Anche i Savoia usavano Wikileaks
Gli ambasciatori italiani a metà '800
di Mario Baudino
5 dicembre 2010
Affrontavano viaggi avventurosi, vivevano in corti spesso pericolose, e scrivevano a Torino. Gli ambasciatori sabaudi non avevano nulla da invidiare alle diplomazie europee. Lavoravano al limite dello spionaggio, e con buoni risultati: Alessio di San Martino, a fine Settecento, si impadronì del primo censimento eseguito nello sterminato Impero russo, considerato un segreto di Stato. Ora la sua relazione è all'archivio di Stato di Torino, come quelle dei suoi predecessori e successori fino alla breccia di Porta Pia. Una foresta di faldoni conserva la storia ma anche i pettegolezzi, i giudizi personali, insomma tutto quello che oggi diventa WikiLeaks. Allora erano ben custoditi, anche se gli Assange esistevano già. Si riunivano a Parigi sotto l'albero di Cracovia, un grande castagno frondoso nei giardini del Palais Royal, dove confluivano tutte le indiscrezioni, gli agenti segreti e le notizie possibili. E' probabile che ci siano passati anche gli ambasciatori sabaudi, che però in quanto a fonti erano imbattibili. Il loro piccolo Regno, a partire dal ‘600, aveva progetti ambiziosi, rapido com'era nel fare e disfare alleanze. Serviva tutto, e nulla doveva trapelare, a scanso di gravi pericoli. Era un'epoca in cui si andava per le spicce. Si monitorava Parigi con impegno ossessivo. Già nel 1649, per esempio, l'abate Bailly, poi vescovo di Aosta, scriveva nel suo bel francese che era arrivato a corte un buffo generale tedesco, goffo e ridicolo, coperto però d'onori e complimenti. Riporta, divertendosi come un matto, l'indirizzo di saluto di costui alla regina, mentre tutto intorno si faceva fatica a trattenere le risate. Un secolo e mezzo dopo l'ambasciatore a Pietroburgo dava conto dei costumi sessuali della Grande Caterina, che «faceva gli straordinari con gli ufficiali».
Quando tornò, redasse un memoriale che, se scritto e diffuso oggi, creerebbe non pochi imbarazzi: nel descrivere l'uomo russo, riusciva a trovare ben 14 aggettivi, e non uno favorevole. Cominciava con «faux», falso, e finiva con «sauvage», selvaggio. Giovanni Ferruccio Ponte, a Parigi nel 1647, analizzava la rivolta dei puritani in Inghilterra con acume, spezzando una lancia per la «libertà di coscienza». E all'appuntamento con un'altra grande rivoluzione, quella francese, l'ambasciatore a Ginevra riusciva a fornire un lucido quadro della situazione. Come spiega il direttore dell'Archivio di Stato, Marco Carassi, che si è occupato delle lettere di Jean Baptiste d'Espine, il nobile savoiardo intuisce «l'avvicinarsi di una tempesta politica di proporzioni epocali. Traspare dalle sue parole l'indignazione per l'apparente incapacità del nostro governo di rendersi conto di quanto sia drammatica la situazione, e per la riluttanza a curare le cause profonde, sociali ed economiche, del malessere sociale». Suggerisce - invano - di combattere la rivoluzione non solo con la polizia, ma anche dichiarando guerra alla miseria. Il 17 luglio tutto gli è chiaro: «La Borghesia ha preso le armi, impadronendosi di tutte quelle che ha potuto trovare», scrive. Il 19 già racconta la presa della Bastiglia, con un Luigi XVI irresoluto e spaventato che a mezzanotte viene convinto a «mettersi nella mani» degli Stati Generali. Di lì a poco crollerà tutto, anche in Piemonte. Ma dalle rovine dell'Ancien Régime germina quella che sarà l'epoca d'oro della diplomazia sabauda, negli anni del Risorgimento. Cavour tira le fila di una partita difficilissima; i suoi emissari, soprattutto Costantino Nigra a Parigi e Emanuele D'Azeglio a Londra - come osserva Marco Fasano, vicepresidente dell'Associazione amici della Fondazione Cavour - sono all'altezza della situazione. Conquistano politici e giornali, organizzano campagne d'opinione, stringono e scompaginano alleanze, mentono quand'è ora e dicono il vero se conviene. In ogni caso, scrivono in francese, la lingua cui stanno per dire addio. Le trattative con Napoleone III per l'alleanza contro gli austriaci e la cessione di Nizza e la Savoia sono un gioco segreto. D'Azeglio comunica di aver convinto gli inglesi che Nizza non verrà ceduta, e forse spera sia vero. Già nel ‘61 capisce da Londra che Napoleone sta pensando alla guerra con la Prussia, la sua ultima rovinosa impresa.
Immaginiamo che questi dispacci fossero stati conosciuti e diffusi in quegli stessi anni: forse oggi l'Italia non sarebbe quel che è (magari, per la soddisfazione di alcuni). Restarono invece in cassaforte. Quelli piemontesi, almeno: i francesi amavano pubblicare i loro diari diplomatici, neanche troppo emendati. Un esempio è Henry d'Ideville, a Torino fra il ‘58 e il ‘61: ammirava Cavour, ma non Vittorio Emanuele II. Gli diede del «mediocre» e del «vanitoso», oltre che dell'assatanato. Durante le sue cacce, scrisse, non c'era contadinella che sfuggisse. Sarà anche la scoperta dell'acqua calda, ma va ricordato che il Re morì nel ‘78. Ebbe sei anni di tempo per leggersi questo bel ritratto. Non sappiamo se l'abbia fatto.
Tratto da : www.lastampa.it/