Tra Centralismo e Federalismo

Risorgimento dimenticato :
Tra Centralismo e Federalismo

Negli ultimi tempi si è tornato a parlare insistentemente di “federalismo”, vuoi perché uno dei partiti dell’attuale  coalizione governativa ne ha fatto il suo principale obiettivo da metà degli anni Ottanta, vuoi per il dibattito scaturito alla luce della Legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n.3 “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”, pubblicata sulla G.U. generale del 24 ottobre 2001, infine per il riacutizzarsi di uno sterile e becero dibattito storico sulle scelte amministrative della nostra Nazione all’indomani dell’Unificazione nazionale. Nel 1859 nell’Italia divisa in “Stati francobollo” vi erano 60mila dipendenti pubblici, dei quali 24.970 nel solo Regno delle Due Sicilie. Gli impiegati pubblici, non contando magistrati, insegnanti e personale di servizio erano 42.586, 17.123 nel reame borbonico.
Dopo questi dati vediamo cosa veramente significhi la parola “federalismo” così abusata ed invocata in questi giorni tanto da diventare una sorta di medicina, di panacea per risolvere i mali della Repubblica.
Federalismo deriva dal latino “foedus”, cioè patto e politicamente parlando ebbe inizio con la nascita degli Stati Uniti d’America, quando le 13 ex colonie inglesi si vennero a trovare nella situazione di Stati indipendenti, ma pure di quella di Stati divisi in quanto l’associazione confederale, sorta militarmente per fronteggiare gli Inglesi, era ancora troppo debole per assicurare l’unità dopo la fine del conflitto comune contro lo stesso nemico. L’Italia per secoli venne vista in senso “federalistico”, in quanto fu proprio la “federazione” a disgregare l’Impero Romano, caratterizzando la nostra storia fino al 1861, per poi favorire ingerenze straniere, nascita di Comuni, signorie, principati, insomma quell’Italia del “particolarismo”conosciuta fino al suo ultimo assetto post Vienna del 1815.

Minghetti

Così si fa anche molta confusione tra federalismo e Stato federale, laddove quest’ultimo è sinonimo di “un’associazione di Stati organizzata in modo tale che i poteri siano divisi tra un governo generale che in certe materie, ad esempio la stipulazione dei trattati o l’emissione di moneta, è indipendente dai Governi degli Stati associati, e i governi degli Stati che sono a loro volta, in certe materie, indipendenti dal governo centrale” (K.C.Wheare in  Federal Government, Oxford University Press).
Nella storia delle forme di governo non è mai accaduto che uno stato unitario si trasformasse in federale, gli Stati con tale ordinamento sorsero già federali: Stati Uniti, Svizzera e Germania per citare gli esempi più noti.
Vorrei domandare ai soliti “tuttologhi”, chi tra di loro, tra il 1860 ed il 1861 in un’Italia che aveva sancito la cacciata dei vari sovrani italici in Toscana e nei Ducati emiliani e dei rappresentanti pontifici nelle Legazioni, entrati a far parte del Regno Sardo, con gli anatemi non solo religiosi di Pio IX che chiamava le Nazioni cattoliche ad una “crociata” anti-italiana, con l’armata austriaca che dalle fortezze venete del “Quadrilatero” erano pronte a dilagare nella Pianura Padana alla minima debolezza della neonata Italia e con il grande brigantaggio politico ritornato ad infiammare le deboli contrade meridionali sponsorizzato dalla corte borbonica e dal governo dello Stato Romano, chi  dicevamo, avrebbe avuto il coraggio di “suicidare” un Paese appena “risorto” e con tali problematiche da risolvere, avrebbe varato un ordinamento federale?
Giustamente fa osservare lo studioso Sergio Romano a tal proposito: “E mentre lo Stato unitario era alle prese con la sua prima grande emergenza nazionale (il brigantaggio, n.d.a.), alcune potenze europee, ostili all’unità italiana, aspettavano con piacere il fallimento di un’impresa che molti in Europa consideravano pericolosamente liberale e rivoluzionaria. Chi sostiene che il Risorgimento fu in realtà la conquista piemontese della penisola dimentica che non esisteva nell’Italia di allora nulla di più liberale della classe dirigente creata da Cavour negli anni precedenti. Ma era impossibile, in quelle difficili circostanze, tentare la creazione di uno Stato decentrato, caratterizzato da forti autonomie locali. La rinuncia al progetto di Minghetti fu il prezzo che l’Italia dovette pagare per sopravvivere”.
Questa piccola ma grande riflessione vale molto di più dei saggi scritti in questi ultimi anni su tale annosa diatriba!
Precisiamo nuovamente che un progetto di decentramento amministrativo non è che non fosse stato studiato tra il 1859 ed il 1861 e non dobbiamo  pensare al solito Cattaneo quale “custode” di una politica di decentramento amministrativo, in quanto ci furono altri illustri personaggi del tempo a suggerire un dibattito sul federalismo come Gustavo Ponza di San Martino, poiché è bene rammentare che il centralismo era associato all’epoca giacobina e della rivoluzione francese aborrita da tutti!
Sia il piemontese Cavour, che il bolognese Minghetti e il romagnolo Farini, tutti ammiratori del sistema britannico delle contee, su impulso dello stesso Cavour , capo del Governo, diedero vita ad una speciale “commissione temporanea di legislazione” presso il Consiglio di Stato il 24 giugno 1860 nella quale si iniziò a discutere di regioni e governatori. Scrisse Farini: “Stabiliti i limiti delle Regioni, dovranno essere determinate le attribuzioni … Ogni Regione è sede di un Governatore che rappresenta il potere esecutivo con le attribuzioni: fanno capo a esso politicamente gli intendenti delle Provincie..”.
A Farini successe Marco Minghetti come titolare degli Interni, il quale nella seduta del 28 novembre dichiarò che si potevano decentrare almeno 4 ministeri: Interni, Istruzione, Lavori Pubblici ed Agricoltura. Non era il federalismo come viene inteso oggi, ma sicuramente, ci si era incamminati in direzione di un ordinamento meno centralistico.
Il 13 marzo 1861, pochi giorni prima della proclamazione di Vittorio Emanuele II a Re d’Italia, un progetto di decentramento dell’ordinamento amministrativo venne presentato alla Camera dal Minghetti. I 4 disegni di legge eliminavano il sistema centralizzato allora vigente, affidando ampi poteri agli enti locali: regioni, province e comuni. Veniva proposta la creazione di un ordinamento regionale su base elettiva che consentiva di conservare le tradizioni ed i costumi delle diverse parti d’Italia. Alle Regioni, in particolare, sarebbe andato il potere legislativo e l’autonomia finanziaria in merito ai lavori pubblici, all’istruzione superiore, alla sanità, alle opere pie ed all’agricoltura. Province e comuni avrebbero poi ampliate le loro competenze e la loro base elettorale, estendendo il diritto di voto amministrativo a tutti i cittadini iscritti almeno da sei mesi nei ruoli delle imposte dirette, indipendentemente dall’ammontare della imposta e senza escludere gli analfabeti. I sindaci, ancora di nomina regia, sarebbero diventati elettivi all’interno del consiglio comunale. Allo Stato sarebbe spettato, secondo la proposta Minghetti, la politica estera, i grandi servizi di utilità nazionale: difesa, ferrovie, poste, telegrafi e porti, nonché l’azione di vigilanza e di controllo sull’operato degli enti locali. Lo stesso Minghetti alla Camera affermò: “… non vogliamo la centralità francese … neppure una indipendenza amministrativa come quella degli Stati Uniti d’America o come quella della Svizzera”.
Il 23 marzo la composizione del primo governo dell’Italia unita rispecchiò la dimensione ormai nazionale del Paese: Cavour capo dell’esecutivo con i dicasteri di esteri e marina, chiamò a farne parte: emiliani, napoletani, siciliani, toscani, piemontesi ecc.
Il 9 maggio 1861 il Consiglio dei Ministri prese atto della bocciatura in sede di commissione parlamentare del disegno di legge Minghetti sul decentramento e la proposta venne “temporaneamente” ritirata, mentre il Paese fu costretto a fronteggiare il dilagare del grande brigantaggio nel Mezzogiorno dando una svolta amministrativa in direzione di un sempre maggior accentramento dei poteri dello Stato, le date infatti coincidono con il progressivo mutare geo-politico della nuova Nazione italiana: se con Farini si iniziò il confronto sul decentramento,  si era nei mesi quando al Regno Sardo erano state annesse l’Emilia, la Romagna e la Toscana. Già con Minghetti ci fu una disputa più vivace tra i parlamentari in quanto l’impresa garibaldina portò all’attenzione le gravi problematiche sociali ed economiche del Mezzogiorno borbonico. Come aveva scritto negli anni della Restaurazione un abile amministratore meridionale come Carlo Afan de Rivera: “Il comune è un corpo morale peggiore di tutte le mani morte, perché amministra senza interesse e dissipa per opere de’ più influenti..”.
Un altro fattore determinante oltre alla questione meridionale che indusse sulla strada del centralismo fu l’improvvisa morte dopo una breve malattia di Camillo Benso di Cavour il 6 giugno 1861 a Torino. Il suo successore, il toscano barone Bettino Ricasoli già pochi giorni dopo il suo insediamento, il 13 giugno fu costretto a fronteggiare l’avventura legittimista del generale spagnolo José Borjes, sbarcato in Calabria per capeggiare militarmente il brigantaggio in nome e per conto dello spodestato re Francesco II di Borbone e di Papa Pio IX!
Poco prima della sua scomparsa, nonostante non si fosse mai recato nel Meridione, intuendo tuttavia che l’esclusione dal voto degli analfabeti faceva mancare l’apporto della stragrande maggioranza dell’elettorato ai moderati, pensando quindi di farvi accedere queste masse,  Cavour scriveva: “Se non si vuole che i comuni di quella parte d’Italia cadano sotto la tirannia dei dottoruzzi di villaggio, la peggiore di quante se ne conoscono…".

Giuseppe Polito
Direttore della Biblioteca storica “Regina Margherita”
Pietramelara (CE)