L'eccidio di Bosco

Risorgimento dimenticato :

L’eccidio di Bosco

Quando si tratta di denigrare e mistificare il Risorgimento i “soloni” sono sempre pronti ad intervenire per criticare l’operato sabaudo ed i protagonisti noti e meno noti di un’epoca straordinaria. Quando si vogliono elencare le “colpe” dello Stato unitario nel Mezzogiorno post-unitario, eguagliandolo a quello nazista o al regime di Saddam Hussein, giornalisti ed intellettuali, quelli che i Borbone avrebbero chiamato in modo dispregiativo, “pennaruli”, hanno sempre l’inchiostro facile, ma la fretta di accusare gli altri, ha sempre nascosto i limiti e le colpe, per esempio, del regime borbonico. Nessuno di costoro nei loro libri ed articoli, negli ultimi mesi, ha ricordato l’eccidio di Bosco! Lo faremo noi…

Nonostante la dura repressione seguita ai moti del 1820 e 1821, i fermenti liberali e costituzionalistici non si erano mai spenti del tutto nel Regno delle Due Sicilie. Questi “focolai” di protesta crebbero notevolmente nell’estate del 1828 nel Cilento, quell’area montuosa della Campania meridionale che si protende a penisola tra i golfi di Salerno e Policastro. Qui un’alleanza composta da carbonari, intellettuali, sacerdoti, contadini e briganti, era sorta per sollecitare la monarchia borbonica a concedere la Costituzione. Fu proprio un prete, don Antonio De Luca, parroco di Bosco, con le sue omelie domenicali a dare il via alla protesta. Si unirono a lui i tre fratelli Capozzoli, capi di una banda che da tempo seminava il terrore nel salernitano. I rivoltosi incaricarono proprio i Capozzoli ad assaltare un deposito di armi a Palinuro, ma prima del loro arrivo vennero traditi da una spia, la stessa che per una fatale distrazione di Antonio Galotti, un altro dei capi della rivolta, aveva già informato la Polizia borbonica, dopo la distruzione delle linee di comunicazione telegrafiche tra il salernitano e Napoli.

Al grido di “Viva Dio Viva il Re” i partecipanti alla sommossa decisero anche senza armamento di marciare verso i centri abitati del circondario, invocando la concessione di una carta costituzionale sul modello francese del 1791. In tutte le chiese della zona si iniziò a cantare Te Deum per ingraziarsi la vittoria. A Camerota i patrioti riuscirono a disarmare i gendarmi e lo stesso avvenne nella frazione di Licusati. Il primo obbiettivo doveva essere quello di assaltare le truppe regie per renderle inoffensive per poi puntare alla liberazione dei tanti prigionieri politici. Giunti a San Giovanni a Piro, le campane iniziarono a suonare mentre la locale guarnigione si arrese subito. Quando venne deciso di celebrare il Te Deum, sia il parroco che il sindaco si rifiutarono innescando una violenta reazione dei rivoltosi. Nel vicino centro di Bosco, invece, la popolazione scese per le strade osannante, capeggiata da don De Luca così come a Montano. Tutto sembrava andare bene quando giunse la notizia che 8.000 soldati borbonici al comando del maresciallo Francesco Saverio Del Carretto (un ex carbonaro rinegato) stavano dirigendosi a marce forzate contro i ribelli. Affrontare in campo aperto l’esercito regolare sarebbe stata pura follia, un suicidio, per tanto accogliendo i consigli del canonico De Luca e degli altri capi dell’insurrezione, venne deciso che tutti si sarebbero dati alla macchia mentre altri decisero di arrendersi.

Al Del Carretto erano stati attribuiti i pieni poteri per reprimere senza indugi la rivolta cilentana ed insensibile comunque, alle direttive di moderazione che gli erano pervenute dai ministri Intonti e De’Medici, nonostante il primo fosse tra i fondatori della Polizia borbonica, i quali si fecero interpreti del pensiero di re Francesco I di non infierire sui vinti, il 7 luglio ordinò che la cittadina di Bosco fosse data alle fiamme, rasa al suolo, facendo spargere sale sulle rovine, con l’innalzamento di una colonna d’infamia a perpetua memoria del moto rivoluzionario del 28 giugno, composta dalle teste dei primi prigonieri. Tutto questo per punirla per aver dato asilo ai “felloni”.

“S’imponeva con urgenza - scrisse il Del Carretto al ministro Intonti – un esempio capace di terrificare e convertire gli altri malintenzionati. L’incendio di Bosco ha prodotto un notevole cambiamento nei selvaggi e corrotti abitanti del distretto, trasformandoli in gente di tutt’altro genere”. A dire il vero gli scampati all’eccidio e gli insorti, circa 200, furono processati e poi o condannati a morte o imprigionati. Una delle sorti peggiori toccò all’anziano don Antonio De Luca ed ad un suo nipote anch’egli sacerdote: strappati gli abiti talari i soldati borbonici li fucilarono seminudi alla schiena come traditori!

Altri 27 sventurati furono decapitati e le loro teste in gabbie di ferro furono esposte in varie piazze della regione, chi sfuggì alla cattura come i fratelli Capozzoli, vennero in seguito perseguiti finendo anch’essi sul patibolo. Scrisse in quelle settimane, l’ambasciatore inglese a Napoli sir William Noel-Hill barone di Berwick: “Ho saputo che il cavalier de’Medici disapprova recisamente l’estrema severità con cui sono stati trattati i delinquenti….ha dichiarato…che essa è derivata soltanto dagli ordini del re, la cui febbrile apprensione non poteva in nessun altro modo venire placata…Tutte le brillanti speranze destate dall’avvento al trono dell’attuale sovrano (Francesco I di Borbone, n.d.a.) sono da lungo tempo estinte. Anche se, come qualcuno insiste nel credere che il personale desiderio del re mirerebbe al miglioramento e alla rigenerazione del popolo, è evidente che le perniciose influenze da cui è attorniato sono troppo forti per lasciar sussistere la sia per minima speranza nella sua capacità di attuarli. Il governo è oggi odiato più di quanto non lo sia stato mai sotto il suo predecessore (Ferdinando I di Borbone, n.d.a.).

Il 4 agosto 1828 un decreto reale soppresse il paese di Bosco e ne vietò la riedificazione.

Dobbiamo ringraziare agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, l’editore salernitano Galzerano per aver pubblicato con vari titoli e portato alla ribalta storica i fatti citati. Ma si sa che i “panni sporchi si lavano in famiglia”.

Tratto da : BIBLIOTECA STORICA REGINA MARGHERITA PIETRAMELARA (CE)

01.05.2010 – Giuseppe Polito (Direttore)