Il ritorno della Volante Rossa
di Roberto Beretta
2 febbraio 2012
Esiste anche (forse è un po’ fuoritempo...) un revisionismo
«di sinistra»... È il pensiero che viene alla mente riponendo la ricerca in cui
Massimo Recchioni punta a «riabilitare» la Volante Rossa: ovvero il manipolo di
ex partigiani comunisti che negli anni subito dopo la guerra seminò nel
milanese sanguinosi episodi di «giustizia proletaria» ante litteram.
Non che l’autore non abbia qualche ragione di farlo, se è
vero – come si attesta nel suo Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i
rifugiati politici in Cecoslovacchia (DeriveApprodi, pp. 220, euro 17) sulla
base dei documenti processuali – che la mitizzata/demonizzata formazione si
rese responsabile "soltanto" di tre assassinii di presunti fascisti,
e non invece di tutto il codazzo di esecuzioni premeditate e delitti ideologici
che la vulgata in genere le attribuisce. Però nelle testimonianze pazientemente
raccolte dall’autore tra gli ex appartenenti alla formazione, con lo scopo di
chiarire le «motivazioni che avevano causato vendette e giustizie partigiane» e
per smentire che «questi ragazzi andassero in giro ad ammazzare avversari
politici quasi per diletto», non sempre viene rispettata la proclamata
imparzialità.
La figura centrale è il «tenente Alvaro», alias Giulio
Paggio, giovanissimo comandante partigiano che nel 1945 alla Casa del Popolo di
Lambrate – periferia operaia di Milano – fondò la Volante Rossa, prima come una
sorta di dopolavoro turistico giovanile, poi con funzioni di banda paramilitare
segreta. Il primo omicidio «antifascista» avvenne nel novembre 1947, gli altri
due a gennaio 1949.
Di lì a poco Paggio venne aiutato a fuggire all’estero e
rimase in Cecoslovacchia fino alla morte, avvenuta nel 2008, anche se il
presidente Pertini aveva concesso a lui e ad altri esuli comunisti la grazia
fin dal 1978. E proprio confortato da tale granitica coerenza di militante
Recchioni traccia del «Tenente Alvaro» il partecipe ritratto di un uomo che
«fece le sue scelte... con estrema generosità, accettando di pagarne le
conseguenze fino in fondo» senza essersi (a differenza di altri, anche
comunisti) «mai sottratto alle sue responsabilità, al suo destino e alla sua
espiazione»: un giudizio che peraltro è stato applicato pari pari a molti
brigatisti rossi non pentiti... In effetti la parte più interessante del volume
riguarda la ricostruzione dell’emigrazione politica italiana in Cecoslovacchia
dopo la seconda guerra mondiale, storia che presenta una dignità e persino una
drammaticità umana più che rispettabili.
Ad esempio quando, dopo i primi mesi d’ambientamento in un
ex collegio di Praga, i «compagni» italiani vengono spediti al nord a lavorare
nelle miniere, nelle acciaierie o nelle colonie agricole e sperimentano sulla
propria pelle – senza peraltro mai rinnegare la fede comunista – le
contraddizioni del «paradiso socialista»: lavoro durissimo, case collettive,
niente soldi, pochi servizi e poco cibo... «Si può dire che noi abbiamo
cominciato a stare decentemente dopo il 1968», depone una testimone.
Qualche volta il Partito manda aiuti dall’Italia, ma «oggi
parlano ancora di noi come esiliati d’oro, non immaginano neanche la vita di
sacrifici che abbiamo dovuto fare»... È qui che la biografia del «Tenente
Alvaro» – il quale all’estero ha dovuto assumere il nome di Antonio Boffi – e
dei suoi sodali può circondarsi di un’aura di coerenza eroica. Anche quando
Paggio torna a Praga e viene assunto a «Oggi in Italia», radio di
controinformazione politica diretta al nostro Paese, la sua situazione
economica e sociale non si fa certo idilliaca, anche perché nel frattempo ha
fatto famiglia. Funge comunque da compensazione la solidarietà tra gli esuli
italiani, fortissima pur nella reciproca ignoranza delle rispettive vicende
personali o addirittura dei veri nomi – secondo la segretezza abituale nelle
strutture politiche clandestine. Aspetti umani che colpiscono, indubbiamente; e
che – insieme alla sostanziale rimozione compiuta nel frattempo dal Pci sul
«sacrificio» di quei fedelissimi, diventato ormai molto scomodo nel gioco
democratico – fanno riflettere sull’amaro destino di quegli uomini.
Ciò che difetta tuttavia è un’analisi storica e politica
dell’operato di Paggio, con l’ammissione non tanto delle responsabilità della
Volante Rossa (ammissione che per la verità non manca, anzi viene persino
iscritta a merito dai protagonisti stessi) ma che le conseguenze delle sue
azioni alla fine sono state negative, per tutti: per le vittime e per i
colpevoli, ma più in generale per la democrazia in Italia. Così in questo
volume tutta la vicenda dell’emigrazione politica italiana in Cecoslovacchia
sembra bloccata sulla rivendicazione della qualità «antifascista» delle proprie
scelte violente: essa da sola basterebbe a giustificarle. Ma oggi, 60 anni e
una stagione di terrorismo dopo, questo non può certo accontentarci; anzi,
esaltarne i protagonisti rischia di sviare altri giovani dietro un mito
pericoloso. Resta dunque l’umano rispetto per la coerenza di quei militanti;
però è impossibile condividerne l’oggetto. E occorre dirlo più chiaro.
Tratto da : www.avvenire.it/