La battaglia di Novara - 23 marzo 1849

La battaglia di Novara - 23 marzo 1849

Il Generale polacco Chrzanowsky aveva concentrati e a disposizione su Novara circa 45.000 fanti, 2.500 cavalieri e 111 bocche da fuoco. Il punto cruciale della difesa - una linea spiegata di circa tredici chilometri - era stato individuato nei pressi del villaggio della Bicocca su una “bassa” altura lungo la via che da Novara conduce a Mortara. Le truppe piemontesi furono inizialmente schierate a sud di Novara a semicerchio; davanti, con funzione di avamposto, sulla linea Torrion Quartara - Castellazzo, furono dislocati i bersaglieri del 2° battaglione nel seguente modo: a Torrion Quartara la 5° compagnia con il Capitano Testa, a Cascina Boiotta e Cascina Boriola la 6° compagnia guidata dal Capitano De Biler che in parte era assegnata a protezione della 2° batteria da posizione guidata dal Capitano Ferdinando Balbo.
Nel settore Olengo si posizionò la 7° compagnia con il Capitano Casimiro Cattaneo e la 8° compagnia con il Capitano Pejron.
Alla Bicocca che costituiva la sinistra dello schieramento piemontese, fu posta in prima linea la 3a Divisione del Generale Perrone, dal Castellazzo alla Cascina Cavallotta, fu affidata al 3° Battaglione bersaglieri (Maggiore Di Saint Pierre), al 4° Battaglione bersaglieri (Maggiore Morand), già del Quartier Generale e assegnati alla Divisione, alla Brigata Savona (Generale Giorgio Ansaldi) con il 15° Reggimento fanteria (Colonnello De Cavero) su tre battaglioni in linea, sostenuto a tergo dal 16° Reggimento fanteria (Colonnello Cauda), anch'esso con tre battaglioni in linea, (vale a dire uno affiancato all'altro), due a ovest della strada e uno a est tra il Castellazzo e Cascina Farsà. Al centro quella del Generale Bes, e sulla destra la Divisione del Generale Durando. Quattro Battaglioni appoggiavano la destra di Durando, tre Compagnie di bersaglieri fornivano uno schermo di avvistamento lungo l’intero fronte di battaglia. In riserva, alle spalle stavano la Divisione del Duca di Genova e quella del Duca di Savoia, la prima dietro la Bicocca stessa, presso il cimitero di S. Nazzaro, la seconda a Novara città, con qualche posizione sulla strada per Vercelli; a guardia delle due vie di Trecate e di Galliate, fuori dal fronte di battaglia, era stata disposta la Brigata Solaroli.


La mattina del 23 marzo 1849 , le truppe Austriache del II Corpo d’Armata  agli ordini del Generale  d'Aspre sono nuovamente in marcia verso Novara. Tra le 10:30 e le 11:00, le vedette della 3ª Divisione Piemontese appostate sul campanile di Santa Maria della Bicocca segnalano la presenza del nemico in avvicinamento.

Gli austriaci, che potevano contare su circa 70.000 uomini e circa 156 bocche da fuoco, erano ancora incerti se l'esercito sardo si fosse concentrato a Novara o fosse invece a Vercelli per proseguire poi verso Casale ed Alessandria e riunirsi alle divisioni Ramorino e La Marmora e alla brigata sciolta Belvedere. Ad ogni modo, quella mattina Radetzky, non volendo che il nemico gli sfuggisse, fece avanzare verso Novara i generali D'Aspre, Appel e Wecher con il 2° e il 3° corpo e la riserva, e avviò a Vercelli il 1° e il 4° corpo del Wratislaw e del Thurn.

Alle ore 11 del 23 il Generale D'ASPRE giunse ad Olengo e, trovate le alture occupate dai bersaglieri piemontesi (tutti coscritti), li fece assalire da un'intera Divisione con l'Arciduca Alberto alla sinistra e il Generale Kollovrat alla destra. I “giovani” bersaglieri non abituati al fuoco, furono in breve travolti; eguali carenze e quindi medesima sorte seguirono i fanti della Savoia, sebbene si battessero alla presenza del loro espertissimo comandante Mollard. Diverso invece per gli uomini della Brigata Savona, che al cospetto del Generale Perrone, (già ferito) combatteva con accanimento, recuperando alla baionetta le posizioni perdute e solo dopo accaniti ritorni del nemico, e sopraffatti dal numero furono costretti a ritirarsi.


A riequilibrare le sorti le sorti della battaglia accorse il Duca di Genova, SAR il Principe Ferdinando di Savoia, con le Brigate Pinerolo e Piemonte. Quest'ultima, comandata dal Generale Passalacqua, che con inaudita audacia si avventò sul nemico e riconquistò parecchie posizioni perdute intorno alla Bicocca: purtroppo il prode Generale perse in quest'eroica contro offensiva la vita. Tuttavia il terzo Reggimento della brigata proseguì addirittura oltre la Bicocca e giunse vincente sull'altura di Castellazzo.
Il D'Aspre, che aveva mandato al fuoco le riserve, riuscì a scacciare da Castellazzo i Piemontesi, ma mantenne per poco quell'importante posizione, perché, il 13° Reggimento Fanteria piemontese rioccupava i dintorni, e il Duca di Genova, superandoli, incalzava gli Austriaci rioccupando la stessa altura e metteva in fuga il nemico da Olengo. Il Duca di Genova orninò poi ai Bersaglieri di inseguire il nemico !

A questo punto, tutto era possibile, è parve vera, la fiducia che il Sovrano, Carlo Alberto aveva avuto nella notte perche lo scontro fosse positivo per le armi sabaude.
Il fatto fu poi confermato dallo stesso Radetzky  nelle sue memorie. Tutta l'ala destra austriaca, correva rischio di essere circondata e andava sempre più perdendo terreno. Se il Duca di Genova avesse continuato nella sua azione vittoriosa e gli fosse stata mandata in appoggio la Divisione del Duca di Savoia, il Generale D'Aspre sarebbe stato pienamente battuto e la storia d'Italia, senza dover registrare la sconfitta di Novara, avrebbe forse preso un’altra piega.
Chrzanowsky però, intendeva logorare il nemico in ripetuti attacchi alla Bicocca per poi sgominarlo con forze fresche. E anziché sfruttare la situazione favorevole del momento, ordinò al Duca di Genova di ritornare alle spalle di Castellazzo.

L'errore del polacco fu determinante, perché permise agli austriaci di superare il momento critico e di far valere in seguito la superiorità numerica e di fuoco (concentrazione d’artiglieria che stava giungendo più lentamente dalla marcia di avvicinamento alla città).
D'Aspre infatti, riuscì a rimettere l'ordine fra i suoi uomini, che di li a poco furono raggiunti da quattordici Battaglioni del Corpo dell'Appel in rinforzo, mentre sulla destra il Generale Kollovrat veniva raggiunto e rinforzato da una intera Divisione. Da Confienza intanto stava per giungere anche il Corpo del Generale Thurn

D'Asprè, rinfrancato, lancio un altro assalto, ma non è che s'impegnò molto, disimpegandosi abilmente. Il contrattacco piemontese non venne, ed era proprio il comportamento che aveva previsto e che stava aspettando il Feldmaresciallo Radetzky, che fece scattare la trappola, piombando sui piemontesi sui tre lati a similitudine di una tenaglia. Erano le 17.00 circa !

Fu lo stesso Radetzky a comandare l'assalto su tutta la linea. Il D'Aspre e l'Appel a destra, l'Arciduca Alberto al centro, Benedeck e Degenfeld a sinistra. Posti alla testa delle loro colonne, passarono all’assalto simultaneo con impeto, imitati dal Kollovrat che assaliva con i suoi la Bicocca.
I piemontesi, sebbene sfiniti dalla fame e da sei ore di combattimento, sostennero l'urto con valore.
Alle 18.00 lo schieramento piemontese dell’estrema sinistra della Brigata Solaroli, appoggiata anche da quattrocento Bersaglieri valtellinesi e bergamaschi che quel giorno si coprirono di gloria, cominciò a sbriciolarsi cedendo terreno; poco dopo, la Bicocca, ostinatamente difesa fu occupata dal nemico nonostante tutti i tentativi del Duca di Genova di evitarlo, che ormai appiedato per aver avuto uccisi due cavalli, marciava e combatteva alla testa di tre Battaglioni. Il Generale Perrone consapevole che, il crollo del fronte in quel luogo avrebbe provocato la disfatta totale dell’Armata, si scagliò a cavallo con i resti della prima linea sul nemico in un ultimo disperato tentativo di arrestarlo, ma venne colpito dalla fucileria austriaca.
Gli austriaci possono pertanto proseguire la loro avanzata verso Villa Visconti !


Il cedimento piemontese divenne generale quando, nonostante il valore, anche le Divisioni del Generale Bes e Durando, cominciarono a vacillare; i reparti iniziarono a mostrare segni di indisciplina. Era evidente che si era persa la saldezza necessaria a sopportare l’azione dell’artiglieria nemica che tuonando ininterrottamente apriva enormi vuoti tra le linee.
Cominciò così l’abbandono di posizioni fino allora tenute a prezzo di tanto sangue. Le truppe più giovani e meno addestrate si sbandarono e in parte presero addirittura a fuggire verso Novara, sordi agli ordini dei comandanti.

Pioveva a dirotto, e l’oscurità ormai avanzata , aumentava le difficoltà di coordinare la disastrosa piega degli avvenimenti. Al passaggio degli sbandati, anche le truppe ancora salde, si convincevano che la battaglia era finita e si univano nella ritirata.

"In città - racconta un ufficiale piemontese - il tumulto, la confusione, il disordine erano al colmo; ufficiali e soldati disperati per la troppa sventura; feriti piemontesi mescolati con i feriti e prigionieri austriaci, gementi, con alcuni stritolati dalle ruote delle vetture d'artiglieria che correvano a tutta furia; bande armate senza cibo e senza direzione; comandi non dati, non uditi o derisi; soldati insolenti che abusavano dello scompiglio per rompere in eccessi; la cavalleria che caricava per le strade; l'artiglieria che tirava contro i nemici baldanzosi; fucilate in ogni momento, pioggia dal cielo, sangue e cadaveri per le vie, questo era l'aspetto di Novara che dava rifugio all'esercito di Carlo Alberto nella tristissima giornata del 23 marzo".

La battaglia era costata duemila morti e feriti ai piemontesi, più tremila prigionieri. Altrettanti morti e feriti il nemico e un migliaio circa di prigionieri; ma gli Austriaci erano davanti a Novara, in perfetto assetto e quindi pronti a riprendere il giorno dopo l'offensiva; mentre i piemontesi si trovavano nel caos ed in condizioni militari peggiori di quando avevano dovuto lasciare Milano.

"Il figlio stesso di Carlo, Vittorio Emanuele II, pur entusiasta per la guerra dello scorso anno, di fronte alle sollecitazioni di iniziarne un'altra in così precarie condizioni com'era in questi mesi l'esercito piemontese, l'entusiasmo lo aveva perso; inoltre era anche dell'idea che un esercito affidato a un rivoluzionario polacco, era un pubblico e patente sfregio dell'autorità del Re e del prestigio dell'esercito stesso. Quanto -lui che era lontano- avrebbe voluto fare per impedirlo: avrebbe voluto respingere gli avvocati chiacchieroni del potere, la demagogia imperante degli intellettuali borghesi che stavano spingendo suo padre alla catastrofe.
Lui che viveva - più del padre - a contatto con la realtà, con una diversa visuale mentale, era convinto che il disordine demagogico era la vera causa dello sdegno dentro l'esercito. Nessuno meglio di lui sapeva queste cose, poiché non viveva né era mai vissuto dentro i "palazzi", ma sempre dentro le caserme. Perfino la religione e la Chiesa - pur di raggiungere il loro scopo - era stata vituperata dai demagoghi anticlericali. E suo padre con rassegnazione fatalista subiva, lo tenevano in pugno con i loro infantili "capricci". (Francesco Cognasso, Vita di Vittorio Emanuele II, Utet, 1942"

Carlo Alberto, durante la battaglia, era stato là dove più grande era il pericolo per incoraggiare con la sua muta presenza i combattenti ed aveva visto cadere ai suoi fianchi ufficiali e soldati. Quando le sorti della battaglia cominciarono a volgere male per le nostre armi, parve che il re cercasse disperatamente la morte e a chi lo pregava di non esporsi tanto al pericolo rispondeva cupamente : "Lasciatemi morire; è questo il mio ultimo giorno".
È da ritenere certamente vero, in quanto il Sovrano sapeva bene che quella sconfitta voleva dire dover abdicare alla Corona, ed una morte in battaglia gli avrebbe risparmiato l’onta e trasformato quella sconfitta in un evento glorioso suo e della sua Casa, nonostante la sconfitta.

Bersezio, narra che “Sfilavano davanti a lui i feriti; passò il Conte di Robilant, Capitano d'artiglieria, per il quale egli aveva una particolare affezione, e costui sollevando il moncherino della mano, che un colpo di cannone gli aveva troncata, gridò: "Viva il Re". Il Re curvò ancora più basso il capo e tacque. Incontrò il corteo che recava alle ambulanze il Generale Perrone valorosissimo, ferito a morte, il quale si sollevò un istante e al Re accostatosi disse: "Muoio contento per il mio Re e per il mio paese"; e lui il Re in silenzio strinse la mano al moribondo. Vide trasportare la salma di Passalacqua; che salutò riverente, ma poi con uno sguardo e con gli occhi offuscati seguì a lungo quel corteo e non gli uscì dalle pallide labbra neppure una parola. Si affrettavano indietro le squadre dei suoi soldati, scemate, disordinate, sgomente, parecchi senza più armi né zaino, e gli passavano accanto, fuggendo senza vergogna, nemmeno salutandolo, mostrando di non accorgersi neppure della sua presenza, non vedendolo; e lui guardava e taceva.


Quando poi il Generale Chrzanowsky gli disse che non c'era più speranza di riprendere la lotta, perché non vi era più una sola unità integra in grado di offrire una valida resistenza, Carlo Alberto, facendo la parodia di Francesco I di Francia, pronunciò una dolorosa sentenza in cui si rivelò finalmente tutta l'amarezza dell'anima sua : "Tutto dunque é perduto, anche l'onore".

Ritiratosi nel palazzo Bellini, Carlo Alberto verso le otto di sera mandò il Generale Cossato da Radetzky con la richiesta di una sospensione d'armi per trattare poi un armistizio. Ne ebbe una risposta sprezzante e baldanzosa… "doveva prima lasciare agli Austriaci il territorio tra il Ticino e il fiume Sesia, consegnare la cittadella d'Alessandria, e in ostaggio Principe ereditario suo figlio; infine era necessario che congedasse tutti i volontari non piemontesi che si trovavano nel suo esercito".

Erano condizioni oltraggiose, che non si potevano davvero accettare senza buttare nel fango l'onore di una nazione. La decisione più saggia e indubbiamente anche la più sofferta che prese in tutta la sua vita Carlo Alberto, fu quella di mandare a cercare in mezzo ai superstiti di Novara il figlio ventottenne Vittorio Emanuele. Nel cuore della notte, dopo una lunga cavalcata, il Principe e Duca di Savoia giunse a Novara. Al figlio e ai generali piemontesi chiese se si poteva tentare di aprirsi il passo verso Alessandria per riprendere di là la guerra. Avuta risposta negativa, presenti Alessandro La Marmora, il Principe Carlo Emanuele suo fratello, i due figli (era giunto nel frattempo anche Ferdinando Duca di Genova) e il Generale polacco Chrzanowski, disse : "Ho sempre fatto ogni possibile sforzo da diciotto anni a questa parte per il vantaggio dei popoli; ma è dolorosissimo vedere le mie speranze fallite, non tanto per me, quanto per il paese. Non ho potuto trovare la morte sul campo di battaglia come avrei desiderato. Forse la mia persona è ora il solo ostacolo ad ottenere dal nemico un'equa convenzione; e siccome non vi è più mezzo di continuare le ostilità, io abdico da quest'istante la corona in favore del mio figlio Vittorio Emanuele, lusingandomi che, rinnovando le trattative con Radetzky, il nuovo Re possa ottenere migliori patti e procurare al paese una pace vantaggiosa".

Poi, indicando con segno stanco della mano il Duca di Savoia suo figlio disse : "Ecco il vostro re !"

Fatto questo, Carlo Alberto non volle trattenersi un minuto oltre  e partì seduta stante alla volta del Portogallo. Fu il Ministro Raffaele Cadorna a recarsi da Radetzky con la notizia e per fissare se possibile un colloquio. Vi avrebbe preso parte il nuovo Re di Sardegna, Vittorio Emanuele II di Savoia.

Intanto, dallo sbandamento delle truppe presero a verificarsi casi di saccheggi e violenze nelle campagne intorno a Novara, nel basso biellese e nel vercellese e fu necessario l'intervento di truppe fedeli, guidate da SAR il Principe Ferdinando di Savoia Duca di Genova per riportare l’ordine. Il Principe rimase anche ferito in uno dei numerosi scontri, e ottenne, per questo, una decorazione al valor militare. 

La guerra era finita e perduta definitivamente, la causa italiana per ora… rimandata !

Alberto Conterio