratorio analogo creato dal locale Patronato, trovarono un lavoro remunerativo 32 profughe, mentre altre vennero impiegate come domestiche . Possibilità di lavoro in questo settore vi furono anche in provincia di Palermo . Quasi ovunque erano in ogni caso pochi i macchinari che servivano per la lavorazione:

[…] giacché qui fu bensì istituito per iniziativa ed a spese del Vescovo locale un laboratorio per la cittadinanza a cui possono essere ammesse anche le profughe, ma viceversa in esso non trovarono occupazione che tre soltanto per deficenza di macchine da cucire, non essendo a loro disposizione che una macchina poco adatta, per giunta ai lavori per indumenti militari .

È interessante rilevare come questo sistema produttivo, redditizio anche dal punto di vista economico, fosse però concepito dalle autorità locali come una forma di controllo sociale e, in un certo senso, anche morale. Il prefetto di Grosseto, ad esempio, giudicava il laboratorio per indumenti sorto in città – dove erano impiegate una ventina di profughe che guadagnavano dalle 3 alle 3,50 lire al giorno e in più ricevevano il sussidio – «una scuola di vita» che «evita il pericolo del vagabondaggio» . Come detto, dove non era possibile l’allestimento di laboratori per l’impiego delle profughe, venne comunque incentivato il lavoro a domicilio, in particolare per la confezione di indumenti militari. Per stimolare il lavoro femminile, in alcune località venne sospesa la distribuzione degli indumenti confezionati e concessa invece solo la materia prima. Molte profughe chiesero i soldi per l’acquisto di un macchina da cucire anche alla regina Elena.

Particolarmente umilianti furono le condizioni di vita e di lavoro delle profughe più giovani. A Marsala, ad esempio, i signori locali venivano a cercare le ragazze di Possagno per portarle a servire in casa, ma pretendevano di sceglierle loro – come se «fusse bestie», riferiva un compagno profugo – sotto la minaccia della sospensione del sussidio nei confronti di coloro che non accettavano di essere impiegate. In loro difesa intervenne in maniera non disinteressata padre Giovanni D’Ambrosi, evidentemente preoccupato anche della condotta morale delle profughe:

[…] ho risposto che non tutte sono le nostre giovani atte a servire e molte essere abituate a lavori domestici e che ad ogni modo non doversi sacrificare ad un genere di vita affatto opposto alle loro abitudini […] ho fatto capire che si deve certamente esigere per amor della patria uno sforzo maggiore, ma se ci adattiamo a farne delle serve non potranno esigere diventino schiave .

Il pregiudizio che abbiamo descritto nei confronti dei profughi in generale, nel caso delle donne era molto più marcato. Più deboli dal punto di vista sociale, le profughe venivano spesso descritte come donne indolenti e pigre, incuranti dei propri figli e dedite al vizio ed alla prostituzione. Non si contavano le dicerie intorno al loro presunto contegno, che veniva censurato anche dalle classi dirigenti e dagli amministratori locali. Francesco Rota segnalava a Giuseppe Girardini che a S. Remo numerose donne erano rassegnate «ad una neghittosità perniciosa» . Da Lanciano (Chieti), si scriveva che il locale Patronato si occupava anche di «tutelare il [sic, recte la] morale delle profughe» . Molto frequenti erano i riferimenti, o meglio i pettegolezzi, intorno ai rapporti illegittimi tra profughe e persone delle località dove erano ospitate, anche se ad esempio l’assessore all’igiene del Comune di Modena attribuiva l’aumento delle nascite illegittime in città, alle condizioni di promiscuità nelle quali vivevano gli sfollati . Ovviamente, Comitati d’assistenza e Patronati non perdevano occasione per rimarcare retoricamente, anche da questo punto di vista, la propria attività benefica:

Donne male incamminate dal bisogno, dalla tentazione, furono ricondotte con provvida mano sulla diritta via. Ragazze madri trovarono ogni miglior aiuto per regolare con onesto lavoro la loro vita. Sventurate giovinette, che nelle madri stesse avevano il malo esempio e l’incitamento alla corruzione, furono tolte alle sciagurate, indegne del santo nome .

La condizione delle profughe friulane e venete poteva indurre alcune di loro a darsi alla prostituzione, quasi sempre esercitata clandestinamente al di fuori della vigilanza delle autorità militari e sanitarie. È in questo senso che va letta la preoccupazione di alcune autorità locali che osservavano il crescente fenomeno di «ignobili e sinistri individui, usi alla detestabile tratta delle bianche» che cercavano di approfittare della particolare condizione delle giovani profughe . In alcune città come Roma e Napoli, la prostituzione tra le profughe aumentò notevolmente soprattutto dopo l’armistizio:

Un’opera umana, sana, morale, purificatrice sarebbe che l’Autorità Governativa facesse rimpatriate tutte le profughe Venete e Friulane (con o senza sussidio) che si trovano in Roma e che costrette forse dal bisogno ma certissimamente raggirate da luride persone sono obbligate da queste ad esercitare ignobilissime professioni. Sono tutte giovani inesperte della vita, la maggior parte contadine o di piccoli paesi di campagna.
Le famiglie loro invano le cercano, non san più dove siano, ed ignorano qual lurido mestiere fanno. L’Autorità Governativa è in obbligo di restituire alle loro case queste infelici e deve avvisare le rispettive loro famiglie per toglierle dalla mala vita. L’Autorità Governativa faccia visitare Alberghi, camere ammobigliate, bische, Caffè, Case da the (pubbliche e private), sale da cinematografo, Caffè Concerto, scuole da ballo, musica, declamazione, cinematografia e in particolar modo i luoghi dove si inscenano le famose films cinematografiche, ecc. ecc.
Deve l’Autorità visitare i negozi di mode […] dove si vende a quelle povere ragazze a credito d’accordo con ruffiani biscazzieri, agenti di teatro, di cinematografo ecc., per poterle così tenere avvinte al triste carro e sfruttarle il meglio che lor è possibile .

Pregiudizio da parte della popolazione locale, difficoltà a trovare un impiego o di adattarsi a lavori spesso molto diversi da quelli ai quali erano abituati, condizioni di vita ai limiti della sopravvivenza, ad esempio nel caso dei comuni malarici, spinsero anche numerose profughe a chiedere di essere allontanate quanto prima e trasferite in Italia settentrionale. Anche il clima troppo diverso ed eccessivamente caldo ed umido, giustificava, a loro dire, questa misura. Una profuga di Treviso residente a Montepagano (Teramo) scriveva che era da tempo molto ammalata e che le sue condizioni erano peggiorate probabilmente a causa dell’ambiente per nulla adatto alla sua salute, «le mie sofferenze rincrudiscono ogni giorno più e mi sono ridotta una larva» ; Caterina Battistutti, profuga di Chiusaforte, attribuiva al clima malsano di S. Severo (Foggia) la morte di due dei suoi bambini . L’impressione comunque è che nella maggiore parte dei casi l’importante fosse lasciare comunque le regioni meridionali, anche verso una destinazione qualunque. Interessante, in questo senso, era la richiesta di un gruppo di profughe di Udine residenti a Cervino (Caserta), che chiedevano di essere trasferite a Bologna oppure in altra località «purché sia in alta Italia» . Bisogna comunque sottolineare come fosse estremamente difficile ottenere di essere inviati nelle grandi città dell’Italia settentrionale – di solito ciò era più semplice per la componente maschile – mentre decisamente più agevole era lo spostamento in altre province del Sud. In alcuni casi, alla base della richiesta di trasferimento c’erano motivazioni d’insofferenza verso una località giudicata inferiore rispetto alle proprie prerogative sociali oppure ad esigenze sentite come primarie. Maria Zanetti Bianchi, profuga di Udine a Vasto (Chieti) lamentava ad esempio come nella cittadina abruzzese non vi fossero scuole di musica per far studiare i suoi figli – «il luogo dove dimoriamo non è affatto per noi, ma bensì per agricoltori» – diversamente invece da grandi città come potevano essere Roma o Milano ; più modeste erano le pretese di Adelaide Levis, profuga di Mestre e residente a Monteodorisio (Chieti), che per far continuare gli studi ai propri figli si accontentava di essere trasferita se non nel capoluogo, dove inizialmente era stata destinata, almeno proprio a Vasto .

Detto dell’importanza che il profugato assunse per le donne come momento di scrittura, molto diverse, e peraltro deludenti, sarebbero state le rappresentazioni posteriori fornite da una letteratura che definire minore è un eufemismo. Le profughe trevigiane dei racconti di Nevra Garatti, ad esempio, sembrano delle protagoniste di romanzo d’appendice che conducono un’esistenza quasi normale, piuttosto che donne sbalzate nel dopo Caporetto in diverse città d’Italia. Certo, la loro provenienza cittadina le qualifica subito come sfollate volontariamente e come “borghesi”, con tutte le differenze del caso rispetto alle altre profughe, come “cittadine” che cercano “la città”. Il testo e la prosa sono davvero insignificanti, ma se proprio vogliamo trovare un climax – forse l’unico per il discorso che andiamo facendo – lo possiamo individuare nel primo racconto ambientato a Milano, nel quale due profughe sono costrette ad impegnare i loro oggetti di valore:

Un senso di vergogna, come fossero spogliate e denudate in pubblico, le prostrava in un totale avvilimento. Quand’ebbero ricevuto in cambio trentacinque lire si affrettarono a sottrarsi a tutti quegli sguardi che conoscevano ormai la loro miseria. Fuori camminarono rapide come fuggissero da un luogo contagioso e presto, nel tumulto della grande città, furono riafferrate dalla vita, che insegnava loro, senza quasi ne avessero coscienza, ad adattarsi alle sue esigenze più dure e spietate .

Assieme alle donne, la categoria di profughi che ebbe a subire i disagi maggiori, fu senza dubbio quella dei bambini . Tenendo conto della sola provincia di Udine, il numero dei bambini fino ai 15 anni ammontava a 48.172, ovvero il 36,7% dei profughi ; nel caso dei veneziani, i fanciulli con un’età inferiore ai 10 anni costituivano il 30% dell’intera popolazione profuga . La maggior parte di loro arrivò a destinazione in condizioni pietose. Si pensi ad esempio a coloro che giungevano in Sicilia stremati dal lungo viaggio ed affamati perché da giorni non erano stati distribuiti generi alimentari ; anche per questo motivo si suggeriva, in maniera però anche interessata, che i bambini fossero destinati a Napoli ed accolti presso orfanotrofi ed istituti pii .

Le liste dei bambini smarriti a Milano e accolti provvisoriamente presso l’Umanitaria e l’Opera Bonomelli erano impressionanti. Si trattava di centinaia di bambini dai 3 ai 14 anni smarriti dai propri genitori durante la fuga o che si erano trovati accidentalmente su un altro treno; non era rara, infatti, la circostanza in cui gli adulti erano stati inviati verso l’Italia meridionale e i fanciulli a Milano o a Torino. Nei primi giorni di novembre, in uno dei padiglioni dell’Umanitaria erano ricoverati circa 60 fanciulli. Solo a Bologna, il 3 novembre venivano segnalati 20 bambini smarriti dai genitori e che trovavano provvisoriamente ricovero presso istituti religiosi e case d’infanzia; la maggior parte di loro aveva dai 5 ai 9 anni . Molti bambini e minorenni dispersi vennero accolti anche presso il Rifugio per fanciulli abbandonati di Firenze; altri, sempre dispersi in attesa di essere restituiti alle proprie famiglie, vennero ricoverati presso alcune sale del Quirinale messe a disposizione dalla regina Elena. È da notare che alcune decine di questi bambini non vennero mai reclamati dai genitori o dai loro parenti o perché erano orfani partiti alla spicciolata e poi indotti da altre persone a salire sugli ultimi treni in partenza oppure perché i loro cari pensavano che fossero rimasti nelle terre invase; di qui le richieste pressanti di notizie alla Croce Rossa e la volontà di rientrare in qualche modo nelle province occupate. Spesso però era accaduto il contrario, cioè a non riuscire a raggiungere in tempo i ponti erano stati proprio i genitori. Se per tutti questi bambini il profugato rappresentava un trauma dal punto di vista affettivo, bisogna però notare che la loro particolare condizione li sottraeva a quegli stenti e a quelle situazioni di disagio che caratterizzava al contrario tutti gli altri bambini che con le loro famiglie erano stati inviati in località senza alcuna risorsa e che quasi sempre erano costretti a lavorare; i piccoli profughi “orfani” potevano inoltre contare su un migliore regime alimentare, su condizioni igieniche e sanitarie del tutto sconosciute agli altri bambini e, fatto non trascurabile, sulla possibilità di continuare in maniera regolare e proficuo gli studi e, per i più grandi, di seguire una scuola di lavoro.

Uno dei maggiori impedimenti all’unità delle famiglie erano le diverse condizioni di lavoro e la necessità, in particolare da parte delle donne, di trasferirsi anche in località lontane da quella di prima accoglienza. Anche per questo motivo in alcuni casi i bambini, e non solo gli orfani o coloro che erano considerati «ricercati», vennero collocati presso istituti d’infanzia in modo da poter sollevare le loro famiglie dal punto di vista economico e consentire ai genitori di trovare una conveniente occupazione; una soluzione che fin da subito fu ovviamente osteggiata dai cattolici, difensori dell’unità famigliare e che proposero l’affidamento almeno degli orfani profughi a nuove famiglie .

Per assistere i bambini ed i ragazzi profughi sorsero numerose iniziative ed istituiti nidi per i più piccoli, corsi scolastici, scuole di lavoro, ricreatori, colonie estive ; una serie d’interventi tutti fondati sul binomio assistenza-patriottismo . Il Comune di Genova provvide al ricovero e al mantenimento di un centinaio di bambini profughi ed orfani di guerra . A Posillipo, presso l’ex Villa Dini, venne impiantata una casa di salute denominata «Per i bambini d’Italia» che giunse ad ospitare circa 200 fanciulli malati profughi. Per opera del Comitato di patronato per i profughi friulani di Roma vennero accolti nella Badia di Grottaferrata e mantenuti gratuitamente 30 studenti friulani del ginnasio inferiore. Da ricordare è senza dubbio la Colonia dei Giovani Lavoratori istituita presso il pellagrosario di Città di Castello da David Levi Morenos, che accolse inizialmente gli orfani della “Casa Paterna” di S. Donà, ma che venne poi riservata ai minori profughi delle province di Belluno e Udine che erano stati affidati all’Umanitaria di Milano perché avevano smarrito i genitori . L’intento dichiarato era quello di «raccogliere fanciulli profughi, specie di genitori agricoltori, allo scopo di mantenerli, con l’esercizio professionale, nelle loro occupazioni campestri», un’iniziativa che poteva «assumere nell’avvenire grandissima importanza sociale diventando freno efficace al continuo inurbarsi delle popolazioni agricole, conservando braccia alla terra ed elevando a dignità nova un lavoro a cui dalla generalità si guarda con ingiusto dispregio» . Si trattava, in sostanza, di una visione paternalista e ruralista che passava attraverso una volontà – nemmeno tanto nascosta – di conservatorismo sociale e che, da questo punto di vista, costituisce un’ulteriore conferma di come durante l’ultimo anno di guerra si fosse cercato in ogni modo di mantenere inalterati i rapporti di classe anche all’interno della popolazione agricola. Alla colonia di Città di Castello erano ammessi ragazzi fra i 9 e i 14 anni, di sana e robusta costituzione fisica secondo una graduatoria che dava la precedenza ai profughi orfani di guerra, ai figli di genitori dispersi, agli orfani di madre con il padre militare, a coloro che avevano il padre invalido o che provenivano da una famiglia numerosa. All’interno della colonia i ragazzi alternavano lo studio e l’apprendimento dei primi rudimenti di economia agraria, alle esercitazioni pratiche che consistevano nella coltivazione di campi e orti e nella cura della stalla; il tutto secondo i principi di «disciplina, libertà e responsabilità» e conducendo una «vita semplice e frugale che non sottragga artificiosamente ai necessari sacrifici, ma prepari al sacrificio ed al dolore, elementi fatali della esistenza umana» . Se questo era un programma che rispecchiava le idee del promotore della Colonia in merito all’istruzione professionale e all’educazione «morale e sociale» della classi popolari, in questa sede è interessante mettere a fuoco soprattutto l’immagine che veniva data dei ragazzi profughi:

I piccoli coloni arrivano dai rifugi di questa o quella città ospitale che, per quanto la pietà dei Comitati cerchi di rendere adatti, fanno tuttavia sentire tutta la tristezza, tutto il doloroso rimpianto della casa perduta; i piccoli coloni arrivano affagottati nei loro abiti sdruciti che li fa sembrare tanti mendichi. Sono spesso irascibili, diffidenti, talvolta ribelli, ma la Colonia li trasforma subito; si incomincia col sano lavacro, poi col vestirli a nuovo; compiono la trasformazione l’ampio allegro edificio, ed il dormitorio inondato di luce, dai letti bianchi allineati, colle candide lenzuola; il refettorio coi pasti regolari, coi piatti del paese: la polenta ed i fagioli. Tutto ciò porta un immediato benessere, una pace gioconda, dà una tonalità nuova all’animo esacerbato, turbato, ribelle del piccolo profugo .

Ovviamente i bambini e i ragazzi profughi residenti nelle grandi città, in gran parte appartenenti a persone agiate, non ebbero alcuna difficoltà ad essere collocati presso le scuole statali e i convitti privati e proseguire così gli studi; da questo punto di vista, tanto a Firenze quanto a Roma, le famiglie dei profughi vennero favorite in tutti i modi. Secondo questa prospettiva le differenze di classe all’interno del profugato erano del tutto evidenti e certamente stridenti; e anche in questo stava la diversità tra le famiglie profughe che erano potute rimanere in città e quelle che invece erano state costrette ad andarsene fin dai primi giorni, certo spinte dalle autorità, ma anche dal costo della vita e dall’impossibilità di permettersi il pagamento di un affitto o la permanenza in albergo.

A Firenze, quasi tutti i bambini ed i ragazzi profughi furono in grado di proseguire regolarmente gli studi, anche se le condizioni generali degli insegnanti e degli alunni profughi rispecchiavano quelle degli altri sfollati presenti in città. Tra l’inverno e la primavera del ’18, molti studenti vennero accolti presso le scuole pubbliche, ma per la mancanza di locali alcuni furono costretti a rivolgersi ad istituti privati. La deficienza di aule scolastiche costrinse a ridurre l’orario delle lezioni e causò problemi di carattere igienico a causa del sovrappopolamento. Alla conclusione dell’anno scolastico, vennero censiti negli istituti pubblici fiorentini 234 studenti profughi, dei quali 177 nei ginnasi e 57 nei licei cittadini. Oltre all’istituzione di un nuovo Ginnasio-Liceo, era necessario provvedere anche a quella di una Scuola Complementare e Normale per le alunne profughe; il corso normale, di tre classi, contava 170 alunne, quello complementare, sempre di tre classi, 137. La stessa esigenza era sentita per le Scuole tecniche alle quali erano iscritti ben 437 alunni profughi .

Nei comuni rurali, raramente i bambini potevano frequentare la scuola oppure lo facevano saltuariamente. Se le autorità non se ne preoccupavano, gli stessi genitori preferivano tenere i propri bambini in casa per adibirli a lavori poco faticosi, come tenere a bada i fratelli più piccoli oppure mandarli a fare i garzoni di bottega. Non erano poi rari i casi in cui le scuole distavano parecchi chilometri dalle abitazioni dei profughi, rendendo di fatto, in particolare nei mesi invernali, molto problematica la frequenza. In molte località i bambini non potevano frequentare le scuole nella stagione invernale solo per la mancanza d’indumenti o di scarpe , oppure ne venivano respinti perché scalzi e mal vestiti, rimanendo quindi abbandonati a loro stessi e senza istruzione . Molto spesso i bambini profughi non venivano ammessi alle stesse scuole dei locali, ma venivano costretti a seguire le lezioni in edifici ed in aule improvvisate che, tranne i banchi e le sedie, erano prive di tutto anche se, in base alla circolare del 10 gennaio 1918, dell’assistenza agli alunni avrebbero dovuto occuparsi le autorità comunali e i patronati scolastici assicurando la refezione e la distribuzione gratuita di libri ed oggetti di cancelleria . Al di là delle condizioni materiali, qualsiasi possibilità d’integrazione tra popolazione locale ed elemento profugo era dunque negata e comunque non incentivata in alcun modo; le due comunità rimanevano estranee l’una all’altra, con buona pace della propaganda sempre pronta invece a presentare un’immagine del tutto diversa, dove la serena convivenza costituiva una delle basi della rinascita nazionale. Non mancavano comunque le eccezioni: «Noi bambini, probabilmente, risentivamo meno dei grandi cambiamenti, e avevamo tanti amici. Frequentavamo la scuola pubblica, dove non ci facevano pesare nessuna diversità, piuttosto ci portavano ad esempio e ci davano la merenda assieme ai figli dei combattenti» . I litigi con i bambini locali, in particolare in alcuni paesi dell’Italia meridionale, erano in ogni caso un evento quotidiano, quasi una riproposizione delle diatribe che interessavano gli adulti :

I ragazzi siciliani ci menavano, pensavano che noi fossimo la causa dei loro guai. Ci chiamavano rossi del Nord. Non avevano mai visto la neve e quell’inverno, dopo il nostro arrivo, era nevicato più volte. A tutti era stato consigliato di essere riservati e discreti, era meglio non fraternizzare troppo . 
Eravamo arrivati a Foggia dopo la metà di dicembre e quell’inverno, dopo 18 anni, venne la neve. I ragazzini del posto ci canzonavano: sti profughi ci’anno portato ’a neve. Un giorno mi sono stufato e dato che erano più piccoli di me, ne ho presi alcuni a schiaffi. Si rivoltarono subito contro mostrandomi un coltello ciascuno. Dovetti darmela a gambe e riparare in chiesa, per fortuna i carabinieri non li fecero entrare .

Ai bambini la diversità culturale rispetto alla popolazione locale risultava ancora più evidente che agli adulti. Per loro il profugato poteva essere vissuto come una continua scoperta, come una strana e lunga vacanza in luogo lontano e pieno di meraviglie:

Per noi ragazzi, veneti, era tutto un altro mondo, un’altra maniera di vivere, eravamo curiosi di vedere. Avessi visto la sera con tutti questi baroni, principi, perché, d’altra parte, là sono tutti nobili, magari senza soldi, che facevano la loro grande passeggiata; venivano fuori ad una certa ora con queste carrozze, due grandi cavalli davanti, piano, piano, per farsi vedere bene […], con le loro signore, tutte in “ghingari”, passavano davanti al caffè della piazza, scendevano, facevano due passi, tutto per farsi vedere. Erano tutte cose nuove per noi, era un modo speciale di vivere. Pensate! A venire giù dal fronte che non si vedevano altro che soldati e sentire cannonate, e si pensava al fieno, alle patate e alle castagne. E anche se eravamo ragazzi, ridevamo nel vedere questa gente al punto che ci sembrava di essere in un teatro .

Dei passaggi che comunque non hanno nulla a che fare con La mia guerra di vittoriniana memoria, dove lo stupore era dato dalla vicinanza del fronte e dal rombo del cannone . Sull’estraneità della popolazione locale alla guerra è lecito nutrire molti dubbi; questo elemento, tuttavia, compare in molte testimonianze, soprattutto in quelle in cui i profughi veneti e friulani si autorappresentano come le principali vittime della guerra . La realtà, quella materiale, era spesso ben diversa. A volte i bambini non riuscivano a comprendere come i genitori fossero in grado di procurarsi il cibo quotidiano, anche se intuivano le umiliazioni alle quali si sottoponevano per recuperare il cibo spesso grazie alla carità. Nelle colonie veneziane della riviera romagnola, numerosi ragazzi vennero sorpresi a compiere piccoli furti nelle abitazioni dove erano alloggiati e nei negozi; vennero registrati anche episodi giudicati disfattisti, seguiti da un processo e dalla relativa condanna . Comune invece tra i bambini più piccoli, tra gioco e necessità, era il furto campestre in particolare di ortaggi e frutta e, durante il periodo invernale, della legna che di rado veniva distribuita dai Comitati e che non sempre ai profughi era concessa gratuitamente dalle amministrazioni locali . Andare in giro per i boschi era dunque uno dei passatempi preferiti, ricordava Ettore Bulligan, si potevano raccogliere sterpaglie e rami caduti e, se si era più fortunati, trovarvi castagne e frutta di ogni tipo, che consentivano di dare un freno alla fame dal momento che per i bambini era una continua preoccupazione:

Attorno alla casa colonica si estendevano dei frutteti ben coltivati e Gino ed io nel giro di qualche giorno, mangiammo tutta la frutta che era per terra. Altro che tifo! In fondo alla tenuta vi era un pozzo presso il quale crescevano due grandi noci. Noi non solo mangiammo le noci cadute per terra, ma con un secchio forato sul fondo raccogliemmo quelle che, cadute nel pozzo, galleggiavano a pelo d’acqua .

In alcune località e colonie profughi, ad esempio a Castiglioncello (Livorno), la denutrizione dei bambini era impressionante e quasi tutte le ispezioni mettevano in rilievo questo particolare. Nella memoria dei bambini profughi la fame era poi un elemento ricorrente, come pure i modi per porvi rimedio:«Avevamo sempre fame, la gente del paese lo sapeva e così mio fratello Galliano aveva trovato lavoro presso un grossista di frutta secca, ma la paga era tanto misera che preferì lasciar perdere e andare a raccogliere legna, almeno avevamo di che scaldarci» .

Come detto, i bambini ed i ragazzi profughi furono costretti anche a lavorare. Oltre alle mansioni domestiche, alcuni di loro vennero impiegati nel lavoro dei campi, in genere per brevi periodi. Altri invece vennero sfruttati in lavori e per compiti molto più pesanti:

La nostra prima destinazione in Sicilia fu Sommatino in provincia di Caltanissetta […]. Eravamo ospitati in un grande salone, non so se si trattasse di una scuola o di una sala cinematografica, ricordo una fila di brande a destra ed una a sinistra. Ad 8 km c’era la miniera di zolfo di Trabia, dove mio papà ed io abbiamo lavorato per un breve periodo. Si servivano anche dei ragazzi per trasportare il materiale scavato. Riempite le ceste, ce le caricavamo sulle spalle per poi scaricarle sopra dei cumuli chiamati “calcaroni”, dai quali, attraverso la cottura, colava lo zolfo .

Per concludere, nemmeno i bambini profughi riuscirono a sottrarsi agli usi della propaganda di guerra. Nell’estate del 1918, subito dopo l’offensiva austriaca, sulla stampa iniziarono a circolare i racconti intorno ad un piccolo dodicenne orfano che, profugo da S. Daniele del Friuli, si era aggregato ad una compagnia di arditi durante la ritirata, per poi essere arruolato come telegrafista del Genio in un reparto dell’Armata del Grappa; il suo compito sarebbe stato quello di arrampicarsi sui pali del telegrafo per riparare i fili e aveva già dato prova del suo valore e del suo coraggio a ridosso delle linee del Monte Tomba. Se in questa descrizione – per la verità non si sa quanto reale – aveva un grosso peso il fatto che si trattasse di un bambino delle terre invase che lottava al fianco dell’esercito per poter presto ritornare a casa, la sua condizione di profugo non veniva invece evidenziata più di tanto . Un’operazione dunque chiaramente esplicita ed intesa a proporre una figura eroica che avesse i tratti un po’ di un Balilla e un po’ di una Piccola vedetta lombarda, ma comunque una figura del tutto improbabile ed anacronistica dati i caratteri della guerra moderna.

Abbreviazioni

ACS: Archivio centrale dello Stato, Roma

ADN: Archivio Diaristico Nazionale, Pieve S. Stefano (Arezzo)

AMV: Archivio Municipale di Venezia

ASUd: Archivio di Stato di Udine

IVSLA: Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Venezia

A5G: Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Affari generali e riservati, A5G, Prima guerra mondiale

Alto commissariato: Presidenza del Consiglio dei Ministri, Alto commissariato per i profughi di guerra (1917-1919)

Carte Luzzatti: Archivio delle carte Luigi Luzzatti

Comitato parlamentare veneto: Comitato parlamentare veneto per l’assistenza ai profughi

Copialettere: Ministero dell’Interno, Copialettere

Polizia giudiziaria: Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione polizia giudiziaria (1916-1918)

Profughi e internati: Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione polizia giudiziaria, amministrativa e sociale, Profughi e internati di guerra (1915-1920)

Terre liberate: Ministero per le Terre liberate dal nemico (1918-1923)

Tuc - arrivo: Ministero dell’Interno, Telegrammi ufficio cifra, in arrivo.