Trencentomila
italiani traditi dal Pci: l'Istria e le foibe macchia nera della sinistra
Gli esuli di Quarnaro e Dalmazia, in fuga dalla Jugoslavia
del compagno Tito: un massacro, ma per i compagni erano fascisti
di Giampaolo Pansa
11 febbraio 2012
Qualche giorno fa, una radio mi ha chiesto: «Perché le
sinistre italiane non amano ricordare gli assassinati nelle foibe e l’esodo
istriano, fiumano e dalmata?». Ho risposto d’istinto: «Perché hanno la
coscienza sporca». Il giornalista mi rimproverò: «Dottor Pansa, lei vede
comunisti dappertutto!». Gli replicai, sorridendo: «Non dappertutto, per
fortuna. Ma in quella vecchia storia c’erano, stia sicuro».
Nel Giorno del Ricordo, l’altroieri, sono state rammentate
soprattutto le vittime delle foibe di Tito, quasi niente la tragedia dei
trecentomila italiani costretti ad andarsene dall’Istria, dal Quarnaro e dalla
Dalmazia. Nel complesso, l’esodo durò una decina d’anni. Ma ebbe un picco
all’inizio del 1947, quando il Trattato di pace, imposto all’Italia dai vincitori,
stabilì che le terre italiane sulla costa orientale dell’Adriatico dovevano
passare alla Jugoslavia.
Perché tanta gente se ne andò? Ridotti all’osso, i motivi
erano tre. Il più importante fu il terrore di morire nelle foibe com’era già
accaduto a tanti altri italiani. Il secondo fu il rifiuto del comunismo come
ideologia totalitaria e sistema sociale. Il terzo fu la paura speciale indotta
dal nazional-comunismo di Tito e dalla decisione di soffocare con la violenza
qualunque altra identità nazionale.
La prima città a svuotarsi fu Zara, isola italiana nel mare
croato della Dalmazia. Era stata occupata dai partigiani di Tito il 31 ottobre
1944, quando il presidio tedesco aveva scelto di ritirarsi. La città era un
cumulo di macerie. Ad averla ridotta così erano stati più di cinquanta
bombardamenti aerei anglo-americani. Le incursioni le aveva sollecitate lo
stato maggiore di Tito. Era riuscito a convincere gli Alleati che da Zara
partivano i rifornimenti a tutte le unità tedesche dislocate nei Balcani. Non
era vero. Ma le bombe caddero lo stesso. Risultato? Duemila morti su una
popolazione di 20.000 persone. Molti altri zaratini vennero soppressi dai
partigiani di Tito dopo l’ingresso in città. Centosettanta assassinati. Oltre
duecento condanne a morte. Eseguite con fucilazioni continue, dentro il
cimitero. Oppure con due sistemi barbari: la scomparsa nelle foibe e
l’annegamento in mare, i polsi legati e una grossa pietra al collo.
Intere famiglie sparirono. Accadde così ai Luxardo, ai
Vucossa, ai Bailo, ai Mussapi. Gli italiani di Zara iniziarono ad andarsene in
quel tempo. Nel 1943 gli abitanti della città erano fra i 21.000 e il 24.000.
Alla fine della guerra si ritrovarono in appena cinquemila. Poi fu la volta di
Fiume, la capitale della regione quarnerina o del Quarnaro, fra l’Istria e la
Dalmazia. L’Armata popolare di Tito la occupò il 3 maggio 1945, proclamando
subito l’annessione del territorio alla Jugoslavia. Da quel momento l’esistenza
degli italiani di Fiume risultò appesa a un filo che poteva essere reciso in
qualsiasi momento dalle autorità politiche e militari comuniste.
L’esodo da Fiume conobbe due fasi. La prima iniziò subito,
nella primavera 1945. Il motivo? Le violenze della polizia politica titina,
l’Ozna, dirette contro tutti: fascisti, antifascisti, cattolici, liberali,
compresi i fiumani che non avevano mai voluto collaborare con i tedeschi.
Bastava il sospetto di essere anticomunisti, e quindi antijugoslavi, per subire
l’arresto e sparire. All’arrivo dei partigiani di Tito, gli italiani di Fiume
erano fra i 30 e i 35.000, gli slavi poco meno di 10.000. I nuovi poteri che
imperavano in città erano il comando militare dell’Armata popolare, un’autorità
senza controlli, e il Tribunale del popolo, affiancato dalle corti penali
militari. Dalla fine del 1945 al 1948 vennero emesse duemila condanne ai lavori
forzati per attività antipopolari. Molti dei detenuti non ritornarono più a
casa. Ma il potere più temuto era quello poliziesco e segreto dell’Ozna, il
Distaccamento per la difesa del popolo. A Fiume la sede dell’Ozna stava in via
Roma. Un detto croato ammoniva: «Via Roma - nikad doma». Se ti portano in via
Roma, non torni più a casa. In due anni
e mezzo, sino al 31 dicembre 1947, l’Ozna uccise non meno di cinquecento
italiani. Un altro centinaio scomparve per sempre.
Il primo esodo da Fiume cominciò subito, nel maggio 1945.
Per ottenere il permesso di trasferirsi in Italia bisognava sottostare a
condizioni pesanti. Il sequestro di tutte le proprietà immobiliari. La confisca
dei conti correnti bancari. Chi partiva poteva portare con sé ben poca valuta:
20 mila lire per il capofamiglia, cinquemila per ogni famigliare. E non più di
cinquanta chili di effetti personali ciascuno. Il secondo esodo ci fu dopo il
febbraio 1947, quando Fiume cambiò nome in Rijeka e divenne una città
jugoslava. Ma erano le autorità di Tito a decidere chi poteva optare per
l’Italia. Furono molti i casi di famiglie divise. Nei due esodi se ne andarono
in 10.000. E gli espatri continuarono. Nel 1950 risultò che più di 25.000
fiumani si erano rifugiati in Italia. Per il 45 per cento erano operai, un
altro 23 per cento erano casalinghe, anziani e inabili. Ma per il Pci di allora
erano tutti borghesi, fascisti, capitalisti e plutocrati carichi di soldi.
Provocando le reazioni maligne che tra un istante ricorderò.
La terza città a svuotarsi fu Pola, il capoluogo
dell’Istria, divenuta in serbocroato Pula. A metà del 1946 la città contava
34.000 abitanti. Di questi, ben 28.000 chiesero di poter partire. Gli esodi si
moltiplicarono nel gennaio 1947 e subito dopo la firma del Trattato di pace.
L’anno si era aperto sotto una forte nevicata. Le fotografie scattate allora
mostrano tanti profughi che arrancano nel gelo, trascinando i poveri bagagli
verso la nave che li attende. In poco tempo Pola divenne una città morta. Le
abitazioni, i bar, le osterie, i negozi avevano le porte sigillate con travetti
di legno. Su molte finestre chiuse erano state fissate bandiere tricolori. Fu
l’esodo più massiccio. Dei 34.000 abitanti se ne andarono 30.000. Dopo Pola, fu
la volta dei centri istriani minori, come Parenzo, Rovigno e Albona. Le
autorità titine cercarono di frenare le partenze con soprusi e minacce. Ma non
ci riuscirono. Da Pirano, un centro di settemila abitanti, il più vicino a
Capodistria e a Trieste, partirono quasi tutti.
Sfuggiti al comunismo jugoslavo, gli esuli ne incontrarono
un altro, non meno ostile. I militanti del Pci accolsero i profughi non come
fratelli da aiutare, bensì come avversari da combattere. A Venezia, i portuali
si rifiutarono di scaricare i bagagli dei “fascisti” fuggiti dal paradiso
proletario del compagno Tito. Sputi e insulti per tutti, persino per chi aveva
combattuto nella Resistenza jugoslava con il Battaglione “Budicin”. Il grido di
benvenuto era uno solo: «Fascisti, via di qui!». Pure ad Ancona i profughi
ebbero una pessima accoglienza. L’ingresso in porto del piroscafo “Toscana”,
carico di settecento polesani, avvenne in un inferno di bandiere rosse. Gli
esuli sbarcarono protetti dalla polizia, tra fischi, urla e insulti. La loro
tradotta, diretta verso l’Italia del nord, doveva fare una sosta a Bologna per
ricevere un pasto caldo preparato dalla Pontificia opera d’assistenza. Era il
martedì 18 febbraio 1947, un altro giorno di freddo e di neve. Ma il sindacato
dei ferrovieri annunciò che se il treno dei fascisti si fosse fermato in
stazione, sarebbe stato proclamato lo sciopero generale. Il convoglio fu
costretto a proseguire. E il latte caldo destinato ai bambini venne versato sui
binari.
A La Spezia, gli esuli furono concentrati nella caserma “Ugo
Botti”, ormai in disuso. Ancora un anno dopo, l’ostilità delle sinistre era
rimasta fortissima. In un comizio per le elezioni del 18 aprile 1948, un
dirigente della Cgil urlò dal palco: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi
qui abbiamo i banditi giuliani».
Rimase isolato il caso del sindaco di Tortona, Mario Silla,
uno dei protagonisti della Resistenza in quell’area. Quando lo intervistai per
la mia tesi di laurea, mi spiegò: «Io non sono mai stato un sindaco comunista,
ma un comunista sindaco». I suoi compagni non volevano ospitare i mille
profughi destinati alla caserma “Passalacqua”. Ma Silla s’impose: «È una
bestialità sostenere che sono fascisti! Sono italiani come noi. Dunque non
voglio sentire opposizioni!».
La diaspora dei trecentomila esuli raggiunse molte città
italiane. I campi profughi furono centoventi. Anno dopo anno, le donne e gli
uomini dell’esodo ritrovarono la patria, con il lavoro, l’ingegno, le capacità
professionali, l’onestà. Mettiamo un tricolore alle nostre finestre in loro
onore.
Tratto da : www.liberoquotidiano.it/