Gli strascichi della guerra, militari e politici
Il nuovo corso della politica Sabauda
Mentre si trattava l'armistizio, e precisamente il 24 marzo, il Generale austriaco Wimpffen alla testa di tre Brigate si presentava davanti a Casale e intimava la resa. La città non aveva fortificazioni tali da opporre resistenza, perché nel vecchio castello c'erano pochi artiglieri invalidi comandati dal Barone Solono di Villanova e nella città l’unico presidio valido era rappresentato dalla Guardia Nazionale. Soldati e cittadino comunque deliberarono che occorreva resistere e poco dopo il mezzogiorno risposero orgogliosamente al fuoco nemico che durò fino a sera.
Durante la notte giunse qualche rinforzo con il Capitano Morozzo e con il Commissario Mellana; cinquanta soldati che scontavano lievi reati amministrativi nelle prigioni, furono aggiunti alla difesa. Si provvide anche alla costruzione di barricate e il giorno 25, avendo il Generale Wimpffen ricominciato il fuoco, la Guardia Nazionale, operò una vigorosa sortita, ricacciando gli Austriaci che si preparavano all’assalto della città. A sera però, cessarono le ostilità essendo giunta notizia dell'armistizio. Gli Austriaci si ritirarono così definitivamente oltre il fiume Sesia come prescritto.
Più a sud, il Generale Fanti, che aveva sostituito il Generale Ramorino al comando della 5a Divisione (la Divisione Lombarda), rimasto senza istruzioni davanti a Mezzanacorte, condusse le truppe ad Alessandria, dove ricevette l'annunzio dell'armistizio e l'ordine di far prestare alla Divisione il giuramento di fedeltà al nuovo Re. Quindi, essendo incominciati i moti di Genova, la divisione fu mandata a Bobbio e qui disciolta. Chi voleva andare a Chiavari e di là recarsi in Toscana o a Roma si promisero i mezzi. Molti poi il 4 aprile partirono effettivamente per Chiavari ma solamente il battaglione dei bersaglieri di Manara e una compagnia del 22° Reggimento, riuscirono più tardi a proseguire per Civitavecchia.
Le notizie della sconfitta di Novara, dell'abdicazione del Re Carlo Alberto e dell'armistizio, giunte a Torino tutte assieme, produssero sgomento ed una forte impressione; Il Governo presento ovviamente le dimissioni, e nonostante le intemperanze dei più sanguigni esponenti dei vari partiti, questo grave colpo nazionale fu, dopo il primo impatto, sopportato con dignità.
I soldati e la Guardia Nazionale nel frattempo, prestarono giuramento di fedeltà al nuovo Re, che rientrò a Torino nella notte del 26 marzo.
Il 27 mattina, accettava le dimissioni del Governo, e componeva un nuovo esecutivo.
Il nuovo corso della politica Sabauda
Vittorio Emanuele, affidò l'incarico di comporre il nuovo governo al savoiardo Generale Gabriele De Launay, il quale prese per sé la Presidenza e gli Esteri e chiamò all'Interno Dionigi Pinelli, alla Giustizia e al Culto il Barone Luigi Margherita, alla Guerra e Marina il Generale Enrico Morozzo della Rocca, alle Finanze Giovanili Nigra, ai Lavori Pubblici Gian Filippo Galvagno, alla Pubblica Istruzione Cristoforo Mameli e creò ministro senza portafoglio Vincenzo Gioberti.
Radetzky, parlandogli quasi da padre durante l’incontro, gli aveva fatto notare che i suoi veri nemici si trovavano tra i suoi ministri e Vittorio Emanuele aveva risposto che ci sarebbe stato un altro Governo, “…ed è con questi nuovi ministri che io mi consiglierò e guiderò lo Stato".
Detto fatto, arrivato a Torino fu ancora più chiaro, lanciando un proclama ai suoi sudditi, che dai rappresentanti della demagogia, quali Sineo, Lanza, Rattizzi, Cadorna e Buffa venne considerato al pari di una sfida.
"Fatali avvenimenti, la volontà del mio veneratissimo genitore mi chiamarono assai prima del tempo al trono dei miei avi. Le circostanze fra le quali io prendo le redini del governo, sono tali che senza il più efficace concorso di tutti, difficilmente io potrei compiere l'unico mio voto, la salute della patria comune. I destini delle nazioni si maturano nei disegni di Dio. L'uomo vi deve tutta la sua opera; a questo debito noi non abbiamo fallito. Ora la nostra impresa deve essere di mantenere salvo ed illeso l'onore, di rimarginare le ferite della pubblica fortuna, di consolidare le nostre istituzioni costituzionali. A quest'impresa, scongiuro tutti i miei popoli; io m'appresto a darne solenne giuramento ed attendo dalla nazione in ricambio aiuto, affetto e fiducia".
Il 29 marzo il Re, nell'aula del Senato, pronunziò la formula del giuramento:
"In presenza di Dio io giuro di osservare lealmente lo Statuto, di non esercitare l'autorità reale che in virtù delle leggi e in conformità di esse, di far rendere ad ognuno, secondo le sue ragioni, piena ed esatta giustizia e di condurmi in ogni cosa con la sola vista dell'interesse, della prosperità e dell'onore della nazione".
La discussione in aula tuttavia fu accanita. I Deputati lo accusarono di "alto tradimento", per aver firmato l'armistizio e il proclama senza chiedere loro licenza.
Poi si scatenarono in una vera e propria insurrezione dentro la Camera. Focosi discorsi, vibranti imprecazioni, teatrali lacrime, deliri patriottici, parole tanto grosse quanto vuote, si vide di tutto.
Venne dichiarato incostituzionale l’armistizio, la cessione della Lombardia e del Veneto, ed esosi gli oneri finanziari (75 milioni di franchi di indenizzi) accettati in riparazione ecc. Qualcuno disse che nell'accomiatarsi da Radetzky, il "traditore" (cioè Re Vittorio Emanuele II) lo aveva perfino abbracciato comprovando con quell’atto il complotto; cioè la svendita del Piemonte all'Austria.
I più moderati lo accusarono di inesperienza politica, e che doveva far ritorno nelle caserme da dove era venuto.
L'assemblea propose la seduta parlamentare permanente ed iniziò a discutere alcuni urgenti provvedimenti "perché la patria era in pericolo", nel trionfo della demagogia, dimenticando che il Lombardo-Veneto era stato perso con la sconfitta militare a Custoza nel luglio dell’anno prima, e che in quel momento l’armata Sarda non aveva forza e peso alcuno per scacciare i nemici, che stavano già dentro i confini del Regno. Dimenticavano inoltre che l'intera economia piemontese era fortemente condizionata dagli austriaci, e che con questo nemico, volente o nolente occorreva convivere se si voleva superare il grave momento.
Quando dopo queste infuocate sedute, una commissione di Deputati si recò dal Re a riferire quello che stava avvenendo in Parlamento, latori quindi delle delle proteste, Vittorio Emanuele non si fece intimidire e rispose secco :
"Anch'io desidero la guerra, ma per farla cari signori mi dovete fornire un vero esercito combattente, non un esercito che a Novara si è squagliato in un giorno. Insomma tornate dai vostri amici e preparatene uno se siete capaci, poi ne riparleremo. Contro gli austriaci ci vogliono uomini, fucili e soldi, e dalla vostra seduta permanente le tre cose non nascono sotto i banchi, dove voi fate solo chiacchiere".
Più chiaro non avrebbe potuto essere !
Alla Camera pronunciò un breve discorso in cui riconfermò i concetti fondamentali del suo programma. Poi firmò un decreto di proroga della Camera, ma pochi giorni dopo la sciolse.
La sciolse con la semplice motivazione che non poteva collaborare con chi l’aveva accusato di alto tradimento : “ (…) devo fare appello a dei leali collaboratori, quindi cari signori si cambia.”
Altro che inesperienza politica ! Fino a poche ore prima non sapeva cos'era il meccanismo parlamentare, ma per il bene della nazione, aveva saputo fermarlo e rivoluzionarlo.
Chiaramente le violente contestazioni non cessarono, e la campagna di stampa che si scatenò nei suoi confronti fu impietosa, sprezzante e di pessimo gusto. Nei circoli e nei caffè fu messo perfino in ridicolo indicandolo come il "bamboccio" di Radetzky . Per quasi un mese Vittorio Emanuele assistette in silenzio alla penosa gazzarra della demagogia. Nel frattempo intanto, anche per cautelarsi, utilizzo le relazioni parentali austriache della consorte, Maria Adelaide, utili di li a poco per sospendere l'occupazione di Alessandria, e per rendere più cordiali gli incontri con i severi funzionari asburgici.
Alberto Conterio