Storici malintesi tra Stato e Chiesa


Storici malintesi tra Stato e Chiesa

di Lucetta Scaraffia
20 febbraio 2011

Qualche settimana prima della presa di Roma da parte delle truppe sabaude, Vittorio Emanuele II cercò una soluzione pacifica inviando presso Pio IX un mediatore, il senatore conte Gustavo Ponza di San Martino. Quest'ultimo, per giustificare presso il papa la decisione del re di occupare Roma, aveva detto che era costretto all'occupazione dalla volontà di 24 milioni di sudditi. Pio IX - rivela il promemoria del senatore - aveva risposto: «Dite quattro, quattro milioni vi accordo, giacché 20 milioni sono per me», anticipando così, in modo esplicito, quella che sarebbe stata l'interpretazione della storiografia cattolica, ma in molti casi anche laica, del Risorgimento. Cioè che l'Unità d'Italia fu un processo che coinvolse le élites della nazione, in prevalenza liberali, ma non il popolo, fortemente legato alla Chiesa.

Antonio Rosmini

Il promemoria di Ponza di San Martino fa parte dei documenti inediti e poco noti che Giovanni Sale, storico gesuita e scrittore della «Civiltà Cattolica», ha pubblicato in appendice del suo ultimo libro, insieme all'allocuzione papale nel concistoro segreto del 18 marzo 1861 e ad alcuni testi sulla storia della rivista dei gesuiti italiani. Il libro non solo fa scoprire che Pio IX aveva anticipato la tesi della distanza fra élites e popolo nell'unificazione italiana - lontananza confermata e rafforzata dall'anticlericalismo se non, in alcuni momenti, addirittura dall'anticattolicesimo del governo del nuovo Regno - ma offre una pacata e acuta riflessione su quel complesso nodo costituito dal conflitto fra la Chiesa e la nuova nazione. Sale è attento conoscitore degli studi sull'argomento, e vi aggiunge l'apporto di nuovi documenti, proponendo un'interpretazione molto equilibrata, che prende palesemente le distanze dalle recenti ricostruzioni anti unitarie di storici come Pellicciari e Viglione, per non nominare che i più noti.
Sale rivendica che il progetto unitario è «nato e cresciuto all'interno del pensiero politico cattolico» e che «all'interno di questo ha ricevuto il suo primo programma di azione» con Rosmini e Gioberti, protagonisti culturali di quella corrente che prese il nome di «cattolicesimo liberale». Questa, nonostante l'opposizione dell'autorità ecclesiastica, «lasciò nella trama della storia italiana una traccia considerevole e duratura». I cattolici liberali infatti si adoperarono innanzi tutto per impedire la radicalizzazione del conflitto, provocata da una tendenza anticlericale della cultura delle classi dirigenti, e forti lacerazioni nel paese "reale", che avrebbero rallentato la formazione di una nazione davvero unitaria.
Particolarmente interessanti sono le pagine dedicate a Pio IX, coinvolto fin dai primi anni del pontificato in una sorta di manipolazione operata dalla stampa liberale, tesa a forzargli la mano per trarne vantaggi politici, che pesa tutt'ora nella valutazione della sua immagine. Senza dubbio il papa mancò di senso politico - riconosce il gesuita – e non capì bene quali potevano essere le conseguenze delle sue decisioni e delle sue parole in un momento storico così agitato, ma le sue azioni vanno valutate non tanto da questo punto di vista quanto da quello religioso. Scrive Sale
che «in lui il primato del "religioso" sul "politico" fu una costante, mai smentita in tutto il suo lungo e travagliato pontificato». Questa lettura religiosa della tormentata vicenda di Pio IX permette, del resto, di comprendere meglio la decisione della Chiesa di beatificarlo che ha suscitato tante polemiche.
La puntuale ricostruzione del l'iter che ha preparato e accompagnato la scrittura del Sillabo, e delle reazioni da parte dei cattolici liberali, si conclude con il riconoscimento a questo documento di avere evidenziato con forza e coraggio il principio di libertà della Chiesa contro le indebite pretese dello Stato laico, in una società in cui la libertà veniva tendenzialmente concessa a tutti tranne che alla Chiesa. Sale ricorda anche quante volte Pio IX ebbe a credere a progetti moderati di unificazione, e quindi alla possibilità di risolvere la situazione senza il ricorso alla violenza, «con grande entusiasmo e non poca ingenuità», sino alla sua ingenua fede che Roma non sarebbe stata toccata.
Chiaramente, un modo di pensare opposto a quello dello sperimentato politico Cavour, che «aveva un'idea secolare, mondana, della Chiesa e la concepiva soltanto all'interno delle categorie della politica». Riusciamo così a capire meglio - conoscendo meglio gli interlocutori - come il confronto tra la Santa Sede e il Governo sabaudo fosse di fatto un dialogo tra sordi, pieno di malintesi e incomprensioni, che in un certo senso hanno influenzato anche, nei decenni successivi, la storiografia che si è occupata del tema.

Tratto da : Il Sole 24 Ore