E dallo scoglio di Quarto il “vate” dichiarò guerra

Articolo di Giorgio Boatti su “La Stampa” - 4 maggio 2010

Quel monumento sullo scoglio di Quarto a Garibaldi e ai Mille non ha mai portato fortuna a nessuno. A cominciare dal suo artefice. Il giovane scultore pugliese Eugenio Baroni, mentre si appresta a dare forma al monumento che gli è stato commissionato dal Comune di Genova, si ammala. Così il gruppo scultoreo viene ultimato in ritardo rispetto al cinquantesimo anniversario dell’impresa dei Mille.

Giunge però perfettamente puntuale all’appuntamento con la Grande Guerra. Infatti, quando il sindaco di Genova, Massone, fissa l’inaugurazione per il 5 maggio del 1915, Germania e Austria fronteggiano già da nove cruentissimi mesi le potenze dell’Intesa (Francia, Inghilterra, Russia). Mentre il Regno d’Italia, legato a Berlino e a Vienna dalla Triplice Alleanza, ha deciso di stare, per il momento, in panchina. È una neutralità che non può durare. Le pressioni internazionali e i condizionamenti economici conducono al grande passo. Roma rigetta la passata alleanza e tratta l’intervento a fianco di Parigi e di Londra. Il 26 aprile viene firmato in gran segreto, a Londra, un accordo che prevede l’ingresso in guerra dell’Italia entro la fine di maggio. A decidere e a saperlo, in Italia, sono in tre: il re Vittorio Emanuele III, il premier Salandra e il ministro degli Esteri Sonnino.

A Genova hanno altri pensieri.

Oltre a invitare il re a presenziare all’inaugurazione del monumento la giunta comunale s’accapiglia per scegliere l’oratore ufficiale. Il momento è delicato. Nel Paese la scontro fra interventisti e neutralisti è sempre più acceso. Nel capoluogo ligure, per accontentare maggioranza e opposizione, si designano come oratori l’assessore Parodi e il portavoce della minoranza, l’avvocato Raimondo. Ma, a questo punto, le cose si complicano.

Ettore Cozzani, un insegnante di La Spezia, amico dello scultore Baroni, pensando di fargli cosa gradita, senza dir nulla a nessuno e senza averne alcun titolo ha invitato a tenere l’orazione ufficiale Gabriele D’Annunzio che dal 1910, inseguito dai creditori, si è rifugiato in Francia. Da lì, a colpi di collaborazioni al «Corriere della Sera», a cominciare dalle «Canzoni d’Oltremare» sull’impresa di Libia, D’Annunzio ha sistemato i conti lasciati in sospeso in Italia ma, nel frattempo, zigzagando tra principesse russe, case doviziose, grandi alberghi e allevamenti di cani e cavalli, ha scavato un’ancora più pesante voragine finanziaria in Francia. L’entrata in guerra dei francesi dà al «Vate» l’occasione di splendide corrispondenze: non arriva proprio sulla linea dei combattimenti, ma attingendo con generosità ai giornali di Parigi scrive splendidi reportages. Come se, sul campo di battaglia, ci fosse stato. Ovviamente è per l’intervento dell’Italia a fianco dei cugini francesi. E, peraltro, la «legione garibaldina» che Ricciotti Garibaldi, il secondogenito dell’Eroe dei due mondi, ha formato con volontari repubblicani giunti dall’Italia, si è battuta, nelle Argonne, contro i tedeschi. Caricando alla baionetta e perdendo oltre cinquecento uomini. Poi da Parigi è giunto l’ordine a Ricciotti di ritirare i suoi uomini: qualche mese dopo - siamo sul finire di aprile - il piano è di farli rispuntare con uno sbarco improvviso sulle coste della Liguria. Un colpo di mano, «un’onda rossa» - come dirà D’Annunzio messo al corrente della cosa - che dovrebbe imporre al governo di Roma di rompere la neutralità entrando in guerra a fianco dei francesi.

D’Annunzio riceve la lettera di Cozzani e s’accende. Vede l’«occasione meravigliosa» che può porre lui, e non i garibaldini di Ricciotti, alla biforcazione della storia. Diventerà il detonatore dell’intervento italiano in guerra. Telegrafa a Cozzani, telegrafa al sindaco di Genova accettando l’invito. A Genova abbozzano. Non lo avevano invitato ma, visto che si offre, ringraziano e si offrono anche di pagargli le spese d’albergo. Lui rifiuta: avrebbe accettato se l’avessero ospitato in una delle principesche ville comunali, ma per un albergo seppur di classe come l’Eden Palace Hotel provvederà in proprio. Anche se il suo segretario, Tom Antongini, fatica a ramazzare le cinquecento lire necessarie al viaggio in vagone letto da Parigi a Genova via Torino-Modane.

Ma la situazione si complica. Ci si ricorda che il Re doveva presenziare e, dunque, se D’Annunzio parlerà davanti al sovrano, deve sottoporre il testo del discorso al governo. D’Annunzio scrive in un battibaleno la sua «Orazione per la Sagra dei Mille» da declamare davanti al monumento di Quarto. Sobrio come sempre, ha scelto un modello oratorio che tutti possono comprendere, l’evangelico «Discorso della Montagna». Messo al servizio della mobilitazione bellica: «Beati i giovani affamati e assetati di gloria perché saranno saziati...

Beati i bentornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma...». Appena a Roma leggono capiscono che se il Re va a Quarto e presenzia al discorso del «Vate», tanto varrebbe gridare al vento il trattato segreto firmato a Londra. Così Vittorio Emanuele III si defila e lascia la scena al Vate. D’Annunzio, arrivato la sera del 4 maggio, dopo un bagno di folla a Bardonecchia, Torino, Alessandria, ripassa il testo. La mattina dopo è in splendida forma. Attorno al monumento l’attendono in centomila, forse di più. Con un balzo è sul palco. Inizia «Maestà del Re assente e presente! Popolo di Genova...». A ogni frase un applauso. Alla fine viene portato in trionfo. Quando, il giorno dopo, l’«Orazione dei Mille» viene riportata sui giornali, il capo di stato maggiore, il generale Cadorna, non ancora messo a parte del segreto del patto di Londra, ha un sospetto. Si fa ricevere dal presidente del Consiglio Salandra. Gli mostra il discorso del Vate e dice «ma questa è la guerra immediata!».

Serafico il premier ribatte: «Sì, dobbiamo entrare in guerra entro il 26 maggio».

«Ma non ne so nulla» ribatte il Generalissimo. «Se non ci fosse stato il discorso di D’Annunzio - scriverà nel suo diario - quando sarei stato avvertito?».