La leggenda del Tamburino Sardo

Custoza : La leggenda del Tamburino Sardo

Nel quadro storico delle battaglie della Prima Guerra di Indipendenza, si inserisce la leggenda del Tamburino Sardo, il personaggio nato dalla fantasia di Edmondo De Amicis: un ragazzo arruolato nell'esercito piemontese, incaricato di consegnare a Villafranca un messaggio con richiesta di aiuto. Uscito furtivamente dalla casa, dove la sua compagnia si era rifugiata, mentre corre verso Villafranca, viene ferito ad una gamba. Nonostante la perdita di sangue e il dolore lancinante porta a termine la missione e salva i compagni.

Ci troviamo qui a Custoza, nelle verdi colline della provincia di Verona. Il protagonista della vicenda è un ragazzo di poco più di quattordici anni, piccolo, dal viso bruno olivastro e con due occhietti neri e profondi. Egli si trova assieme ad una sessantina di soldati di un reggimento di fanteria dell'esercito piemontese, mandati su un'altura di Custoza ad occupare una casa abbandonata, quando improvvisamente vengono assaliti da due compagnie di soldati austriaci che li costringono a trovare rifugio nella casa stessa. Sbarrate precipitosamente le porte, i nostri uomini si dirigono verso le finestre imbracciando i fucili, dando così inizio ad una lungo ed estenuante scontro a fuoco che provoca numerosi morti su entrambi i fronti. Vistosi in grave difficoltà, il capitano al comando di questo distaccamento, un vecchio soldato, secco e austero, con i capelli e i baffi bianchi, chiama in disparte il giovane tamburino, facendogli cenno di seguirlo al piano superiore: nella nuda soffitta il capitano sta scrivendo con una matita sopra un foglio; lo ripiega, e fissando negli occhi il ragazzo gli comunica che sta per affidargli un'importante missione: a Villafranca, appena scesa la collina, deve trovare i carabinieri reali: il ragazzo ha l'ordine di raggiungerli e consegnare il messaggio al primo ufficiale che trova sul suo cammino.
E così è. Si cala con una corda dalla finestra che si trova sul retro della casa, e comincia a correre il più velocemente possibile; nel frattempo, il capitano, con lo sguardo, segue fin che può i suoi movimenti; quando gli austriaci però, si accorgono del ragazzo che si allontana in gran fretta intuiscono la sua missione, e iniziano a bersagliarlo: viene presto colpito ma si rialza, riprende la corsa zoppicando, rallenta ancora, …poi ricomincia a correre più veloce, tanto veloce che scompare in un baleno dietro una siepe. Il capitano preoccupato lo perde di vista. Al pian terreno, intanto, il numero dei morti e dei feriti è aumentato ancora, ma egli con la speranza riposta nel suo tamburino non ha ancora alcuna intenzione di arrendersi.
Il tempo passa, e tutti ormai stanno perdendo la speranza quando, all'improvviso, in mezzo al polverone della battaglia, si intravedono i berretti a due punte dei carabinieri: i rinforzi sono finalmente giunti.
Il piccolo tamburino ce l'ha fatta.
La giornata alla cascina termina con la vittoria dei nostri, ma due giorni dopo l’Armata Sarda è costretta a ripiegare incalzata da Radetzky.
Il capitano, benché anche Lui ferito, una volta giunto a Goito nel disordine della ritirata in corso verso il Mincio, desidera comunque sincerarsi delle condizioni di salute del un suo prezioso tamburino.
Era stato trasportato da un'ambulanza in un ospedale da campo ubicato all’interno di una chiesa.
Una volta giuntovi si guarda attorno cercando con lo sguardo il suo sottoposto in mezzo a tutti quegli uomini adagiati sui pagliericci posti sul pavimento della chiesa. Quando dispera di poterlo trovare, si sente chiamare da una voce fioca: è il suo piccolo tamburino, disteso sopra un letto a cavalletti, coperto fino al petto da una tenda da finestra, pallido e smagrito. Alle richieste del capitano, inizia il racconto della sua impresa, tra mille difficoltà e sotto il fuoco nemico, con l'unico pensiero di assolvere all'incarico che gli era stato affidato: l'uomo, vedendo il ragazzo così debole è indotto a pensare che abbia perso molto sangue, ma distoglie inorridito lo sguardo quando vede che al giovane è stata amputata una gamba, e il troncone rimasto è fasciato da panni insanguinati. Giunge in quell'attimo il medico che, dolente, comunica al capitano come la gamba si sarebbe potuta salvare, se non fosse stata sforzata in modo così assurdo. E' così che l'uomo, quel rozzo soldato che difficilmente aveva pronunciato parole miti verso un inferiore di grado, alza la mano alla fronte in segno di saluto e disse: "Io non sono che un capitano. Tu sei un eroe ". Poi si getta con le braccia aperte sul tamburino, e lo bacia tre volte sul cuore.