Nazario Sauro

Nazario Sauro
(Capodistria, 20 settembre 1880 – Pola, 10 agosto 1916)
Patriota e militare italiano. Esponente dell'irredentismo italiano, tenente di vascello della Regia Marina nel primo conflitto mondiale, fu giustiziato per alto tradimento dall'Austria-Ungheria.

Ottenuto il diploma di Capitano Marittimo, iniziò molto giovane l'attività di marinaio che lo portò all'età di 20 anni al suo primo comando su di una nave mercantile. Dopo essere stato al servizio di varie società di navigazione, tra cui la Società Austro-Americana dei Fratelli Cosulich, la Società Istria-Trieste e la Società Capodistriana di Navigazione a Vapore, nel 1910 passò al servizio della compagnia di trasporti marittimi "Zuttiati" che collegava i porti fluviali di Portonogaro e Cervignano del Friuli con gli scali dell'Istria e della Dalmazia. Ciò gli consentì di percorrere tutto l’Adriatico, impratichendosi particolarmente delle coste dalmate, delle rotte in stretti canali, sulle condizioni idrografiche e sulle vicissitudini meteorologiche di quel tratto di mare.

Negli anni prossimi allo scoppio del conflitto mondiale, mentre era al comando del mercantile Cassiopea che faceva la spola con l'Albania, Sauro trasportò armi per conto di patrioti albanesi che aspiravano all’indipendenza del loro paese dalla dominazione turca, cercando così di contribuire alla libertà dell’Albania, in conformità al principio mazziniano dell’indipendenza di tutti i popoli. Tanto si appassionò per tale causa, da imporre il nome di Albania alla sua figlia più piccola, ultima di cinque (Nino, Libero, Anita, Italo).

Allo scoppio della prima guerra mondiale nell’agosto del 1914, Sauro lasciò pertanto Capodistria ed il lavoro, il 2 settembre 1914, ed in ferrovia raggiunse Venezia, dove insieme ad altri esuli sostenne l’entrata in guerra dell’Italia contro l’ Austria. A seguito del terremoto che colpì la regione della Marsica il 14 gennaio 1915, Sauro fu tra i primi a partire per dare conforto e soccorso ai superstiti (una lapide a lui dedicata è conservata presso il Comune di Avezzano).

Il monumento a Nazario Sauro sulle rive di TriesteCon l’entrata in guerra dell’Italia, Sauro si arruolò volontario nella Regia Marina, dove ottenne il grado di tenente di vascello di complemento (23 maggio 1915). Con l’incarico di pilota si imbarcò subito su unità siluranti di superficie e subacquee. In 14 mesi di attività, compì oltre sessanta missioni.

Il 30 luglio 1916 si imbarcò a Venezia sul sommergibile Giacinto Pullino con il quale avrebbe dovuto effettuare un'incursione su Fiume, ma l’unità andò ad incagliarsi sullo scoglio della Galiola, all’imbocco del golfo del Quarnero. Risultati vani tutti i tentativi di disincaglio, distrutti i cifrari di bordo e le apparecchiature e predisposta per l’autoaffondamento, l’unità fu abbandonata dall’equipaggio e Sauro, allontanatosi volontariamente da solo su un battellino, venne intercettato dal cacciatorpediniere Satellit e fatto prigioniero.

Alla cattura seguì il processo presso il tribunale della Marina austriaca di Pola (dopo aver dichiarato la falsa identità come tal Nicola Sambo), fatto di interrogatori, dibattimenti, confronti e riconoscimenti (tra i quali quello dei concittadini Giovanni Riccobon, Giovanni Schiavon e quello decisivo di suo cognato Antonio Steffè, Maresciallo della Guardia di Finanza austriaca). Infine, il confronto drammatico con la madre che, pur di salvarlo dalla forca, negò di conoscerlo.

La condanna alla pena di morte per alto tradimento, tramite impiccagione, fu eseguita nelle carceri militari di Pola il 10 agosto 1916.

Sauro è ricordato nel popolare canto "La Canzone del Piave", citato assieme a Guglielmo Oberdan e Cesare Battisti.
Onorificenze

Medaglia d'oro al valor militare alla memoria

«Dichiarata la guerra all'Austria, venne subito ad arruolarsi volontario sotto la nostra bandiera per dare il contributo del suo entusiasmo, della sua audacia ed abilità alla conquista della terra sulla quale era nato e che anelava a ricongiungersi all'Italia. Incurante del rischio al quale si esponeva, prese parte a numerose, ardite e difficili missioni navali di guerra, alla cui riuscita contribuì efficacemente con la conoscenza pratica dei luoghi e dimostrando sempre coraggio, animo intrepido e disprezzo del pericolo. Fatto prigioniero, conscio della sorte che ormai l'attendeva, serbò, fino all'ultimo, contegno meravigliosamente sereno, e col grido forte e ripetuto più volte dinnanzi al carnefice di «Viva l'Italia!» esalò l'anima nobilissima, dando impareggiabile esempio del più puro amor di Patria.»
Alto Adriatico, 23 maggio 1915 - 10 agosto 1916

Lettera testamento ai figli di Nazario sauro prima di essere giustiziato :
« Caro Nino,
Tu forse comprendi od altrimenti comprenderai fra qualche anno quale era il mio dovere d'italiano. Diedi a te, a Libero ad Anita a Italo ad Albania nomi di libertà, ma non solo sulla carta; questi nomi avevano bisogno del suggello ed il mio giuramento l'ho mantenuto. Io muoio col solo dispiacere di privare i miei carissimi e buonissimi figli del loro amato padre, ma vi viene in aiuto la Patria che è il plurale di padre, e su questa patria, giura o Nino, e farai giurare ai tuoi fratelli quando avranno l'età per ben comprendere, che sarete sempre, ovunque e prima di tutto italiani! I miei baci e la mia benedizione.
Papà

Dà un bacio a mia mamma che è quella che più di tutti soffrirà per me, amate vostra madre! e porta il mio saluto a mio padre. »

Dal 7 marzo 1947, le spoglie del martire capodistriano si trovano nel Tempio Votivo del Lido di Venezia.

Guglielmo Oberdan

Guglielmo Oberdan
(Nato a Trieste il 1 Febbraio 1858, impiccato a Trieste il 20 dicembre 1882.)
Irredentista patriota e rivoluzionario

GUGLIELMO OBERDAN

MORTO SANTAMENTE PER L'ITALIA

TERRORE AMMONIMENTO RIMPROVERO
AI TIRANNI DI FUORI
AI VIGLIACCHI DI DENTRO

(Epigrafe di Giosuè Carducci)


Wilhelm Oberdank era figlio illegittimo di Josepha Maria Oberdank, una slovena di Gorizia, e del soldato veneto Valentino Falcier, arruolato nell'esercito austro-ungarico. Quando Falcier abbandonò la Oberdank, questa si sposò con un altro uomo, che non riconobbe Wilhelm, che mantenne pertanto il cognome della madre. In gioventù italianizzò il proprio nome e cognome in Guglielmo Oberdan per rivendicare la propria italianità.
Trascorse i primi anni di vita in una città segnata dai contrasti fra i fedeli all'Austria e gli irredentisti. Si distinse nelle attività scolastiche e nel 1877, grazie ad una borsa di studio del comune di Trieste, poté iscriversi al Politecnico di Vienna. L'anno seguente, però, avendo l'Austria proclamato la mobilitazione per occupare militarmente la Bosnia e l'Erzegovina come deciso nel Congresso di Berlino ricevette la chiamata alle armi e dovette interrompere gli studi.
Doveva presentarsi alla caserma di Trieste e partì da Vienna dopo aver salutato mestamente gli amici. A Trieste fu arruolato nella 14a Compagnia del 22° Reggimento Weber. Questo Reggimento doveva raggiungere la Bosnia e l'Erzegovina per sedare le violente insurrezioni che vi erano scoppiate contro l'Austria. Irredentista, Oberdan non poteva combattere contro un popolo oppresso: decise allora di fuggire insieme con due compagni di Pirano. I tre giovani raggiunsero di notte la sponda italiana sul battello «Stella d'Italia». Poi Oberdan, che già era iscritto all'associazione «L'Italia irredenta», fondata nel maggio del 1877, si recò a Roma, dove fu accolto con entusiasmo dagli altri profughi.
La morte di Giuseppe Garibaldi, avvenuta nel 1882, e il conseguente scoraggiamento degli esuli che avevano riposto in lui le loro speranze, spinse Oberdan a organizzare un attentato, assieme ad altri irredentisti (tra cui l'istriano Donato Ragosa), con cui si era sempre mantenuto in contatto), contro l'imperatore Francesco Giuseppe in visita a Trieste in occasione dei 500 anni di dedizione della città all'Austria. Prima che l'attentato potesse compiersi, egli venne arrestato a Ronchi, in seguito alla segnalazione di un messo comunale che notò il suo ingresso clandestino in territorio austriaco nei pressi di Versa. Condannato a morte dalla giustizia austriaca, che lo considerava un disertore e un regicida, avendo tentato di uccidere l'imperatore Francesco Giuseppe, fu impiccato a Trieste il 20 dicembre 1882.
A lui, considerato martire dell'irredentismo, italiano per scelta, date le sue origini miste, sono dedicati la piazza davanti al palazzo del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia, dove si trovava la caserma in cui fu impiccato, e un liceo scientifico, sempre a Trieste. Piazze, vie e istituti scolastici sono stati a lui dedicati in quasi tutte le città italiane, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale e nel ventennio fascista.

Carmelo Borg Pisani

Carmelo Borg Pisani
(Senglea, 10 agosto 1915 – La Valletta, 28 novembre 1942)
Rivoluzionario, agente segreto e patriota italiano di Malta.

« Malta non è inglese che per usurpazione ed io non sono suddito britannico che per effetto di questa usurpazione. La mia vera Patria è l’Italia. È dunque per lei che devo combattere »
(Carmelo Borg Pisani)

« Non mi spiace di morire, ma sono amareggiato per la mancata invasione di Malta da parte dell’Italia »
(Carmelo Borg Pisani prima della condanna a morte il 28 novembre 1942)


La vita dell'Eroe
Nato in una nota famiglia cattolica e nazionalista maltese, a 14 anni si iscrisse alla OGIE (Organizzazioni Giovanili Italiane all'Estero) di La Valletta e dopo quattro anni, mentre frequentava con profitto anche il liceo d'arte Umberto I, fu inviato a Roma per frequentare un corso di Capo Centuria.
Terminato gli studi liceali, per perfezionare i suoi talenti artistici si trasferì a Roma dove frequentò l'Accademia di Belle Arti senza trascurare l'attività politica: entrò in contatto col gruppo degli irredentisti maltesi e collaborò col prof. Umberto Biscottini ed altri intellettuali dell'Archivio storico di Malta.
Con loro maturò la sua idea che i britannici stavano distruggendo l'"anima italiana" di Malta e che fosse necessario scacciare gli inglesi per il ritorno dell'isola alle sue origini. Con queste motivazioni Pisani (così come altri studenti maltesi che condividevano le stesse idee) si iscrisse al Partito Fascista divenendo Camicia Nera.
L'entrata nella guerra dell'Italia (10 giugno 1940) lo sorprese ancora a Roma. All'indomani dello scoppio della Seconda guerra mondiale, dopo esser stato scartato dal Regio Esercito per la sua forte miopia, si arruolò nella Milizia (MVSN) ottenendo il grado di sotto capo manipolo. Entrò anche a far parte del Servizio Informazioni Militare (SIM). Chiese ed ottenne, inoltre, la cittadinanza italiana rinunciando a quella britannica e restituendo il suo passaporto attraverso l'ambasciata statunitense di Roma che rappresentava il Regno Unito.
Fu quindi inviato in Grecia con la Compagnia Speciale del Gruppo CC.NN. da sbarco della 50a Legione partecipando all'occupazione italiana di Cefalonia.
Offertosi volontario per una spedizione ricognitiva a Malta propedeutica all'invasione dell'isola, il 18 maggio 1942 sbarcò segretamente alle Dingli cliffs di Ras id-Dawwara divenendo l'avanguardia informativa dell' Asse nell'invasione dell'isola. Trasferì, quindi, i viveri in una grotta che conosceva da ragazzino, ma una tempesta insolitamente forte dopo soli due giorni si portò via viveri ed equipaggiamenti tanto che, messo alle strette dal bisogno, fu costretto ad attirare l'attenzione di una barca in perlustrazione e fu ricoverato in un ospedale militare. Lì Pisani fu riconosciuto dal capitano Tom Warrington, un suo amico d'infanzia, che lo denunciò. Fu quindi trasferito nella prigione Corradino, interrogato ed accusato di tradimento.

Processo ed esecuzione
Il 12 novembre fu giudicato a porte chiuse per evitare le proteste dei Fascisti maltesi, i cui esponenti principali a quel tempo erano già stati deportati in campi di prigionia ugandesi o espulsi verso l'Italia.
La giuria, composta da militari in quanto il codice civile era stato sospeso per lo stato di guerra, lo riconobbe colpevole di spionaggio e tradimento condannandolo a morte.
Contro l'accusa di tradimento cercò di far valere la sua rinuncia alla cittadinanza britannica a favore di quella italiana e la partecipazione a combattimenti inquadrato nell'Esercito Regio. Quest'ultima annotazione fu, anzi, considerata come un'aggravante in quanto la Grecia era alleata del Regno Unito.
Il 19 novembre fu emessa la sentenza a morte per impiccagione per tradimento e cospirazione contro il governo di Sua Maestà britannica. La sentenza fu eseguita alle 7:34 del 28 novembre 1942 nella prigione Corradino.

Il Re Vittorio Emanuele III gli conferì motu proprio la Medaglia d'Oro al Valor Militare alla memoria. Le notizie sulla sua morte erano però frammentarie: per questo motivo, credendo che Borg Pisani fosse stato fucilato, nelle motivazioni si fa riferimento al piombo del plotone di esecuzione:

Medaglia d'oro al valor militare alla memoria

«Irredento maltese e, come tale, esente dagli obblighi militari, chiedeva ripetutamente ed otteneva di essere arruolato, nonostante una grave imperfezione fisica. Come camicia nera partecipava alla campagna di Grecia, durante la quale contraeva una infermità per cui avrebbe dovuto essere sotto posto ad atto operatorio, al quale si sottraeva per non allontanarsi anche solo per pochi giorni dal campo di battaglia. Conseguita la nomina ad ufficiale della milizia artiglieria marittima, chiedeva insistentemente di essere utilizzato in una rischiosissima impresa di guerra, alla quale si preparava in lunghi mesi di allenamento e di studio, in perfetta serenità di spirito e in piena consapevolezza della gravità del pericolo. Catturato dal nemico, riaffermava di fronte alla corte marziale britannica di Malta la sua nazionalità italiana e cadeva sotto il piombo del plotone di esecuzione al grido di: «Viva l'Italia!». Fulgido esempio di eroismo, di fede, di abnegazione e di virtù militari, che si riallaccia alle più pure tradizioni dell'irredentismo.»

Malta, 1942


La sua tomba si trova ancora all'interno del recinto del carcere "Corradino". Nella sua cella fu ritrovata la scritta: "I vili ed i servi non sono graditi al Signore".

Non c'è concordia sulla valutazione della figura di Pisani: alcuni affermano che era un eroe della causa di una Malta indipendente, altri che era un fantoccio nelle mani del Fascismo, altri ancora che era un coraggioso irredentista italiano.

Polemiche vi sono anche sul processo perché non gli fu riconosciuto lo status di prigioniero di guerra che gli avrebbe risparmiato la pena di morte, cosa che invece avvenne, dopo la conclusione della guerra, per diversi altri irredentisti che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana ed estradati a Malta su richiesta inglese.

Cesare Battisti

Cesare Battisti
(Trento, 4 febbraio 1875 – Trento, 12 luglio 1916)
Geografo, politico e irredentista italiano.

Nacque in Trentino quando questo era ancora parte dell'Impero Austro-Ungarico, da Cesare, commerciante, e dalla nobildonna Maria Teresa Fogolari.
Dopo aver frequentato il ginnasio a Trento, si sposta a Firenze per frequentare l'università. Si laurea nel 1898 in lettere e successivamente consegue una seconda laurea in geografia. Seguendo le orme dello zio materno, don Luigi Fogolari (condannato a morte dall'Austria per cospirazione e poi graziato), abbraccia presto gli ideali patriottici dell'irredentismo. Successivamente agli studi universitari, si occupa di studi geografici e naturalistici e pubblica alcune apprezzate "Guide" di Trento e di altri centri della regione e l'importante volume "Il Trentino". Contemporaneamente si occupa di problemi sociali e politici e, alla testa del movimento socialista trentino, si batte per migliorare le condizioni di vita degli operai, per l'Università italiana di Trieste e per l'autonomia del Trentino. Nel 1900 fonda il giornale socialista Il Popolo e quindi il settimanale illustrato "Vita Trentina", che dirige per molti anni.

Desiderando combattere per la causa trentina con la politica e farla valere dall'interno, nel 1911 si fa eleggere deputato al Reichsrat, il Parlamento di Vienna. Nel 1914 entra anche nella Dieta di Innsbruck.

Si sposò con Ernesta Bittanti (Cremona, 1871 - 1957) ed ebbe tre figli: Luigi (1901 - 1946), Livia (1907 - 1978) e Camillo (1910- ).[1]

La fuga dall'Austria
Il 17 agosto 1914, appena due settimane dopo lo scoppio della guerra austro-serba, abbandona il territorio austriaco e ripara in Italia. Diventa subito un propagandista attivo per l'intervento italiano contro l'Impero Austro-Ungarico, tenendo comizi nelle maggiori città italiane e pubblicando articoli interventisti su giornali e riviste.

In guerra
Il 24 maggio 1915, l'Italia entra in guerra. Battisti si arruola volontario e viene inquadrato nel Battaglione Alpini Edolo, 50ª Compagnia. Combatte al Montozzo sotto la guida di ufficiali come Gennaro Sora e di Attilio Calvi. Per il suo sprezzo del pericolo in azioni arrischiate riceve, nell'agosto del 1915, un encomio solenne. Viene trasferito ad un reparto sciatori al Passo del Tonale e successivamente, promosso ufficiale, al Battaglione Vicenza del 4º Reggimento Alpini, operante sul Monte Baldo nel 1915 e sul Pasubio nel 1916.

Nel maggio 1916 si trova a Malga Campobrun, in attesa dell'inizio della famosa Strafexpedition (15 maggio - 15 giugno 1916), preparando la controffensiva italiana. Il 10 luglio il Battaglione Vicenza, formato dalle Compagnie 59ª, 60ª, 61ª e da una Compagnia di marcia comandata dal tenente Cesare Battisti, di cui è subalterno anche il sottotenente Fabio Filzi, riceve l'ordine di occupare il Monte Corno (1765 m) sulla destra del Leno in Vallarsa, occupato dalle forze austro-ungariche.

La cattura
Nelle operazioni, molti Alpini caddero sotto i colpi austriaci, mentre molti altri furono fatti prigionieri. Tra questi ultimi si trovavano anche il sottotenente Fabio Filzi e il tenente Cesare Battisti stesso che, dopo essere stati riconosciuti, furono tradotti e incarcerati a Trento.
La mattina dell'11 luglio, Battisti venne trasportato attraverso la città a bordo di un carretto, in catene e circondato da soldati. Durante il percorso numerosi gruppi di cittadini e milizie, aizzati anche dai poliziotti austriaci, lo fecero bersaglio di insulti, sputi e frasi infamanti.

Il processo e l'esecuzione
La fossa dei Martiri, Castello del BuonconsiglioLa mattina seguente, il 12 luglio 1916, fu condotto al Castello del Buon Consiglio insieme a Fabio Filzi. Durante il processo non si abbassò mai alle scuse, né rinnegò il suo operato e ribadì invece la sua piena fede all'Italia. Respinse l'accusa di tradimento a lui rivolta e si considerò a tutti gli effetti un soldato catturato in azione di guerra.

Alla pronunzia della sentenza di morte mediante capestro per tradimento, Battisti prese la parola e chiese, invano, di essere fucilato invece che impiccato, per rispetto alla divisa militare che indossava. Il giudice gli negò questa richiesta e procedette invece ad acquistare alcuni miseri indumenti da fargli indossare, dando seguito alla sentenza. L'esecuzione avvenne nel cortile interno del Castello del Buonconsiglio (La fossa dei Martiri). Le cronache riportano che il cappio si spezzò, ma invece che concedergli la grazia com'era usanza, il carnefice ripeté la sentenza con una nuova corda. Cesare Battisti affrontò il processo, la condanna e l'esecuzione con animo sereno e con grande fierezza, nonostante la misera esposizione durante il tragitto in città, al fatto che fosse stato condotto alla forca vestito quasi di stracci e che non gli si permise di scrivere alla famiglia. Morì gridando in faccia ai carnefici: Viva Trento italiana!, Viva l'Italia!.

Cesare Battisti è ricordato nel popolare canto La canzone del Piave, citato assieme a Nazario Sauro e Guglielmo Oberdan.


Onorificenze
Mausoleo dedicato a Cesare Battisti a Trento.

Per il suo eroismo in combattimento e il suo coraggio nel supremo sacrificio, gli viene concessa la Medaglia d'Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:

Cesare Battisti - Tenente 6º reggimento della 2ª compagnia del battaglione "Vicenza"

Medaglia d'oro al valor militare

«Esempio costante di fulgido valor militare, il 10 luglio 1916, dopo aver condotto all'attacco, con mirabile slancio, la propria compagnia, sopraffatto dal nemico soverchiante, resistette con pochi alpini, fino all'estremo, finché tra l'incerto tentativo di salvarsi voltando il tergo al nemico ed il sicuro martirio, scelse il martirio. Affrontò il capestro austriaco con dignità e fierezza, gridando prima di esalare l'ultimo respiro: "Viva l'Italia!" e infondendo così con quel grido e col proprio, sacrificio, sante e nuove energie nei combattenti d'Italia.»

Monte Corno di Vallarsa, 10 luglio 1916



Cesare Battisti è considerato un eroe nazionale italiano e a lui sono dedicati monumenti, piazze e vie in tutta Italia. A Trento è stato eretto un grande mausoleo sul Doss Trento, che sovrasta simbolicamente la città. La montagna su cui venne catturato viene adesso chiamata Monte Corno Battisti.

Irredentismo : Origine del termine

Il termine irredentismo indica l'aspirazione di un popolo a completare la propria unità territoriale nazionale, acquisendo terre soggette al dominio straniero (terre irredente) sulla base di un'identità etnica o di un precedente possesso storico, vero o presunto.

L'irredentismo può essere inteso in un duplice modo: da un lato come il desiderio di alcuni popoli che, vivendo in una terra soggetta all'autorità di un certo Stato, vogliono distaccarsene per entrare a far parte dello Stato del quale sentono la paternità e l'origine, ovvero costituire un proprio Stato nazionale; dall'altro come la pretesa territoriale di uno Stato su una parte del territorio di un altro Stato.

Non sempre le dispute territoriali sono irredentiste, ma spesso vengono poste come tali per conquistare il sostegno internazionale e dell'opinione pubblica.

L'espressione "terre irredente", cioè non liberate, fu utilizzata la prima volta dal patriota e uomo politico italiano Matteo Renato Imbriani, nel 1877, ai funerali del padre Paolo Emilio; un giornalista viennese lo definì subito "irredentista" per dileggiarlo.

Il termine è stato acquisito nella forma italiana anche da altre lingue.

Sito Irredentista Ufficiale

Matteo Renato Imbriani

Matteo Renato Imbriani
(Napoli, 28 novembre 1843 – San Martino Valle Caudina, 13 settembre 1901)

Figlio del letterato Paolo Emilio Imbriani, seguì il padre in esilio, ed ebbe una ferrea educazione, dapprima in un collegio privato di Torino, poi in un collegio militare.

Nel 1859 combatté coi Piemontesi, nel 1860 fu con Garibaldi a Castel Morrone. Nel 1866, capitano, combatté nel Trentino. Successivamente si recò in Francia, per rilevare la salma del fratello Giorgio, caduto nel 1870 a Digione, contro i Prussiani.

Il primo contatto con la realtà irpina, dove poi soggiornerà a lungo negli anni finali della vita, ci fu nel triennio 1872-1875 quando con la moglie si stabilì a San Martino nella casa di famiglia, ma, nonostante il forte legame alle origini della famiglia, trascorse solo pochi anni a San Martino Valle Caudina (Avellino). Questo primo e breve periodo di soggiorno nella Casa Giulia, per ragioni di salute e per affari politici, non lasciò alcun segno evidente nella vita politica del paese. L'insuccesso delle sue candidature nelle elezioni di quella provincia lo testimonia.

Veri centri della sua attività politica furono Napoli e la Puglia, che lo elesse deputato nei collegi di Trani e di Corato. Anche a lui si deve la realizzazione dell'Acquedotto Pugliese. Un articolo del Corriere delle Puglie riporta, dalla penna del suo direttore Martino Cassano (nonostante la profonda avversione tra i due), l'appassionata dialettica con cui l'On. Imbriani sottolineò la necessità per la Puglia di un acquedotto funzionale, in seno ad una riunione tematica tra buona parte dei deputati pugliesi convocata dall'allora Presidente della Provincia Lattanzio.

Morì, nella sua amatissima Casa Giulia il 12 settembre 1902. Dove oggi è presente una lapide, fregiata da rame bronzeo, di quercia e d'alloro, con una magnifica nobilissima iscrizione.

« (Napoli) Matteo Renato Imbriani ammoniva da questa casa il popolo prediletto
d'intendere con opera animosa e costante alla integrità e alla libertà d' Italia minacciate da rissose ambizioni, insidiate da colleganze codarde. Il sodalizio democratico,ricordando il magnanimo cittadino e proseguendone l'opera, ravviva la sua fede nella vittoria dell'Ideale.

XX Settembre MCMV. Epigrafe di Mario Rapisardi'' »



La moglie Irene Scodnik è stata il suo più attendibile biografo.

Dopo la sua morte molte lapidi furono a lui dedicate: ad Ariano Irpino il 20 settembre 1902; ad Avellino sulla facciata del Palazzo dei Tribunali 26 ottobre 1902 dove si legge un'epigrafe di Giovanni Bovio e ovviamente a San Martino Valle Caudina fatta dall'On. Roberto Mirabelli. Anche sulla facciata del palazzo comunale di Poggio Mirteto vi è, dal 1911, una lapide che ricorda come "apostoli della libertà" lui ed Andrea Costa. Nel nord-est del centro storico di Perugia vi è una via denominata Matteo Renato Imbriani; Parma gli ha invece intitolato una delle principali strade del caratteristico quartiere dell'Oltretorrente. Anche a Zafferana Etnea vi è una strada a lui intitolata.

Irredentismo

"Se... mi dovesse accadere di ...non tornare più, ecco il mio testamento
"Viva l'Italia"

(Guglielmo Oberdan)




Indice dei capitoli dedicati all'Argomento


Irredentismo : Origine del termine

Matteo Renato Imbriani

Breve Storia della Venezia Giulia

***

Eroi Irredentisti

Cesare Battisti

Guglielmo Oberdan

Nazario Sauro

Carmelo Borg Pisani

Quando togliatti scippò l'amnistia al Re

Palmiro Togliatti rientrò in Italia dalla Russia il 27 marzo 1944 con il preciso mandato di Stalin di sostenere la monarchia fino alla fine della guerra; l'evento passò alla storia come la "svolta di Salerno".
Togliatti prestò giuramento come ministro nelle mani di Vittorio Emanuele III in occasione dell'insediamento dell'ultimo Governo Badoglio, e mimò la cerimonia, da lui definita poco austera, in occasione della sua prima visita alla redazione dell'Unità poco dopo la liberazione di Roma.

Il periodico Candido, diretto da Giovannino Guareschi (n° 8 del 22/02/1948) riporta dal settimanale Il Tempo un articolo di Emanuele Rocco nel quale si racconta la scena del giuramento, ricostruita dal leader comunista; un episodio che rivela, scrive Guareschi, la "signorilità" di Togliatti. Dice Emanuele Rocco che Togliatti "con Vittorio Emanuele si incontrò una sola volta, in occasione del giuramento dei ministri dell'ultimo governo Badoglio. Di questa visita fece una descrizione ai redattori dell'Unità la prima volta che si recò al giornale subito dopo la liberazione di Roma. Il tu, che è obbligatorio nei rapporti fra i membri del PCI, usciva timido dalle bocche di quei redattori che avevano come decano (e molto distanziato) il ventiseienne Mario Alicata. C'era rispetto un po' timoroso e Togliatti, piccolo e sorridente, si incaricò lui di dissiparlo: chiacchierò un poco, in tono ironico, delle donne; e poi si lanciò nell'imitazione di Vittorio Emanuele, come lui lo aveva visto il giorno del giuramento. "...poteva in quell'occasione imporsi con un po' di cerimoniale, con il fasto della monarchia. Ci ricevette invece in una sala spoglia, con un grande tavolo in mezzo e un tappeto sdrucito. Disse: Buongiorno, e salutandoci saltellava intorno al tavolo. Non ci offrì nemmeno un bicchierino di vermut". E Togliatti si mise a saltellare per la stanza, imitando i gesti e la voce del re. Il ghiaccio era rotto".
Ma, salvo qualche caduta di stile come quella sopra descritta, Togliatti non spinse mai la polemica antimonarchica a livello di attacchi personali al sovrano o al luogotenente generale del Regno, tanto che ho visto la foto della prima visita del Luogotenente Umberto di Savoia alle Fosse Ardeatine, nella quale è visibile Togliatti.
Nelle Fosse Ardeatine erano stati fucilati tanti ebrei e antifascisti, anche di fede monarchica, reali carabinieri, ed il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, eroica figura della resistenza lealista e sabauda. Togliatti nel governo del referendum era il ministro guardasigilli (detto oggi della Giustizia) ed ebbe costanti rapporti con Umberto di Savoia. Ho avuto l'onore di parlare con Umberto anche delle sue relazioni con i politici italiani del tempo; ricordava la freddezza di Nenni che andava dal Re per l'udienza settimanale vestito piuttosto sportivamente (oggi direbbero casual) e non nascondeva un apprezzamento formale per Togliatti che si presentava al Quirinale in un impeccabile doppiopetto blu, attendendo che fosse il Re a fargli cenno di sedersi.
A guerra finita ci fu una battaglia dura fra il Re e Togliatti sul problema dei condannati a morte, che inoltravano al Re la domanda di grazia.


Casa Savoia dimostrò nel corso di quasi un secolo di unità nazionale di essere contraria per principio alla pena di morte tanto che ebbe la grazia sovrana Giovanni Passannante, il mancato regicida lucano che nel 1878, a Napoli, tentò di assassinare il Re Umberto I.
Umberto II era contrario alla pena di morte perché convinto cattolico, e, nel caso in questione, avrebbe firmato tutte le domande di grazia, salvo forse i casi di delitti particolarmente efferati. Togliatti era contrario ad accogliere gran parte delle domande di grazia; si assisteva così, mi disse Falcone Lucifero – Ministro della Real Casa – ad un braccio di ferro fra il Re e Togliatti finché, anche con la mediazione di Lucifero, non si trovava un compromesso.
Lo scontro, per quanto duro, si sarebbe riproposto subito dopo il 9 maggio 1946 quando, a seguito della abdicazione di Vittorio Emanuele III, il nuovo Re Umberto II fece sapere al governo e al ministro guardasigilli che, conformemente alle tradizioni della monarchia, il nuovo sovrano intendeva promulgare un'ampia amnistia, finalizzata, dopo una guerra civile fra italiani, alla pacificazione nazionale.
La reazione del guardasigilli e degli estremisti presenti nel governo fu talmente dura che Umberto II non riuscì a superare il veto. L'amnistia l'avrebbe promulgata il governo su proposta di Togliatti solo con la vittoria della repubblica ed a seguito di una trattativa pre-referendum fra Togliatti e gli esponenti del Partito Fascista Repubblicano ancora nella clandestinità con il "do ut des" che in questa situazione significava: veniva assicurata l'amnistia se i fascisti avessero votato e fatto votare per la repubblica al referendum. Togliatti fu di parola.
Ne parlai con Giorgio Almirante e con Pino Romualdi nel 1986, alla vigilia del quarantennale del referendum. Tutto confermato, e lo stesso Pino Romualdi mi disse: "Avevamo migliaia di uomini alla macchia o in carcere e la promessa ed il prezzo dell'amnistia ci sembrarono una provvidenziale opportunità per tutelare tanti giovani idealisti". Ricordo anche un'intervista di Almirante all'Espresso in cui veniva ripetuto lo stesso concetto di Romualdi.
Diverso l'atteggiamento del principe Junio Valerio Borghese, che, nel 1970 mi disse: "Alla vigilia del referendum ero in carcere e gli uomini della X Mas mi chiesero, tramite i miei avvocati, direttive per il 2 giugno. Risposi di votare per la monarchia al referendum istituzionale e per l'Uomo Qualunque alla costituente". Borghese così concluse: "Motivai l'indicazione a favore della monarchia perché il Re non era più Vittorio Emanuele III e perché il novo Re avrebbe sicuramente contribuito, meglio di una repubblica, alla pacificazione nazionale". Non posso dire che la repubblica abbia vinto – se ha vinto – per i voti fascisti anche perché quel campo si divise, ma un dato è certo: ho analizzato i voti delle città capoluogo del Lazio che per oltre 60 anni di repubblica hanno sempre votato per la destra: trattasi di Viterbo, Rieti e Latina. Proprio in queste città il 2 giugno 1946 ha vinto la repubblica mentre a Roma e Frosinone vinse la Monarchia. Se poi consideriamo che tutto l'Agro Pontino votò repubblica, compresa la città di Sabaudia, che era stata inaugurata personalmente dal Re Vittorio Emanuele III, dobbiamo concludere che il "do ut des", nelle località da me citate, ha funzionato.
Il silenzio copre tutt'ora la vera storia dell'amnistia che viene raccontata come un gesto di buona volontà di Palmiro Togliatti per favorire la pacificazione nazionale. Il leader comunista pensava invece ad un sistema istituzionale più debole di quello monarchico, per poterlo conquistare più facilmente. Egli guardava a Mosca, che non era come oggi la capitale della Santa Russia Ortodossa, bensì dell'Unione Sovietica atea e sanguinaria.

da "STORIA IN RETE" - Ottobre 2008

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La Repubblica e i suoi sviluppi



Indice dei capitoli relativi all'argomento
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La politica dei Galantuomini

C'era un tempo in cui la politica era passione, coraggio. Capacità di mobilitare ed emozionare le folle. Eppure i protagonisti di quel tempo, in molti casi, sapevano affiancare a una grande capacità comunicativa, finezza culturale, rispetto dell'avversario, educazione e sobrietà.

Signori della politica. Oggi forse un poco dimenticati. E un simbolo di quegli anni lontani in cui si ricostruiva l'Italia economica e politica è sicuramente Alfredo Covelli, scomparso nel giorno di Natale di dieci anni fa. Un uomo, e chi lo ha conosciuto lo ricorda bene, che dotato di un personale carisma sapeva guadagnarsi senza fatica, come un fatto naturale, il rispetto di amici e avversari. Lo stanno a testimoniare i messaggi che un rivale dello spessore del capo dei comunisti italiani come Palmiro Togliatti inviava al capo dei monarchici. L'iniziativa di pubblicare l'archivio storico del capo indiscusso dei monarchici italiani è un tentativo lodevole per rompere il silenzio che accompagna quegli uomini troppo recenti per essere ricordati dagli storici e troppo lontani per apparire sui giornali, ma che invece andrebbero conosciuti da vicino, non tanto o non solo per le loro intuizioni. Anche per un modo di interpretare la politica. Per quella signorilità d'altri tempi. Per quel rispetto delle istituzioni che deve essere fondamento anche oggi.
Alfredo Covelli inizia la sua attività politica mentre è ancora in corso la guerra. Di fede monarchica, rafforza la sua convinzione quando in gioco è la sopravvivenza della monarchia italiana. Ma la sua importanza politica si evidenzia soprattutto all'indomani del referendum del 2 giugno, quando una parte dei politici e degli intellettuali pensa soprattutto al loro futuro cercando spazio nei partiti dichiaratamente repubblicani. Oppure in qualche caso si isolano. Covelli col suo partito, diverse saranno le sigle tra scissioni e faticose ricomposizioni, mantiene un legame col passato ma con obiettivi moderni: il tentativo di affermare una destra liberale. Così non c'è spazio per tentativi ribellistici e reazionari, ma la via maestra resta quella della democrazia. Del rispetto delle regole democratiche e delle istituzioni. Sono gli anni prima del centrismo e poi del centrosinistra in cui Covelli recita un ruolo. Non solo riempiendo le piazze, o con i successi personali nelle seguitissime tribune politiche. Ha un ruolo di dialogo e di confronto a livello parlamentare con i leader, specialmente democristiani del tempo. Potrebbe aspirare anche a ruoli di potere solo se avesse voluto. Ma preferisce restare fedele ai suoi principi e al progetto politico di una formazione di destra democratica e moderna.
L'occasione la offre la creazione con Almirante del Msi-Dn. Quasi una prova generale di quello che sarà in futuro An. Covelli partecipa a questa costruzione, è il presidente del nuovo schieramento. Ma i tempi non sono maturi. La Dc, fino a quel momento il vero scudo contro il comunismo, arranca, i socialisti fallita la riunificazione, sono tentati da un Pci in crescita e vivono un grave momento di crisi da cui usciranno solo con la segreteria Craxi. C'è bisogno dunque di rafforzare il vecchio scudocrociato con nuove forze o nuove alleanze. Il progetto di una grande destra non va avanti. La strada con Almirante si divide. È il 1979 e Covelli decide di mettere fine alla sua avventura politica. Secondo i testimoni del tempo non mancano le offerte personali a Covelli. Ma le lascia cadere. Fuori dalla battaglia politica, vive da spettatore gli anni di Tangentopoli. La caduta di un mondo ormai orfano degli uomini del dopoguerra, privato di quelle tensioni ideali che avevano caratterizzato le scelte della sua generazione.

Da : Il Sole 24 Ore

Achille Lauro (1887 - 1982)

Achille Lauro (Piano di Sorrento, 16 giugno 1887 – Napoli, 15 novembre 1982) è stato un armatore, politico e dirigente sportivo italiano.
Quinto dei sei figli dell'armatore Gioacchino e di Laura Cafiero, fu a sua volta armatore e fondatore della Flotta Lauro, una delle più potenti flotte italiane di tutti i tempi e tra le più importanti aziende del meridione, nonché di un vero e proprio impero finanziario. Fondamentale per la crescita delle sue attività fu l'intuizione della compartecipazione alle sue attività da parte dei suoi dipendenti.
Godette fama di grande amatore, e sulle sue inusitate "doti" il popolino creò una vera e propria leggenda.

Durante il ventennio fascista fu nominato consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, facilitato in questa operazione dalla famiglia Ciano, che apparteneva al mondo armatoriale. Sempre in quel periodo ottenne la carica di presidente della squadra di calcio del Napoli prendendo il posto che fu di Ascarelli. Durante la sua lunga presidenza il Napoli visse più di colpi di mercato e promesse di grandezza che di risultati degni di nota (accanto a due retrocessioni poté vantare la sola conquista di una Coppa Italia e di una coppa delle Alpi) ma fu comunque per Lauro una enorme cassa di risonanza in grado di diffondere ancor più il suo nome fra la gente.
Nel dopoguerra dopo una iniziale adesione al movimento dell'Uomo Qualunque, si avvicinò al movimento monarchico di Alfredo Covelli determinando col suo apporto finanziario la nascita del Partito Nazionale Monarchico (PNM); fu lungamente sindaco di Napoli, tanto amato quanto discusso in particolare per come gestì la cosa pubblica mostrando mancanza di considerazione nei confronti degli avversari politici, delle forze sociali e degli stessi compagni di coalizione. Durante il suo mandato ebbe inizio la speculazione edilizia nella città di Napoli che fu duramente descritta nel film Le mani sulla città di Francesco Rosi.
Come uomo politico fu dotato di grande carisma e addirittura "venerato" da gran parte dei napoletani, tanto che nelle elezioni comunali del 1952 e 1956 riuscì ad arrivare fino a circa trecentomila preferenze, quota mai raggiunta prima da un candidato alle elezioni locali. Nelle politiche del 1953 ottenne 680 mila preferenze alla Camera, anche questa quota mai raggiunta fino ad allora da nessun deputato.

Alfredo Covelli (1914 - 1998)

Alfredo Covelli (Bonito, 22 febbraio 1914 – Roma, 25 dicembre 1998) è stato un politico italiano.Laureato in lettere e filosofia, in giurisprudenza ed in scienze politiche, nella seconda metà degli anni trenta fu insegnante di latino e greco in un liceo classico di Benevento.Prese parte alla Seconda guerra mondiale come ufficiale dell'aeronautica militare e, dopo una serie di operazioni a Tirana e Bari, ricevette una decorazione al valor militare.

Di idee monarchiche, nel 1946 venne eletto deputato tra le file del Blocco Nazionale della Libertà e nel referendum del 2 giugno sostenne Casa Savoia.Nel luglio dello stesso anno fondò il Partito Nazionale Monarchico, con il quale venne eletto alla Camera nel 1948, e lo sarà fino al 1976; nel frattempo si dedicò anche al giornalismo diventando direttore del Corriere della Nazione.Nel 1959, insieme ad Achille Lauro, guida il neonato Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica ma le sconfitte elettorali porteranno in breve tempo alla fine del movimento e alla sua fusione con il MSI.Negli anni settanta entrò nella direzione del Movimento Sociale Italiano, che divenne Msi-Dn, di cui fu anche presidente.Nel 1977 guidò la scissione di Democrazia Nazionale di cui fu presidente, ma due anni dopo, con la scomparsa di DN, preferì ritirarsi dalla politica.Il 15 gennaio del 1998 venne nominato da Vittorio Emanuele di Savoia presidente onorario della Consulta dei Senatori del Regno.Per sua esplicita richiesta, venne sepolto a Bonito, suo luogo di nascita. Riconosciuto da tutti i Deputati e Senatori, come un galantuomo!


Breve storia dei movimenti politici monarchici in Italia

Partito Nazionale Monarchico - PNM
Il Partito Nazionale Monarchico era un partito politico italiano, nato nel giugno 1946, dalla confluenza della Concentrazione Nazionale Democratica Liberale (CNDL) e di altre formazioni minori monarchiche. Primo segretario fu Alfredo Covelli.
Il 2 giugno 1954, in seguito ad una scissione all'interno del PNM, venne fondato il Partito Monarchico Popolare (PMP), guidato da Achille Lauro.
L'11 aprile 1959 il PMP e il PNM si riunificarono dando vita al Partito Democratico Italiano (PDI), che il 7 marzo 1961 assunse la denominazione di Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica (PDIUM).




Partito Monarchico Popolare
Il Partito Monarchico Popolare (PMP) era un partito politico italiano, fondato il 2 giugno 1954, per iniziativa di Achille Lauro, in seguito ad una scissione all'interno del Partito Nazionale Monarchico (PNM).
I contrasti nascevano dal fatto che Lauro si proponeva come obiettivo la ricerca di un accordo con la Democrazia Cristiana (DC) per la formazione di una maggioranza governativa di centro-destra, che riteneva necessaria anche per consolidare il proprio potere locale (soprattutto a Napoli), mentre il segretario del partito Alfredo Covelli era orientato a stabilire alleanze a destra con il Movimento Sociale Italiano (MSI).
Inoltre Lauro, ricco armatore navale, non intendeva più finanziare con il proprio patrimonio un partito di cui non aveva il pieno controllo.
Alle elezioni politiche del 1958 il PMP ottenne un risultato migliore del PNM, con il 2,6% dei voti alla Camera (e con 14 deputati e 5 senatori), contro il 2,2% del rivale (con 11 deputati e 2 senatori).
Dopo quella data, sfumata anche la speranza del PMP di inserirsi nell'area governativa, iniziò un progressivo riavvicinamento dei due partiti monarchici, che si concluse nel 1959 con la loro unificazione nel Partito Democratico Italiano (PDI), divenuto poi, nel 1961, Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica (PDIUM).
Una frazione del PMP, contraria alla riunificazione e guidata da Antonio Cremisini, fondò un primo Movimento Monarchico Italiano.

Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica
Il Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica (PDIUM) è stato un partito politico italiano, fondato l'11 aprile 1959 dalla riunificazione del Partito Nazionale Monarchico (PNM) di Alfredo Covelli e del Partito Monarchico Popolare (PMP) di Achille Lauro, che si erano separati nel 1954.
Il nuovo partito prese dapprima la denominazione di Partito Democratico Italiano (PDI), per poi modificarla il 7 marzo 1961 in quella di Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica (PDIUM).


Il 10 luglio 1972, il Consiglio Nazionale del PDIUM deliberò lo scioglimento del partito e la confluenza nel Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale (MSI-DN). Una piccola parte del partito, più legata all'ispirazione liberale e risorgimentale, rifiutò però l'alleanza cogli eredi politici del fascismo e dette vita al movimento dell'Alleanza monarchica.
Covelli fu il presidente della nuova formazione politica; il ruolo degli esponenti monarchici nel MSI-DN, tuttavia, non fu notevole. Covelli e Lauro, insieme a un certo numero di dirigenti provenienti dal PDIUM, parteciparono alla fondazione di Democrazia Nazionale - Costituente di Destra nel 1976.

I Monarchici in Italia dopo il 1946



Indice dei capitoli dedicati all'Argomento
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Associazionismo Monarchico (in preparazione)
Personaggi - Alfredo Covelli
Archivio storico Camera dei Deputati su : Alfredo Covelli  (Documento Pdf)
Personaggi - Achille Lauro
Personaggi - Giovanni Guareschi
Documenti correlati

L’influenza di Giuseppe Mazzini nella massoneria italiana



L’appartenenza alla massoneria, in senso organico e attraverso una iniziazione rituale “regolare”, di Giuseppe Mazzini non è mai stata provata, come d’altra parte quella di un altro Padre della Patria, Camillo Cavour. Uno dei più preparati storici della massoneria José Antonio Ferrer Benimeli, a proposito di una imprecisa notizia pubblicata sul "Boletín" massonico spagnolo nel 1920, afferma: «Mazzini non fu mai massone benché molti continuino ad affermarlo». Con ciò precisando i termini attuali della "vexata quaestio"[1]. Viceversa André Combes parlando della loggia irregolare dei "Philadelphes" costituita in Inghilterra dai massoni radicali francesi, esuli dopo la giornata del 13 giugno 1849 e dopo il colpo di stato bonapartista del 2 dicembre 1851, e aggiunge in nota: «Secondo Bradlaugh, Mazzini aveva frequentato tale Officina»[2].

Questo secondo accenno fa riferimento a circostanze che spiegano in larga misura le origini della "leggenda nera" relativa a Mazzini massone e alla famosa “cifra” massonica che avrebbe ricevuto[3], e si collocano nel secondo periodo della carriera rivoluzionaria del Genovese e della sua frequentazione ‑ che è tutt'uno ‑ di società segrete. Ma di ciò diremo fra poco.


Esplicitiamo ora la periodizzazione qui sopra presupposta. E rammentiamo che dal 1827 alla fine del 1830 Mazzini è carbonaro; il 21 novembre 1830 l'imprigionamento spezza la sua attività carbonica e il giovane rivoluzionario avvierà l'anno seguente il secondo complesso periodo della sua azione fondando la "Giovine Italia". Come sappiamo, i 30 anni dal 1831 al 1861 costituiscono il fulcro della carriera rivoluzionaria mazziniana e traboccano di eventi drammatici.


Dal 1861, allorché l'unità d'Italia, se pure incompiuta, è proclamata in chiave sabauda malgrado il decisivo apporto di Garibaldi e del Partito d'Azione, il "lavoro" di Mazzini ‑ così egli definisce le sue imprese di rivoluzionario professionale ‑ assume nuovi aspetti; ne diventa parte essenziale la penetrazione nel movimento operaio; e il perseguimento delle mète non raggiunte dell'Indipendenza ‑ Venezia e Roma ‑ si legano a uno sforzo multiforme di penetrazione nella nuova realtà nazionale. Nel frattempo è risorta e si sta sviluppando rapidamente in tutto il paese la massoneria italiana, divisa peraltro in due principali organizzazioni: la prima rinasce a Torino nel 1859, passa a Firenze nel 1864, poi a Roma dopo il 1870, accomuna elementi moderati con altri più rivoluzionari, comunque si colloca nel quadro dello stato monarchico e finirà per prevalere; la seconda è diretta da Palermo e si caratterizza per il suo tendenziale radicalismo repubblicano.

E ora accenniamo una sintetica valutazione sull'animus di Mazzini carbonaro. Dopo aver fondato e diretto in Francia la "Giovine Italia", e specialmente dopo gli aspri contrasti col massone e supercarbonaro Filippo Buonarroti, il Genovese proferirà giudizi negativi sulla Carboneria. Ma da un'illuminante pagina di Alessandro Galante Garrone ricaviamo la considerazione che, in realtà, il triennio 1827-1830 aveva visto un'adesione fattiva ed entusiasta del giovane rivoluzionario alla setta: egli «aveva aderito alla Carboneria per un irrefrenabile bisogno di agire che, nella situazione data, non aveva modo di sfogare altrimenti»[4]; d'altra parte «i carbonari, nonostante tutte le loro angustie, avevano ai suoi occhi il merito di aver voluto unire il pensiero all'azione: che era, e sarebbe sempre rimasto, per Mazzini un elogio non piccolo»[5].

In realtà, fra l'altro, non solo Mazzini continuerà a collaborare in Francia colla Carboneria nella prima metà degli anni 30, ma poiché in Italia alcuni gruppi carbonari sopravvissero, soprattutto nello stato pontificio, per tutto l'800 e anche dopo, egli non ebbe alcuna difficoltà a riprendere contatto con essi e a metterli in collegamento con le proprie organizzazioni cospirative[6].

Dopo la "Giovine Italia", il trentennio del secondo e decisivo periodo di lotte per l'indipendenza e unità italiana vide Mazzini a capo di varie successive organizzazioni da lui fondate, soprattutto la seconda Giovine Italia, l'Associazione Nazionale Italiana, il Comitato Centrale Democratico Europeo e il connesso Comitato Nazionale Italiano e, dopo lo sciagurato tentativo insurrezionale del 6 febbraio 1853 a Milano, il Partito d'Azione.

Ma, dopo questa tremenda sconfitta, vi è anche la misteriosa visita di Mazzini all'antico carbonaro Pellico menzionata da Mola [7]. E in Inghilterra, soprattutto tra gli ultimi anni '50 e gli ultimi anni '60, vi sono in ogni caso attivi contatti con la menzionata loggia irregolare dei "Philadelpes", nucleo originario di quella che poi diventerà la "Prima Internazionale", analiticamente documentati, ad esempio, da B. Nikolaevsky[8]. Non mancano, attraverso le personalità liberali che appoggiano in Inghilterra l'azione mazziniana, contatti con la massoneria regolare: la prima riunione dei "Friends of Italy" si tiene a Londra nella località storica detta "Freemasons' Tavern"[9].

Ma il terzo periodo sopra accennato, quello che si avvia nell'Italia unita e ha come caratteristica più nota e innovativa il riuscito sforzo di Mazzini per permeare il movimento operaio, inaugura anche una fitta serie di rapporti fra lui e la risorta Massoneria italiana. E che ciò non avvenga per caso ci pare di coglierlo attraverso un indizio solitamente trascurato o ritenuto di segno opposto.

Dal 1861 in poi viene pubblicata a Milano, presso l'editore Gino Daelli, la raccolta degli Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, curata dall'Autore. I primi 7 volumi escono fra il 1861 e il 1864. L'ottavo, ancora a cura dell'Autore, verrà stampato nel 1861 da altro editore. Dopo la morte dell'Apostolo, vari altri volumi seguiranno a cura di Aurelio Saffi, poi di altri. Nella parte della raccolta apprestata direttamente dal protagonista, i vari scritti sono raccordati da brani autobiografici, che molti anni dopo, nel 1938, verranno riuniti a cura di Mario Menghini formando una postuma autobiografia mazziniana, di utilissima consultazione[10] .

La raccolta "daelliana" degli Scritti editi ed inediti si presenta, ed è, un'opera di documentazione storica, ma in pari tempo persegue scopi di propaganda politica. Che per la realizzazione di questo secondo fine venga anche utilizzato qualche abile accorgimento lo dimostra una circostanza che ha occasionato una modesta scoperta filologica di chi scrive: la posizione e il taglio dell'inizio e della fine di un documento, intitolato poi dai curatori dell'Edizione Nazionale, Dilucidazioni morali allo Statuto della Giovine Italia, gli conferiscono un aspetto alquanto innocuo rispetto al documento completato e ricollocato all'epoca esatta della sua emanazione. In realtà si rileva allora che si tratta di una delle prime redazioni della Istruzione generale per gli affratellati della Giovine Italia, precedente a quella riportata ufficialmente nella raccolta: più battagliera e rivoluzionaria di quella e quindi giudicata dall'Autore meno produttiva ai fini dell'immagine che intendeva dare di sé e della sua azione agli strati ormai più moderati di lettori ai quali ora si rivolge[11].

Citiamo questo fatto per introdurre subito un altro assunto dimostrativo. E' notissimo quel passo dei ricordi autobiografici citati, in cui il Mazzini, rievocando la prigionia nel carcere di Savona, accenna a "una scena ridicola ch'io m'ebbi col Passano" (suo superiore in Carboneria), il quale «incontrato da me per caso nel corridoio... al mio sussurrargli affrettato: “Ho modo certo di corrispondenza; datemi nomi”, rispose col rivestirmi di tutti i poteri e battermi sulla testa per conferirmi non so qual grado indispensabile di Massoneria»[12]. L'accenno ha riferimento alla dipendenza dei massimi dirigenti carbonari da "superiori incogniti" di segreta estrazione massonica scozzese[13]. Ed è buttato lì, come un fatterello insignificante, appunto addirittura ridicolo. Però questo attesta che di fatto Mazzini abbia ricevuto una, per quanto forzatamente sommaria e sotto l’aspetto rituale perlomeno “anomala”, iniziazione massonica.

Del resto egli ben sa che suo padre, il medico e professore uni­versitario Giacomo Mazzini, ha fatto parte, nel periodo napoleonico, della loggia genovese "Gli Indipendenti", e che il fatto di essere figlio di massone proietta sulla sua stessa esistenza un particolare carisma [14].

Indipendentemente dalla questione di ritenere valida o meno la sua iniziazione accade negli anni seguenti che Mazzini, fino ai suoi ultimi giorni, svolge un'intensa azione nei confronti delle logge[15], in cui si alternano e si mescolano, secondo il susseguirsi di diverse situazioni, principalmente tre tipi di azione:

a) la ricerca di collegamenti e lo sforzo di potenziare le logge del Grande Oriente di Palermo, di orientamento, come si è detto, radicale e repubblicano;

b) creazione nel 1866 di una sua nuova organizzazione di lotta, l'Alleanza Repubblicana (in seguito, Alleanza Repubblicana Universale) e il tentativo di farla penetrare nelle logge, per politicizzarle ai propri fini;

c) l'instaurazione di rapporti amichevoli anche con esponenti singoli e con intere logge dell'altro raggruppamento massonico, il Grande Oriente d’Italia, con centro, come si è detto, prima a Torino poi a Firenze quindi a Roma.

I due limiti estremi e contraddittori di tale molteplice serie di azioni e di discorsi sono, in senso di estraneità alla Massoneria, le dichiarazioni secondo cui «noi [componenti dell'ARU] non siamo massoni»[16] e le valutazioni spregiative circa la massoneria moderata e non politicizzata[17]; nell'opposto senso di compenetrazione con essa, le considerazioni sulle comuni finalità e i "regolari rapporti", e l'asserzione della necessità dell'esistenza della massoneria, poiché «non si può avversare un'Associazione di uomini che mira ad un fine morale, che accenna in Italia ad intendere sempre più l'unità di tale problema, connettendo l'ispirazione politica e il miglioramento individuale»[18]. Vi è poi l'accettazione da parte del Genovese di varie nomine a membro onorario di logge di entrambe le obbedienze, e la trattativa con Federico Campanella per la propria nomina a Gran Maestro del Grande Oriente di Palermo, che nel 1868 sfiora la conclusione positiva[19], e sfiora quindi l'inserimento nella storia di Giuseppe Mazzini come Gran Maestro di un'Obbedienza massonica.

Tutto questo autorizza l'ipotesi che, malgrado l'understatement con cui viene accennata, la narrazione dell'iniziazione massonica clandestina nel carcere di Savona possa non essere stata messa lì a caso, ma per far vedere che, bene o male, l'antico carbonaro poteva pur dire di essere anch'egli massone.

Dopo un attivo interscambio di manifestazioni fraterne di ogni genere, negli ultimi suoi anni i massoni italiani considerarono Giuseppe Mazzini come un fratello.

Dopo la morte dell'Esule in patria, a Pisa, il 10 marzo 1872, il trasporto della salma da Pisa a Genova, salutato dovunque dalla folla, suggerì al massone Giosue Carducci la nota epigrafe dedicata a «L'ultimo/ dei grandi italiani antichi/ Il primo dei moderni/ Il Pensatore/ che di Roma ebbe la forza/ dei Comuni la fede/dei tempi moderni il concetto" e che conclude con le parole: "L'Uomo/ che tutto sacrificò/ che amò tanto/ E molti compatì e non odiò mai/ GIUSEPPE MAZZINI/ Dopo quarant'anni di esilio/Passa libero per terra italiana/ Oggi che è morto./ O Italia/ Quanta gloria e quanta bassezza/ E quanto debito per l'avvenire»[20]. Sulla sua bara, nel corso dell'imponente funerale genovese, cui presero parte numerosi massoni diretti dal Gran Maestro Aggiunto Michele Barabino, delegato del Grande Oriente e capo del Comitato per l'accompagnamento a Staglieno, venne posta la sciarpa da maestro[21]. A perenne memoria del triste evento, il 10 marzo divenne ed è tuttora, per i massoni italiani, il giorno dedicato alla commemorazione dei defunti.

La tomba di Staglieno rimase pertanto il sacrario a cui fece d'allora in poi riferimento la schiera dei mazziniani massoni. Schiera illustre il cui esponente esemplare era stato a lungo, fino al memorabile incontro inglese del 1864 e oltre, per poi esserne staccato da profondi dissidi, Giuseppe Garibaldi. Parliamo un momento, sia pure schematicamente, di questo secondo aspetto.

Fecero parte di quella eletta schiera, alcuni per un tratto della loro carriera politica, che da un certo punto in poi, come nel caso di Garibaldi, li allontanò dall'Apostolo, altri fino alla morte di lui e talora fino alla fine della loro vita, personaggi la cui elencazione, sia pure largamente incompleta, già fornisce essenziali connotazioni su una mentalità caratterizzata quasi sempre dall'intransigenza politica e morale.

Menzioniamo dunque Felice Albani, Giorgio Asproni, Giovanni Bovio, Benedetto Cairoli, Federico Campanella, Luigi Castellazzo, Francesco Crispi, Ariodante Fabretti, Nicola Fabrizi, Ettore Ferrari, Ludovico Frapolli, Saverio Friscia, Francesco Guardabassi, Adriano Lemmi, David Levi, Giuseppe Libertini, Alberto Mario, Giuseppe Mazzoni, Gustavo Modena, Giuseppe Montanelli, Mattia Montecchi, Antonio Mordini, Emesto Nathan, Giuseppe Petroni, Carlo Pisacane, Maurizio Quadrio, Aurelio Saffi, Annibale Vecchi , Livio Zambeccari, Luigi Zuppetta.

Come abbiamo detto, non vi fu una frazione massonica nel movimento mazziniano: piuttosto, vi fu una certa tendenza di coloro che assommavano le due qualità a collocarsi dalla parte di Garibaldi, allorché la sua strada si separò da quella di Mazzini.

Né vi fu una corrente puramente mazziniana all'interno della massoneria, ambiente in cui le vicende degli anni 60 dell'800 contrapposero piuttosto lo schieramento democratico di coloro che, mazziniani o garibaldini, provenivano dal Partito d'Azione, a quello del gruppo cavouriano che dominò negli anni torinesi del Grande Oriente Italiano[22].

Piuttosto, quei seguaci del Genovese che, rigorosamente intransigenti nelle pregiudiziali repubblicane, per mezzo dell'organizzazione delle Società operaie affratellate, poi del Partito repubblicano, riuscirono a far sopravvivere il movimento mazziniano nei difficili anni dal 1872 alla fine del secolo, si giovarono grandemente della loro collocazione massonica per uscire dall'isolamento[23]. Ciò specialmente allorché in tal modo riuscirono più prontamente a unire le loro forze a quelle degli altri gruppi dell'Estrema, radicali e socialisti, nei momenti drammatici in cui le svolte reazionarie dei governi monarchici tentarono di svellere dalle radici le componenti democratiche della politica italiana.

Reciprocamente, per quanto dalle frange davvero più estreme ed extraparlamentari della società italiana la massoneria venisse considerata più o meno uno strumento del trasformismo borghese, asserzione che Mussolini e Bordiga fecero poi penetrare durevolmente nella mentalità dei socialisti italiani, i suoi Grandi Maestri dal 1871 al 1919 - Mazzoni, Petroni, Lemmi, Nathan e Ferrari - continuarono a professare il culto della figura e del pensiero di Giuseppe Mazzini, considerato come l'incarnazione dei più alti ideali proponibili alla nazione italiana, anzi di un'etica di valore universale.

Fra i numerosi omaggi letterari che gli vennero dedicati, i più significativi si debbono a tre massoni. Ancora a Carducci, che oltre all'epigrafe dianzi ricordata, lo esaltò in due componimenti pubblicati nel libro II di Giambi ed epodi. Uno è datato 11 febbraio 1872 e venne pubblicato due giorni dopo, dunque è dedicato a Mazzini ancor vivo, ed è il sonetto che inizia con le parole «Qual dagli aridi scogli erma su'l mare/ Genova sta, marmoreo gigante,l Tal, surto in bassi dì, su'l fluttuante/ Secolo, ei grande, austero, immoto appare." E conclude: "Esule antico, al ciel mite e severo/ Leva ora il volto che giammai non rise,/—Tu sol—pensando, o ideal, sei vero.»[24]. Ad esso segue un altro componimento intitolato Alla morte di Giuseppe Mazzini, datato 12 marzo 1872.

Allievo di Carducci, lui pure iniziato, Giovanni Pascoli dedicò all'Apostolo nel centenario della nascita un ampio componimento, l'Inno secolare a Mazzini, che esordisce: «Cento anni?!... Tu nell'evo eri, degli evi!... Tu, quando niuno ancor vivea, vivevi", e conclude: "E solo allora tu sarai, Mazzini!»[25] .

L'altro scrittore a cui si debbono numerose e ispirate evocazioni di Mazzini e della sua grandezza morale e politica è il massone Giovanni Bovio. Il quale fra l'altro ebbe a paragonarlo al personaggio del marchese di Posa, che compare nel Don Carlos di Schiller; personaggio di alta statura morale, il quale dice di sé: «Concittadino io sono/ di color che verranno». Paragone invero felicemente espressivo delle innegabili caratteristiche profetiche del messaggio mazziniano.

Dopo essere sopravvissuto alle persecuzioni crispine e aver assunto la forma di vero e proprio partito politico nel 1895, tre anni dopo il partito socialista, e dopo essere riuscito, anche grazie all'espatrio di alcuni suoi dirigenti, a superare quella stretta reazionaria di fine secolo che è stata definita come "il colpo di stato della borghesia", il movimento repubblicano si trova all'inizio del '900 a continuare la sua lotta in un clima diverso. In esso l'ispirazione mazziniana lascia posto, in parte, ad altre ispirazioni, specialmente a quella cattaneana, mentre la sua partecipazione elettorale e parlamentare ne attenua il carattere di alternativa al sistema.

Tuttavia, grazie anche all'alto prestigio morale e politico del Gran Maestro Ernesto Nathan, mazziniano massone per eccellenza, che come abbiamo detto vara l'iniziativa dell'Edizione Nazionale col concorso della monarchia, e sarà negli anni seguenti sindaco di Roma, il rilievo della figura di Mazzini non diminuisce, anzi è ormai retaggio indiscusso del Risorgimento.

Questo da parte di coloro per i quali tale qualifica era una ragione di lode e di affetto.

Da parte opposta, abbiamo accennato a una “leggenda nera” su di lui. Essa venne espressa in forma sistematica e argomentata nel libro del padre gesuita Hermann Gruber (predecessore di Pietro Pirri, a sua volta predecessore di Giovanni Caprile come specialista della “Civiltà Cattolica” in materia di massoneria), Giuseppe Mazzini massoneria e rivoluzione[26], in cui veniva asserita la sua regolare iniziazione in Loggia, ed egli veniva descritto come il "Grande Vecchio" di una rete massonica universale, a sua volta concepita come alta direzione di tutte le società segrete, o meno, eversive e anticristiane.

A1 contrario, pochi anni dopo, un Gran Maestro della Massoneria italiana che conosceva ogni più riposto segreto dell'Istituzione, ed era anche un fervente mazziniano e cultore della memoria dell'Apostolo, Ernesto Nathan, dichiarava pubblicamente nel modo più pacato e inequivoco che Mazzini non aveva fatto parte della massoneria[27].

In base a una così autorevole testimonianza, non resterebbe altro da fare a questo punto che ripetere e sottolineare la recisa e sintetica frase di Ferrer Benimeli ricordata in principio: «Mazzini non fu mai massone, benché molti continuino ad affermarlo».

Può dunque stupire che lo studio dedicato appositamente a questo tema nel 1972 da Carlo Gentile, un massone di livello eccezionale che era anche uno storico valente[28], concluda in modo sfumato e quasi in forma interrogativa.

Ma ciò accade in quanto Carlo Gentile non si accontenta di conclusioni logicamente dedotte entro l'ambito istituzionale: fa riferimento ad istanze che dilatano la massoneria facendone, per così dire, un paradigma spirituale.

Da questo punto di vista rievoca le personalissime concezioni metafisiche e religiose del suo personaggio (funzionali alla fondamentale intuizione mazziniana della necessità di una leva religiosa, per rinnovare quell'Italia profondamente controriformista che ancora oggi ci ritroviamo), e le mette a confronto con i capisaldi della tradizione muratoria, sottolineandone le assonanze[29]. E rileggendo quelle pagine ispirate dobbiamo ammettere che Mazzini ha inteso offrire, e in certa misura è riuscito a far accettare, una sua "filosofia della Massoneria" a numerosi componenti delle logge italiane dei suoi tempi e anche dei tempi nostri. E intendiamo bene, d'altra parte, qual fosse l'angoscia dell'Apostolo nel constatare la diffusione del libero pensiero positivistico, divenuto prevalente, nella seconda metà dell'800, nell'ambito massonico e anche fra quei massoni che erano suoi seguaci politici. Sicché egli bollava quelle tendenze, con espressioni sdegnose come: «L'arida, tristissima menzogna di scienza che chiamano oggi Libero Pensiero»[30]; ovvero: «Se la Loggia diffonde... materialismo e ateismo, la credo dannosa all'avvenire del paese quanto una loggia borbonica»[31].

Alla mentalità massonica inspirata dalle dottrine del positivismo, Mazzini contrapponeva il suo pensiero religioso, che ebbe a definire come "Deismo puro"[32], ma che in realtà arricchiva un impianto deistico con un articolato complesso di dottrine, che sono state oggetto di appositi studi[33], e che non è questa la sede per riesporre. Va comunque rilevato che la posizione centrale assunta nel suo pensiero da concezioni relative al perfezionamento e al progresso così individuale come collettivo, attinte da fonti diverse, da Lessing[34] e Herder[35]ai Sansimoniani[36], lo poneva in contatto, grazie all'assiduo scambio di riflessioni con i suoi seguaci massoni, con l'inquadramento tradizionale dell'Istituzione[37].

Ecco dunque che l'estrinseca e frettolosa iniziazione dell'antico carbonaro, mai perfezionata in un'autentica appartenenza istituzionale, finiva pur tuttavia per inverarsi per effetto di profondi vincoli di fratellanza: quasi per l'introduzione, ritualmente irregolare, ma ricca di umano contenuto, in una massonica catena d'unione.

Di Augusto Comba

Note Bibbliografiche

[1] J.A. Ferrer Benimeli, L'unificazione italiana nell'opera dei massoni spagnoli, in A.A. Mola (a cura), La liberazione dell’Italia nell’opera della Massoneria, Foggia, Bastogi, 1990, pp.35-59. Cfr. p.55, nota 36.

[2] A. Combes, L'unificazione italiana nell'opera dei massoni francesi, ivi, pp.61-80. Cfr. p.62, nota 2.

[3] Sul rapporto tra carboneria e massoneria cfr. il documento Catechismo del Maestro Carbonaro” riprodotto in appendice, pp. ???? (nota del curatore)

[4] A. Galante Garrone, Mazzini in Francia e gli inizi della "Giovine Italia", in Mazzini e il Mazzinianesimo, Atti del XIV Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Genova, 24‑28 settembre 1972), Roma, Istituto Storico del Risorgimento, 1974, pp.191‑238. Cfr. p. 199, nota 3.

[5] Ivi.

[6] Cfr. A. Comba, I repubblicani alla ricerca di un'identità (1870‑1895), in AA.VV. Mazzini e i repubblicani italiani, Torino, Istituto Storico del Risorgimento Italiano, Comitato di Torino, 1976, pp.457‑513. Cfr. p. 509 e nota 141.

[7] A.A. Mola, L'enigma Pellico, in "Studi piemontesi”, XVIII, 1989, p.379 e nota 43 a p.380.

[8] B.I. Nicolaevsky, Secret Societies and the First International, in M. M. Drachkovitch (a cura), The Revolutionary Internationals, Stanford Cal., Stanford University Press, 1966, pp.36‑56. Cfr.anche la lettera di Mazzini indirizzata a Londra a un gruppo di Cittadini, da Genova, aprile 1870 (Scritti editi e inediti, Edizione nazionale, LXXXIX, Epistolario LVI).

[9] E. Morelli, L'Inghilterra di Mazzini, Roma, Istituto Storico del Risorgimento Italiano, 1965, p.125.

[10] G. Mazzini, Ricordi autobiografici, a cura di M. Menghini, Imola, Galeati, 1938.

[11] A. Comba, Nota storica a G. Mazzini,in T. Grandi e A. Comba (a cura), Scritti politici, Torino, UTET, 1972, cfr. II, pp. 87‑90.

[12] G. Mazzini, Ricordi autobiografici, cit., p. 30.

[13] Cfr. C. Gentile, Giuseppe Mazzini uomo universale, Roma, Erasmo, 1972, p. 52.

[14] Ivi, p. 51.

[15] Sui rapporti diretti di Mazzini con le logge cfr. le lettere pubblicate in appendice a pp. ????? e la bibliografia degli scritti di Mazzini contenenti riferimenti alla massoneria curata da M. Novarino a pp. ???? (nota del curatore)

[16] Lettera a F. Campanella da Lugano, 7 settembre 1869, in Scritti editi e inediti, Edizione nazionale, LXXXVIII, Epistolario LV, pp. 169-170

[17] Scritti editi e inediti, Edizione nazionale, LXXXV, Epistolario LIII, pp. 89‑90.

[18] C. Gentile, Giuseppe Mazzini, cit., p. 129.

[19] Ivi, pp. 130,137, 146. Sulla trattativa con Campanella, in particolare ivi, pp. 117‑126.

[20] G. Carducci, Prose, Bologna Zanichelli, 1954, p. 1468

[21] C. Gentile, Giuseppe Mazzini, cit., pp. 27 sg

[22] Cfr. M. Novarino, All’oriente di Torino. La rinascita della massoneria italiana tra moderatismo cavouriano e rivoluzionarismo garibaldino, Firenze, FirenzeLibri, 2003.

[23] A. Comba, I repubblicani alla ricerca di un'identità , cit.

[24] G. Carducci, Poesie, Bologna, Zanichelli, 1955, pp. 493-495

[25] G. Pascoli, Poesie, Milano, Mondadori, 1940, pp. 422

[26] E. Gruber (P. Ildebrando Gerber S.J.), Giuseppe Mazzini, massoneria e rivoluzione, Roma, Desclée, 1908.

[27] E. Nathan, Giuseppe Mazzini, Libreria Editrice Moderna, Roma 1917, pp. 35 sg.

[28] Cfr. C. Gentile, Giuseppe Mazzini, già più volte cit. (su C. Gentile si veda la nostra commemorazione in “Hiram”, agosto 1984, p. 121 sg.).

[29] È un motivo che ritorna in tutto il volume di C. Gentile ma viene accentuato particolarmente nella parte conclusiva (pp. 146‑162).

[30] Scritti editi e inediti, Edizione nazionale, XCI, Epistolario LVIII, p. 9.

[31] Scritti editi e inediti, Edizione nazionale, LXXXIX, Epistolario LVI, p. 237.

[32] Scritti editi e inediti, Edizione nazionale, V, Epistolario I, p. 214.

[33] Se ne veda una scelta significativa nella Nota Bibliografica del vol. G. Mazzini, Scritti politici, cit., sotto il paragrafo Filosofia e religione, pp. 81 sgg.

[34] Da lui più volte, e con esplicito riferimento al suo trattato su, L’educazione del genere umano in Fede e avvenire (1835): cfr., G. Mazzini, Scritti politici, cit., p. 459 e nota 43

[35] G. Mazzini, Scritti politici, cit., p. 459 e nota 43

[36] Come venne messo in particolare evidenza da G. Salvemini, Il pensiero religioso politico sociale di G. Mazzini, Messina, Trimarchi, 1905. Ad approfondire il tema dell'influsso sansimoniano su Mazzini, Gaetano Salvemini tornò a pensare più volte, fino ai suoi anni più tardi (cfr. A. Galante Garrone, Salvemini e Mazzini, Messina‑Firenze, D'Anna, 1981, passim).

[37] Documento di eccezionale interesse in riferimento all'argomento di cui trattasi è la lettera scritta da Londra nel luglio 1868 a Giuseppe Moriondo a Torino (Scritti editi e inediti, Edizione nazionale, LXXXVI, Epistolario LIV, p. 139 sgg.).

Massoneria Italiana


"La libertà di pensiero è più forte della tracotanza del potere”

Giordano Bruno


Indice dei Capitoli dedicati all'argomento

In Calabria la prima loggia massonica italiana

L'influenza di Mazzini della massoneria italiana

La massoneria dopo lìUnità ed i suoi numerosi nemici


In Calabria la prima loggia massonica italiana

In Calabria la prima Loggia Massonica d’Italia

Nel Comune di Girifalco (CZ) 1723, appena sei anni dopo la nascita di quella londinese: lo attesta inequivocabilmente un documento del 1845 di Rocco Ritorto.

E' ciò che accade, quando si procede a ritroso nel tempo e si cerca attraverso i riscontri documentali di dare ordine - vedi l'ordine di fondazione delle Logge. Accade cioè che ad un certo punto esce fuori un documento, una traccia scritta, un appunto, che rimettono in discussione un ordine che si pensava fissato. E' ciò che questo scritto documentale sembra mettere in discussione, e che speriamo ulteriori studi e ricerche chiariscano.
Sembra inverosimile che il verbo della Massoneria speculativa o moderna, fondata a Londra il 24 giugno 1717, sul ceppo di quella operativa, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, abbia avuto come primo approdo, oltre i confini della Gran Bretagna, un paese della Calabria ionica: Girifalco, in provincia di Catanzaro.

Eppure è inequivocabilmente documentato da cinque paginette scritte a penna, un secolo e mezzo fa, dai margini bruciacchiati, ma chiaramente leggibili.
In tali paginette è tracciato il verbale del rinnovo delle cariche con relativo elenco dei votanti, risultato della votazione e altre indicazioni, tra cui una cosiddetta “frase commune”: FIDELITAS, che si presume fosse l’intestazione della Loggia.
Tale rinnovo avvenne nell’anno “1845 di numero centoventiduesimo dalla fondazione di essa a Girifalco ovvero l’anno 1723 sotto degnissima direzzione di S. A. il Duca di Girifalco del nobilcasato de’ Caracciolo di Napoli”.
La fondazione di questa Loggia sorprende per una serie di motivi.
Il primo è da ravvisare nel lasso di tempo (sei anni) intercorso tra la costituzione della Gran Loggia inglese e l’erezione della Loggia girifalchese.

Nella nostra epoca in cui si comunica da un continente all’altro in tempo reale, sei anni di tempo sono un’eternità.
Ma per quell’epoca era tutt’altra cosa.
Trattandosi, poi, non di notizie di cronaca, bensì di concezioni ideali proponenti scelte, modelli di vita, per maturare, venire assimilate, trovare accoglienza e proseliti, sei anni sono da considerarsi ancora oggi un periodo molto limitato, senza contare che la Loggia di via Maggio di Firenze, ritenuta la prima Loggia massonica d’Italia, fu fondata dal duca irlandese Carlo Sackville di Meddlessex, dieci anni dopo quella di Girifalco.
Sorprende il luogo, Girifalco, paese antico, ubicato nell’entroterra della costa ionica catanzarese, nel tratto più agevole per valicare il dorsale montuoso della regione, essendo la parte più stretta e meno accidentata di cui, nei tempi andati, approfittarono carovane di commercianti ed eserciti, ma pur sempre con minori vocazioni esoteriche di tanti altri centri calabresi e d’Italia, oltre che dell’Europa.
Sorprende, ancora, per lo stato di grande arretratezza non solo economica e strutturale, ma anche culturale, in cui stagnava la Calabria (e non era la sola), dopo secoli e secoli di dominazione straniera, aggravata dalla dinastia dei Borbone che, salvo qualche eccezione, si distinse per sciatteria ed ignoranza (uno di loro, Ferdinando II, disprezzava gli intellettuali che, spregiativamente, chiamava “pennaruli”).
Sorprende, infine, per il fatto che, come osservava il letterato massone Giovanni Giacomo Casanova, che ebbe modo di visitare questa parte della Penisola proprio nel ‘700, lasciandoci le sue impressioni, lo stato sociale della regione era degradato, i contadini erano oppressi dal potere feudale e soffocati da una economia arretrata.

“Al lento risorgimento del Mezzogiorno - scrive, infatti, Antonio Piromalli nella sua “Letteratura Calabrese” (vol. I, pp. 182/183) -, degli ultimi decenni del Seicento la Calabria non partecipa perché i mali tradizionali si perpetuano e sopravvivono nel primo Settecento.
Anche quando la Calabria passa ai Borboni (1734) le grandi famiglie feudali continuano a mantenere il loro dominio pur se la crisi feudale ha indebolito il baronaggio. (...)
Il popolo restava avvilito e ancora di lì a cento anni resterà avvilito e presterà voce all’armata del cardinale Fabrizio Ruffo, la nobiltà rimaneva ancora incivile, il clero ignorante perché la miseria e la fame dominavano ma delle crepe si venivano aprendo nell’ordine antico e cominciavano ad avere spicco per l’individualità, sia pure bizzarra, spiriti vivaci e anticonformisti”.

E “spiriti vivaci e anticonformisti”, in qualche misura si può dire che furono i Caracciolo di Girifalco che tennero in feudo il paese per poco meno di due secoli (1624-1806), impregnando l’ambiente del loro modo di essere che, alla luce dei fatti, trascendeva lo stato di subalternità dei sottoposti, per porsi in una posizione di rispetto, oltre che di fiducia, della loro identità sociale ed umana, atteggiamento da considerare rivoluzionario per quel tempo, che dimostra proprio la fondazione della Loggia, considerato che i principi e le finalità della Libera Muratoria erano e sono l’esatto contrario della visione etica e sociale dei padroni, per i quali esisteva ed esiste solo la propria libertà, o meglio, il proprio libero arbitrio, ritenendo l’uguaglianza e la fratellanza un’eresia.

D’altra parte, i Caracciolo si distinsero proprio per l’assenza di sintonia con l’apparato aristocratico del loro tempo, arroccato in una superiorità di classe netta, intoccabile, dogmatica.
Lo dimostrò non soltanto quel Gennaro che introdusse la Massoneria nel suo feudo di Girifalco, ma, in particolare, quel Francesco (1752-1799), Commodoro di re Ferdinando I di Borbone, notoriamente massone, finito appeso, nel porto di Napoli, all’albero maestro della Minerva per ordine di Nelson, reo di avere sposato la causa repubblicana.

E’ da riconoscere che, senza l’atteggiamento anticonformista dei Caracciolo, difficilmente, a Girifalco, si sarebbe creata quella fascia di borghesia libertaria, solo marginalmente sostenuta dal cosiddetto popolo basso non in grado di percepire i valori libertari, borghesia che non si piegò alla tirannia nemmeno quando la forca del Borbone consumò l’olocausto di alcuni suoi componenti di spicco: Raffaele Tolone, dottore fisico; Pier Antonio Maccaroni, notaio, Vincenzo Luigi Zaccone, notaio; D. Vitaliano Staglianò, sacerdote; Vincenzo Migliaccio, dottor chimico, impiccati in una piazza a Napoli nel 1801, per aver partecipato alla cacciata dei Borbone nel 1799.
La storia di Girifalco è disseminata di atti libertari e patriottici che furono pagati a caro prezzo dalla famiglia Tolone in particolare che, a seguito dell’impiccagione di Napoli di cui sopra, ebbe a subire la confisca dei beni e una serie di angherie, come racconta uno dei suoi membri, Rocco Tolone, che lasciò un documento scritto a memoria dei discendenti, da cui si apprende che la persecuzione fu talmente ferina contro questa famiglia, da ridurre l’autore del racconto a dover fare lo “scarparo” per sopravvivere.
Le tragedie e i drammi, però, non piegarono i Tolone che rimasero saldi nei loro principi ed ideali, tramandati da generazione in generazione, di cui l’avv. Mario Tolone Azzariti, prestigioso discendente, ne è espressione vivente.

La Citta del Sole – anno IV nr.2 Febbraio 1997