Gli internati in Germania

GLI INTERNATI IN GERMANIA, UNA PAGINA DIMENTICATA
Lettera a Sergio Romano e risposta dell’Ambasciatore
su Il Corriere della Sera del 16 aprile 2009

Caro Romano, ho letto la sua risposta alla lettera riguardante i militari italiani prigionieri negli Usa (Corriere, 7 aprile), e vorrei porle una domanda: perché non si parla se non rarissimamente dei militari come mio padre, che l'8 settembre fu fatto prigioniero dai tedeschi (nel caso specifico era nella marina militare a Pola) e tenuto prigioniero per due anni, obbligato a lavorare in condizione di schiavitù vicino al fiume Oder e poi a Berlino, per i quali inoltre non è previsto alcun indennizzo da parte del governo tedesco? Ho tutti i documenti delle sue vicissitudini e, inoltre, girando l'Italia, non ricordo di aver visto monumenti ai soldati stranieri di qualsiasi nazionalità uccisi in combattimento per la nostra liberazione, né ho notizia di commemorazioni nei loro confronti.
Ho l'impressione che i due argomenti che ho affrontato anche in normali discussioni diano quasi noia. L'Italia pare sia stata liberata solo dai partigiani per i quali le commemorazioni sono sempre presenti e i militari come mio padre (che riuscì poi a scappare dai tedeschi mentre i russi stavano avanzando in Polonia e fu poi catturato
dagli americani, rimpatriato e reinquadrato nella marina militare) siano quasi un incidente di percorso.
So da notizia pubblicata proprio sul Corriere che sarà istituita una commissione europea per scrivere la storia di questi militari, circa 600 mila, per i quali non esiste se non molto lacunosa una memoria storica attendibile.

Enrico Novello

Risponde Sergio Romano

Caro Novello,
Lei vorrebbe che agli internati militari italiani in Germania (come furono definiti dal governo tedesco) venisse prestata un'attenzione non troppo diversa da quella riservata ad altre vittime del Novecento: gli armeni, gli ucraini della grande carestia sovietica, i “nemici del popolo" della Russia staliniana, gli ebrei della "soluzione finale", le popolazioni cacciate dalle loro case in Germania, in Polonia, in Istria, nel Baltico, nel Caucaso, nella penisola balcanica.
Ho già scritto in altre occasioni che questa corsa alla memoria è per molti aspetti la conseguenza del modo in cui le comunità ebraiche sono riuscite a ottenere che il tema della Shoah continuasse a dominare l'agenda della memoria universale.

Esiste ormai una gerarchia dei lutti, una graduatoria delle sofferenze in cui le vittime
meno ricordate aspirano a una maggiore visibilità. Continuo a pensare che questa macabra gara della memoria presenti, per la convivenza fra i discendenti delle vittime, più rischi che vantaggi.
E mi ha fatto piacere leggere in un breve libro di Marta Dassù, apparso ora presso Bollati Boringhieri ("Mondo privato e altre storie"), che “dimenticare è importante. Non per rimuovere. Per superare odi troppo antichi".
È vero, tuttavia, che la storia degli internati militari in Germania è stata per molto tempo trascurata. Conoscevamo il loro numero: Furono queste le ragioni per cui gli internati finirono in una sorta di limbo della memoria. Qualcuno scrisse i suoi ricordi o documentò la prigionia con i suoi disegni, ma l'Italia ufficiale preferì parlare della Resistenza e della sua epopea. Il ghiaccio fu rotto da Alessandro Natta, segretario generale del Partito comunista dal 1984 al 1988. In un convegno che si tenne a Firenze nel maggio del 1991 parlò della propria esperienza di internato, ricordò i suoi compagni di circa 600 mila. Sapevamo con quali pressioni i tedeschi e i rappresentanti della Repubblica sociale avevano cercato d'indurli a cooperare con il nuovo regime di Mussolini. Sapevamo che la grande maggioranza aveva tenacemente rifiutato e che tra questi vi erano persone molto note come Giovanni Guareschi, Giuseppe Ansaldo e Giuseppe Novello, uno dei più acuti e brillanti disegnatori umoristici del Novecento. Ma nessuno dei tre era gradito alle sinistre e, per di più, molti di coloro che rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale sostennero
di considerarsi legati dal giuramento di fedeltà al Re.

Furono queste le ragioni per cui gli internati finirono in una sorta di limbo della memoria.
Qualcuno scrisse i suoi ricordi o documentò la prigionia con i suoi disegni, ma l'Italia ufficiale preferì parlare della Resistenza e della sua epopea. Il ghiaccio fu rotto da Alessandro Natta, segretario generale del Partito comunista dal 1984 al 1988. In un convegno che si tenne a Firenze nel maggio del 1991 parlò della propria esperienza di internato, ricordò i suoi compagni di prigionia e rivelò di avere descritto quelle vicende in una riflessione-testimonianza del 1954 che la casa editrice del suo partito, allora, non aveva ritenuto opportuno pubblicare.
Il suo libro apparve nel 1997 presso Einaudi con il titolo "L'altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania" e una prefazione di Enzo Collotti.
Ebbe il merito di rendere pubblica una storia che era stata sino ad allora soprattutto
privata. Più recentemente abbiamo letto, tra l'altro, i ricordi dell'avvocato Odoardo Ascari pubblicati da Nuova Storia Contemporanea e quelli di Giovanni Giovannini, giornalista e presidente della Federazione italiana editori, pubblicati da Scheiwiller nel 2004 ("Il quaderno nero - settembre 1943, aprile 1945").
Nel suo ultimo lager, accanto al lago di Costanza, Giovannini cadde malato e fu curato da una studentessa di medicina ucraina. Ne nacque un idillio e i due giovani amanti, divisi al momento della liberazione, si dettero un appuntamento.
Ma al luogo fissato per l'incontro la giovane Larissa non apparve mai.
La spiegazione venne quando Giovannini apprese che i cittadini dell'Urss, con l'aiuto
degli anglo-americani, erano passati dai campi di concentramento tedeschi a quelli sovietici. Come vede, caro Novello, nella graduatoria delle tragedie ve n'è sempre una peggiore.