Quintino Sella


25 giugno 1873
La scrivania di Sella

15 marzo 2010

Il 25 giugno 1873, è l’ultimo giorno di Quintino Sella al ministero delle Finanze. Nel palazzo che lui stesso ha fatto edificare accanto a Porta Pia cigolano per l’ultima volta i suoi scarponi da montanaro. L’imprenditore biellese libera la scrivania donatagli dai maestri d’ascia della sua città natale. Resiste alla tentazione di portarsela via, per non lasciarla al rivale di partito Minghetti che con una manovra parlamentare lo ha appena costretto alle dimissioni. La scrivania rimarrà al suo posto, fino a diventare il simbolo dello Stato, «l’unico bene pubblico che non venderei mai», ha detto di recente il successore Tremonti. Mentre si aggira per la stanza cercando il cappellone a cencio con cui è solito coprire la testa quadrata, l’ormai ex ministro non smette di pensare alle due ossessioni della sua vita: Roma capitale e il pareggio di bilancio. La prima meta è stata raggiunta, la seconda solo sfiorata: la realizzerà proprio l’odiato Minghetti. Sella non può saperlo, ma essendo un signore e uno statista, se lo augura.


Quando, il 12 dicembre di due anni prima, ha illustrato alla Camera la madre di tutte le Finanziarie, detta Omnibus, si è attirato l’ostilità generale. I deputati di Destra e di Sinistra hanno l’allergia alle nuove tasse, mentre sono sempre felici di aumentare le spese, specie quelle militari apprezzate anche dal Re, che chiama Sella «mercante di panni» per via delle sue industrie laniere. Il «mercante» ha fatto un discorso chiaro: in dieci anni, dall’Unità a oggi, abbiamo compiuto sforzi giganteschi, portando da 16.000 a 50.000 i chilometri del telegrafo e da 2.200 a 6.200 quelli delle strade ferrate. Ma l’edificazione di uno Stato ha un costo, e nonostante la vendita dei beni ecclesiastici, l’inasprimento del balzello sul macinato e l'invenzione del Lotto, da lui definita «la tassa sugli allocchi», il disavanzo supera i 200 milioni. Per appianarlo occorre emettere nuova moneta e istituire altre imposte indirette: sui trasporti, sul registro e sul bollo. Servono «economie fino all’osso». Ma la Camera ha approvato solo una parte delle sue proposte. È stato l’inizio di una guerriglia sorda, culminata nel giugno 1873: Sella ha riproposto l’imposta sul registro e Minghetti ha presentato un ordine del giorno in cui ogni discussione nel merito veniva rinviata alla riapertura autunnale. Capita l’antifona, il ministro si è dimesso con tutto il governo.

Ha trovato il cappello, finalmente. Sulla porta lo aspetta il direttore generale: un piemontese di poche parole come lui, che Quintino Sella ha assunto come segretario e poi innalzato al grado più alto della burocrazia. Per costringerlo ad affinare ulteriormente il dono della sintesi, d’inverno lo ha sempre ricevuto in ufficio con le finestre aperte. Escono insieme dal palazzo. Ma il più giovane è destinato a fermarvisi a lungo, molto a lungo. Il suo nome è Giovanni Giolitti.