La costituzione e la monarchia
di Riccardo Scarpa
Da : L’Opinione - Edizione 82 del 29-04-2008
Le riflessioni sulla “Resistenza” del Capo dello Stato,
Giorgio Napolitano, hanno riaffermato, nell’occasione dell’ultimo 25 d’aprile,
un profilo alto del garante delle libere istituzioni e della coscienza
nazionale. Con quel ricordo rispettoso d’ogni caduto, a prescindere dalla
scelta compiuta in momenti difficili, ed al contempo con quel esigere rispetto
per la storia, per quanto attenga ai principî fondanti dello Stato libero. Ne
risulta la conferma d’un profilo della suprema magistratura dello Stato tanto
morale quanto, direi, fisica, da re, quale un Umberto che non avesse patito i
risultati referendarî alla Romita e fosse lì, ringiovanito, con una sua
naturale tendenza ad una «monarchia socialista», quella ipoteticamente
saragattiana e non l’obiettivo polemico del Missiroli prefascista. Detto
questo, si consentano dei rispettosi rilievi storiografici, indispensabili
proprio per rimarcare i principî fondanti d’un senso di patria che possa essere
condiviso appieno.
Il Capo dello Stato, nel discorso di Genova, avoca alla
«Resistenza» il merito d’aver fatto sì che la nuova Costituzione del 1947-48,
promulgata da Enrico De Nicola, sia frutto d’un Assemblea costituente eletta a
suffragio universale diretto, al contrario delle due altre date alle potenze
dell’«asse» sconfitta. Queste ultime, infatti, o sono frutto, come la «Legge
fondamentale» della Repubblica Federale di Germania, di opera dei Länder locali
sotto controllo delle potenze occidentali, con l’approvazione d’una Consulta
costituzionale eletta per modo di dire, oppure, come in Giappone, direttamente
date per ispirazione dello stesso generale Douglas Arthur MacArthur, comandante
delle forze alleate del Pacifico. Questo avvenne, però, per tre circostanze che
debbono essere rese esplicite. Sono le scelte del re Vittorio Emanuele III e
del principe Umberto quale luogotenente generale del Regno, nei difficili
frangenti fra la fine dell’ultimo governo Mussolini, il 25 luglio del 1943, l’8
settembre successivo e la ricostituzione delle Regie forze armate col I
Raggruppamento motorizzato e, poi, Corpo italiano di liberazione.
Queste scelte furono:
1) la tanto
discussa decisione, costituito un Governo che liberasse lo Statuto dalle
sovrastrutture fasciste, nelle difficili circostanza generate da modi e forme
nelle quali gli anglo-americani resero noto l’armistizio, di «mettere al
sicuro» i vertici istituzionali da rappresaglie germaniche per conservare la
continuità dello Stato italiano, esattamente come fece Stalin nell’Unione
Sovietica, riparando in gelide regioni interne distanti da Mosca per leghe non
paragonabili al tiro di schioppo che separa Roma da Brindisi o Salerno, e non
prendendo neppure in considerazione di riparare all’estero, come fecero i
sovrani d’Olanda o Belgio e fece il generale Charles De Gaulle, per «dirigere
la resistenza francese»;
2) l’allaccio
immediato di contatti istituzionali con gli alleati, che perciò non occuparono
mai le province sotto controllo del regno, e ne riconobbero la sovranità sui
territorî mano a mano liberati, sino a riaccreditare a Roma le rispettive
rappresentanze diplomatiche una volta liberata la capitale;
3) la immediata
e spontanea resistenza, checché se ne dica, di molte unità militari agli
occupanti germanici nella penisola, nelle isole greche e nei Balcani, e la
ricostituzione di Forze armate regolari, combattenti con valore al fianco degli
alleati, dalla partecipazione alla battaglia di Montelungo del I Raggruppamento
motorizzato, nel dicembre del 1943, alla costituzione del Corpo italiano di
liberazione (un corpo d’armata) nell’aprile del 1944, coi Gruppi di
combattimento (divisioni) Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova i Piceno,
cioè d’un esercito di 413.000 uomini, coadiuvato da una marina di 83.000 uomini
e un’aeronautica di 31.000, è a dire di Forze armate che hanno lasciato sul
campo 87.000 caduti tra l’8 settembre del 1943 e l’8 di maggio del 1945, alle
quali s’aggiungono gli 80.000 militari presenti nelle formazioni partigiane ed
i 590.000 internati dai Germanici, poiché rifiutarono con essi ogni
collaborazione, pel giuramento reso al Re ed alla Patria.
Tutto ciò ha impedito che lo Stato italiano abbia dovuto
subire alcuna «debellatio», cioè annullamento della sua esistenza statuale.
Proprio quanto, invece, venne imposto alla Germania rappresentata
dall’ammiraglio Karl Dœnitz, per conto del governo d’affari formato dal conte
Johann Schweirn von Krosigk per trattare una resa che fu incondizionata.
Situazione espressa nella «legge» promulgata, il 25 di Febbraio del 1946, col
n°46, da parte del Comitato di Controllo interalleato che dispone: «Lo Stato
prussiano, insieme col suo governo centrale ed i suoi ufficî, è abolito». A
parte il tono ridicolo dell’enunciato, che è come se gli alleati, nel 1943 o
nel 1945, avessero abolito il Regno di Sardegna, sta in fatto che lo Stato
italiano, per le tanto discusse scelte politiche del momento di S. M. il Re
Vittorio Emanuele III, e del suo governo, non subì una simile «debellatio», e
per tanto fu pienamente sovrano nel scegliere come e con quali forme riformare
il proprio ordinamento costituzionale. Se, poi, le modalità scelte per decidere
la forma di Stato e di Governo furono quelle del referendum e dell’elezione
d’un Assemblea costituente, votati per suffragio universale e diretto, ciò lo
si deve a decreti legislativi luogotenenziali di Umberto di Savoia.
Infatti re Vittorio Emanuele III, col Regio decreto del 2
agosto 1943, n.705, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni e
dichiarato, così, chiusa la XXX legislatura, ma le elezioni per la nuova Camera
si davano per rinviate alla fine delle ostilità, e nelle more il potere
legislativo veniva assunto dal governo, con decreti legge, che comunque
mantenevano la clausola della presentazione al Parlamento per la conversione.
Il sovrano, cioè, si limitò ad agire nell’ambito statutario, in attesa che le
circostanze politiche consentissero il normale funzionamento dello Statuto
Albertino. È con la nomina d’Umberto a luogotenente generale del Regno, che
quest’ultimo, alla fine di tutto un processo politico, con decreto legislativo
luogotenenziale del 25 giugno del 1944, n°151, che onestamente gli editori
dovrebbero pubblicare a premessa storica della Costituzione vigente, si prevede
l’elezione a suffragio universale diretto dell’Assemblea costituente e lo
svolgimento del referendum sulla forma istituzionale dello Stato.
Quindi, la nazione ha scelto liberamente le sue forme
costituzionali per due fatti storici concreti: la permanenza dello Stato
sovrano nato dal Risorgimento, procurata da scelte, rivelatesi opportune e
corrette, colle quali Re Vittorio Emanuele III ha concluso il suo lungo regno;
una volontà politica democratica, rappresentata con fedeltà dalla luogotenenza
e dal breve regno di Umberto II.
Se, poi, un personale politico miope, nelle sue visioni di
prospettiva storica, tiene ancora le ossa dei protagonisti lontane dal Pantheon
risorgimentale, ciò lo si deve alla mancanza di coraggio con cui lor signori
affrontano ogni giorno quel referendum diuturno che, come scriveva Ernest
Rénan, è la nazione: il sentimento della quale, proprio per questo, continua a
perdere il referendum ogni giorno, esclusi quelli in cui gioca la nazionale.