Gli austriaci e il Papa Re : così Bologna seppe dire “basta”
Il risveglio dei liberali nella seconda metà dell’800:
l’immobilismo pontificio spinse i moderati verso i Savoia
di Angelo Varni
12 dicembre 2010
Il Risorgimento incontra Bologna in una fase di particolare complessità della vicenda storica cittadina.
Con la fine, infatti, dell'avventura napoleonica l'intero sistema delle relazioni sociali si trova ad essere posto in discussione, in vista di un ritorno al passato del tutto estraneo ormai ai modi di vita e alle coscienze dei più. In particolare, il riproporsi del governo della Chiesa di Roma appare in contraddizione con la principale acquisizione degli anni «francesi »: la necessità, cioè, dei bolognesi di riconoscersi all'interno di uno Stato moderno, dove la sovranità, almeno in via di principio, appartenesse ai cittadini, ugualmente partecipi di diritti e doveri verso la collettività.
Nei primi anni la restaurazione voluta da Pio VII e dal segretario di Stato, cardinal Consalvi, cercò la via della comprensione verso il nuovo, ma i codici civile e penale vennero aboliti e il tentativo di richiamarsi al tradizionale spirito municipale fu più proclamato che praticato, aggravando anzi nei fatti il centralismo degli anni «francesi». Il disorientamento politico, dunque, del gruppo dirigente risultò drammatico, mentre la crisi economica incalzava.
Persino gli echi delle sommosse rivoluzionarie del '20 e '21 trovarono scarsa risonanza. Pochi pure gli aderenti agli sporadici movimenti segreti: pareva farsi strada una sorta di nostalgia del passato, che era soprattutto rifiuto di un oscuro presente e che magari si manifestava con i consensi espressi verso gli appartenenti alla famiglia Bonaparte, di passaggio o stabilitisi proprio in città. Un clima che si aggravò con l'ascesa al pontificato nel 1823 di Leone XII, deciso ad eliminare le aperture politiche del suo predecessore e che si scosse solo nel '31 con una rivolta in grado di dichiarare decaduto il potere politico pontificio, ma ancora nell'ottica del municipalismo.
La successiva repressione veniva affidata alla mal tollerata presenza in città delle truppe austriache che davano visiva dimostrazione della dipendenza dello Stato pontificio dallo straniero. E stava proprio qui, in questa subordinazione, che il governo di Roma testimoniava il suo distacco dai nuovi tempi. Tempi nei quali l'eredità del 1789 si manifestava con l'adesione ad un'idea di indipendenza nazionale, che riempiva di contenuti istituzionali e di aspirazioni ideali il richiamo di sempre dei letterati italiani all'unità della penisola. Tanto più che in tal modo si diveniva partecipi dell' atmosfera culturale dominante in Europa, caratterizzata da un romanticismo fatto di richiami alla dimensione storica, confluente in una generale ricerca di identità nazionale, che finiva per colorarsi di aneliti alla libertà, all'indipendenza, alla democrazia.
Ecco che allora a Bologna cominciano ad animarsi cenacoli intellettuali, che abbandonano le esercitazioni accademiche (quelle piacevolmente frequentate da Leopardi nel suo soggiorno cittadino del '25/'26 e che gli avevano fatto amare Bologna), nella ricerca di un rinnovamento che non poteva non guardare ai nuovi orizzonti economici aperti in Europa dallo sviluppo di un industrialismo capitalistico guidato dalla borghesia, dai suoi valori e dalle sue pratiche, quali la proprietà, la libertà dei commerci, l'unità dei pesi e delle misure, le comunicazioni ferroviarie, l'istruzione popolare, lo sviluppo del credito ed altri ancora.
Senza dimenticare mai l'esigenza - e Marco Minghetti, uno dei futuri successori di Cavour, ne fu espressione costante - di accompagnare un simile progresso materiale con un impegno sociale che doveva farsi carico delle condizioni di miseria in cui vivevano almeno la metà degli oltre 75 mila abitanti della città.
Fu proprio il rifiuto del governo pontificio ad assumersi tali compiti in forme diverse dall'esercizio caritatevole, a spingere Minghetti e i suoi amici liberali ad abbandonare il sogno di possibili riforme all'interno del vecchio Stato e questo nonostante le speranze accese dall' elezione di Pio IX nel 1846.
Si arrivò così, anche a Bologna, all'esplosione del '48, con i volontari pronti a battersi contro l'Austria; con le prediche entusiasmanti del barnabita Ugo Bassi in piazza Maggiore; con il nuovo ingresso degli Austriaci in città e lo spontaneo insorgere del popolo minuto che portò alla loro cacciata dell'8 agosto; con la successiva indomita resistenza al cannoneggiamento austriaco del maggio '49, voluta dalla popolazione, che corse piangente a raccogliere come reliquie le zolle insanguinate dalla fucilazione di Ugo Bassi, colpevole di aver accompagnato Garibaldi nel drammatico tentativo di sfuggire all'inseguimento degli eserciti nemici dopo la fine della Repubblica romana.
A quel punto, sconfitte le forze della rivoluzione democratica e disponibili i governi esistenti solo ad affidarsi alle armi straniere, il mondo liberale, anche quello bolognese, capì che l'unica via percorribile verso il progresso stava nell'abbracciare un Risorgimento nazionale che, reso possibile dal sostegno della monarchia sabauda, tenesse insieme i capisaldi della moderna civiltà europea con il mantenimento dell'ordine sociale. Tanto che furono proprio questi «moderati», buttato ormai il cuore oltre l'ostacolo, a effettuare la rivoluzione del 12 giugno 1859, che pose definitivamente fine al governo pontificio a Bologna.
La strada dell'unità era tracciata e fu sancita nel plebiscito dell'11-12 marzo 1860. Valori liberali,
dunque, senza dubbio, cementanti la borghesia colta e la nobiltà progressista; ma soprattutto, a far da lievito al consenso verso il Risorgimento di gran parte dell'opinione pubblica, il senso orgoglioso dell'indipendenza dal potere politico altrui, dallo straniero in definitiva, dove l'antica libertas municipale prendeva corpo nella più larga comunanza nazionale, la sola in grado, ormai, di preservare una giusta dimensione all'autonomia e all'autogoverno. Un diffuso sentimento che vedeva i bolognesi far da spettatori entusiasti e commossi alle tante rappresentazioni delle opere teatrali di un Pellico, di un Dall'Ongaro, di Verdi soprattutto, o del «Guglielmo Tell» di Rossini, peraltro dimorante a Bologna dal 1805 al '48.
Le meditazioni politico-economiche di Minghetti e del suo ceto sociale trovavano, dunque, riscontro nel maturarsi di un'adesione agli obbiettivi risorgimentali testimoniata dalle suggestioni contenute nel diario di un popolano dal colorito linguaggio derivato dai modi dialettali, piccolo artigiano nel settore alimentare, Francesco Majani che, ostile dapprima agli iniziali moti rivoluzionari, non poté che applaudire ai concittadini che avevano reso «malconci e battuti» quei militari austriaci venuti - siamo nel '48 - con altero contegno in città, a «misurare cogli occhi i Cittadini, col entrare nei Caffè, ordinando dei gelati a tre colori »; e ancor più quanti furono capaci di reggere l'urto dell'artiglieria nemica, al punto che: «Quando li Tedeschi viddero che gli venivano Morti vari de’ suoi maggiori Ufficiali e che non vi erano le Ova da comprare a buon mercato, pensarono di fuggire».
Da allora in poi il diario è un crescendo di affermazioni intonate all'idea nazionale e di fedeltà al re sabaudo, accolto a Bologna dall'entusiasmo popolare, tanto che «in tutti si leggeva nel volto la Allegria e contentezza». E il narratore dichiara la gioia di essere vissuto fino a poter assistere ad un simile irripetibile avvenimento, collegandolo - con straordinaria intuizione - allo stupefacente progresso intervenuto che «al certo i nostri antenati non hanno mai veduto, perché tutte le scienze ed arti in questo secolo hanno fatto uno slancio non plus ultra».
Era a tutti evidente, dunque, nella Bologna entrata nell'assetto unitario, che il cammino risorgimentale era stato l'inevitabile coronamento politico e ideale per una società che intendeva agganciare la sua crescita materiale e civile a quanto di positivo stava accadendo nei Paesi più avanzati d'Europa.
Tratto da : Corriere della Sera del 12 dicembre 2010