Il Duce in guerra contro i gerarchi


Il Duce in guerra contro i gerarchi

di Roberto Festorazzi
30 dicembre 2010

È un Mussolini-contro-tutti, una specie di kamikaze, quello che, nella primavera del 1940, decide freddamente di entrare in guerra a fianco della Germania. Nuovi e clamorosi documenti dimostrano, per la prima volta con dovizia di particolari inediti, quanto forte fu il "partito della pace" che, dentro il regime stesso, tentò di opporsi all’avanzata della strategia della guerra a oltranza contro gli anglo-francesi che, ad un certo punto, fece breccia in modo inesorabile nell’animo del Duce. Fino al marzo del 1940, il dittatore fascista apparve incerto su come procedere e ancora fortemente tentato dal "cambio di alleanza". Mussolini avrebbe voluto saltare in groppa agli Alleati, deluso dai molti tradimenti di Hitler, che troppe volte lo aveva messo di fronte al fatto compiuto ferendolo nell’orgoglio. Lo scontro tra "bellicisti" e "neutralisti" si ebbe, dall’8 al 14 febbraio 1940, durante la sessione della Commissione suprema di difesa presieduta dal Duce. Ad accendere il fuoco delle polveri fu colui come oggi appare tra i più strenui sostenitori dell’accordo con gli anglo-francesi, il ministro degli Scambi e valute (cioè del Commercio estero), Raffaello Riccardi.


I documenti dell’Archivio Riccardi, ancora largamente inediti, si trovano oggi alla Wolfsoniana di Genova, la collezione del miliardario di Miami Mitchell Wolfson. Tra essi, spuntano nuove prove dell’autentica battaglia che ebbe luogo, dietro le quinte, ad onta di un’opinione pubblica totalmente ignara, ai "piani alti" del regime, tra i filo-tedeschi e gli anti-hitleriani. In un fitto memoriale di dieci pagine, finora mai pubblicato, Riccardi racconta ciò che accadde quando prese la parola per illustrare il tema degli approvvigionamenti durante il primo anno di guerra.

Alla presenza dello stato maggiore politico e militare del Paese, il ministro si diede a smontare, pezzo dopo pezzo, le gloriose "fanfaluche" che i capi delle Forze armate avevano raccontato a Mussolini per rassicurarlo del fatto che l’Italia era pronta a guerreggiare. Presenti, oltre a Mussolini, Balbo, Grandi, Pavolini, Muti, De Bono, anche Badoglio, Graziani e gli altri "papaveri" delle gerarchie militari, Riccardi dichiarò che era «sciocco parlare di guerra in una situazione economica come la nostra». A fronte di preventivi di importazioni per venticinque miliardi di tonnellate, per un valore di venticinque miliardi di lire, il titolare del Commercio estero mise nero su bianco che si trattava di una pura e semplice follia, data l’assoluta carenza di mezzi di pagamento. Le immediate disponibilità valutarie censite superavano di poco i tre miliardi.

Rivela Riccardi: «Il mio discorso riscosse vasti consensi; particolarmente soddisfatti erano Grandi, Balbo e De Bono. Un po’ immusoniti i militari e Mussolini». E poi: «Il maresciallo Badoglio intervenne nella discussione per dire che se Mussolini gli ordinava di mettere in campo un milione di uomini a lui non restava che provvedere all’esecuzione dell’ordine. Naturalmente il problema dei mezzi non lo riguardava!». Il ministro Riccardi quantificò in cinque miliardi di lire in fabbisogno del primo anno di guerra effettivamente affrontabile con i mezzi di pagamento di "pronta cassa".

Un quinto di quanto i militari chiedevano e che il Duce si aspettava! Mussolini si schierò dalla parte dei vertici delle Forze armate, dichiarando che i programmi bellici erano «adeguati alle nostre possibilità interne». Renzo De Felice, che tuttavia non ha potuto leggere le carte Riccardi, cita il verbale del summit, dal quale emerge tutta la sicumera del dittatore che si diceva pronto a «vuotare letteralmente la Sacrestia della Banca d’Italia», ritenendo che le riserve d’oro fossero inesauribili «come il ferro dell’isola d’Elba, che è sempre esaurito ma c’è sempre». Naturalmente, in questo programma da scavezzacollo, vi era una sorta di atto di fede nelle capacità "taumaturgiche" di un tecnico delle finanze come Riccardi. Non a caso, il Duce, pur dando torto al suo ministro, ammette con cinismo pari solo alla sua avventatezza: «Credo che alla fine dell’anno Riccardi dirà che la barca ha continuato a galleggiare».

Nonostante il vistoso divario tra desideri e realtà, pur rimanendo ostile alla prospettiva del conflitto a fianco della Germania, Riccardi si adoperò per approntare una macchina da guerra economica che non si sottraesse agli imperativi del dittatore. Gli forzi compiuti dal ministro del Duce rasentano l’impossibile e soltanto oggi ne possiamo conoscere alcuni dettagli. Fino all’ultimo, cioè fino al gennaio del 1940, ma forse anche oltre, Riccardi praticò la politica dei "due forni", cercando di procurare all’Italia tutti i vantaggi della sua condizione di Paese non belligerante.

Raggiunse accordi con Francia, Inghilterra e Olanda, per fornire "commesse speciali", vale a dire armi, per importi fantasmagorici. Poi ricevette ingenti prestiti dalla Svizzera, che consentirono all’Italia di accelerare il passo del proprio riarmo. Il suo imperativo era quello di «arricchire il Paese a spese di tutti». Per favorire le importazioni, Riccardi allentò la morsa dei divieti di traffico valutario, fino quasi a trasgredire le leggi. Leggiamo con ammirazione i miracoli compiuti da questo eccezionale nocchiero: «Il prestito contratto con la Svizzera ci permise l’acquisto di cinquecento mitragliere antiaeree da 20. Immediatamente prima dell’intervento americano [dicembre 1941, ndr] provvidi al tempestivo imboscamento, presso ambasciate e conti segreti, delle valute».

Per tutta la durata della guerra, Riccardi riuscì a conservare le riserve auree, a mantenere in equilibrio i conti nazionali con alto livello di importazioni, calmierando anche i prezzi negli interscambi con la Germania. Incredibile, ma vero: grazie a questa virtuosa politica, svela il protagonista nascosto della "guerra economica", «noi pagavamo il carbone in Italia meno che i berlinesi a Berlino».

Stante l’insufficienza dei mezzi di pagamento, dunque, nel 1940 il ministro del Commercio estero si pronunciò per un programma bellico «da attuarsi con una certa gradualità a seconda della necessità e urgenza e dei bisogni». Con lungimiranza, egli, fino alla primavera del 1940, si adoperò per favorire il programma di approvvigionamento delle Forze armate e della popolazione civile cercando di giocare la carta della non belligeranza italiana per rifornirsi sul mercato inglese. Si ipotizzò di destinare cinquecento milioni di riserve auree della Banca d’Italia all’acquisto di materie prime come rame, stagno, nichel.

Riccardi fece sapere a Mussolini che, in ogni caso, l’incetta di materie prime non poteva essere portata a termine con successo, se non sul medio periodo, ossia nell’arco di almeno un anno. Ciononostante, gli sforzi compiuti dal ministro poterono assicurare lauti risultati. Come svela il ministro delle Comunicazioni, Giovanni Host Venturi, in una lettera inedita del 17 aprile 1940 inviata a Riccardi, l’impulso a rastrellare provviste di metalli, nelle settimane precedenti l’entrata in guerra dell’Italia, fu notevolmente premiato. I dati parlano chiaro. A fronte di 10.529 tonnellate di rame, 1.167 di stagno e 1.098 di nichel, entrate nei depositi nazionali nel primo trimestre del 1940, si raggiunsero successivamente imponenti record forse mai più eguagliati.

Al 31 marzo ’40, erano nei porti, o in viaggio, altre 7.754 tonnellate di rame; una nuova impennata si raggiunse nei primi giorni di aprile, con la conclusione di contratti per 33.150 tonnellate di rame, mentre Host Venturi annunciava, fino alla vigilia della dichiarazione di guerra, arrivi per altre 24.380 tonnellate di rame elettrolitico. Il "bus business" continuò indisturbato, ma l’attività meritoria di Raffaello Riccardi non poté evitare, alla fine, la catastrofe.

Tratto da : www.avvenire.it/