Eroismo partigiano (a guerra finita !)

Gi Eroi Partigiani - maggio 1945 !
Testimonianza tratta da "Carità e Tormento"
Memorie di una Crocerossina - Antonia Setti Carraro - Mursia edit. 1982 - pag 273, 278. 295 - 296
Torino - primi di maggio 1945
"Accanto al reparto dei feriti e congelati della divisione, vi era una stanzetta dove un Tenente della X Mas, ferito alla colonna vertebrale e completamente paralizzato dalla vita in giù, se ne stava isolato assieme alla madre. Era di Trieste e la madre lo curava già da parecchio tempo. Non aveva che quel figliolo. Un pomeriggio che ricorderò sempre come un incubo, quattro partigiani armati irruppero in quella stanzetta, afferrarono quel povero corpo martoriato, lo presero due per le ascelle e due per i piedi e cercarono di portarlo fuori dal locale.Nessun medico, nessun infermiere, nessuna sorella cercò di fermarli. La madre intuì ogni cosa e si gettò, urlando sul figlio e con la forza della disperazione lottò per stapparlo a quei violenti. Dritta sulla soglia della stanzetta, a braccia aperte, tentava di impedire il passaggio del corpo del figlio picchiando a pugni chiusi chi lo trasportava, difendendo disperata la sua creatura. Era tremendamente sola. La colpirono con un pugno tra gli occhi ed egualmente la donna, perdendo sangue dal naso, si batteva con la forza di un leone; a quel punto si gettò a terra tra le gambe di quegli uomini e allora uno di questi la prese per i capelli e la trascinò per la corsia. La donna perdeva ciocche di capelli, ma continuava a dibattersi non cessando mai di invocare aiuto. Poi rialzatasi di colpo, si getto nuovamente sul corpo del figlio che veniva continuamente strattonato qua e là ed era ormai seminudo, con le medicazioni pendenti dalla ferita riaperta. Il tenente non aprì mai la bocca, solo allungò una mano e strinse quella della madre ricoperta di sangue. Sempre silenziosamente prese ad accarezzare quella povera mano e poi se la portò alle labbra. Trovava ancora la forza di tacere. Fu trascinato davanti ai letti dei soldati (...). Ora gli urli della donna non avevano più nulla di umano. Il triste corteo passò il cortile seguito dagli occhi di decine di persone senza che nessuno intervenisse o sbarrasse il passo a chi trasportava quel ferito. All'uscita dell'ospedale un gruppo di persone fece cerchio attorno a quei quattro che ora cercavano invano di far entrare il ferito in un camioncino sporco ed ingombro di oggetti. Ma non vi riuscivano. Allora con un moto di stizza e di rabbia buttarono a terra quel corpo martoriato e scaricarono su di lui i loro mitra. Spararono tutti e quattro assieme. Per ore nelle nostre orecchie risuonò martellante l'urlo della povera madre”.

Cefalonia - La prima Resistenza

Cefalonia la prima Resistenza

Articolo pubblicato da LA STAMPA - settembre 2007
di Alfio Caruso

Fra il 13 e il 14 settembre 1943 i militari della Acqui di stanza nei tanti presidi di Cefalonia vennero convocati dai loro comandanti per decidere sull’ordine del giorno appena diramato dal quartier generale della divisione. Si votava per avanzata di passo. Il primo punto affermava: chi vuole combattere assieme ai tedeschi, faccia un passo avanti e nessuno lo fece. Il secondo punto affermava: chi vuol cedere le armi faccia un passo avanti e circa millecinquecento lo fecero. Di conseguenza fu stabilito che era inutile esprimersi sul terzo punto (chi vuol tener le armi?): la stragrande maggioranza di soldati, graduati e ufficiali non voleva saperne di cedere all’aut aut diramato da Hitler attraverso il generale Lanz.
Così in una notte stellata 11.700 italiani, ignari da vent’anni di che cosa significassero libere elezioni, furono costretti a scegliere tra la vita e l’onore. Malgrado il caos, malgrado l’assenza di ordini precisi, malgrado l’angosciante silenzio delle stazioni radio, non ebbero dubbi : captarono che per aiutare la patria a voltar pagina bisognasse pronunciare quel no al tedesco. Anticiparono nei fatti il famoso invito di Kennedy : non stettero a chiedersi che cosa l’Italia poteva fare per loro, bensì che cosa ciascuno di loro poteva fare per l’Italia. Cominciarono così l’epopea e il martirio della Acqui. Sono occorsi quasi sessant’anni prima che il Paese, con Ciampi, tributasse il giusto onore a questi ragazzi (l’età media dei circa 9400 morti era di 24 anni, 1500 erano addirittura del 1922, duecento del 1923). E da ieri dobbiamo dire grazie a Giorgio Napolitano per aver finalmente sancito una verità elementare: la resistenza al tedesco s’iniziò a Cefalonia per l’impegno di tantissimi ufficiali dai sentimenti monarchici, pronti a morire gridando «Viva il Re», «Avanti Savoia», a volte, purtroppo, anche «Viva Badoglio». Con essi s’immolarono diversi militari fascisti e altrettanti comunisti. Tutti assieme si riconobbero in un ideale assai semplice : l’Italia. (…)

Gli internati in Germania

GLI INTERNATI IN GERMANIA, UNA PAGINA DIMENTICATA
Lettera a Sergio Romano e risposta dell’Ambasciatore
su Il Corriere della Sera del 16 aprile 2009

Caro Romano, ho letto la sua risposta alla lettera riguardante i militari italiani prigionieri negli Usa (Corriere, 7 aprile), e vorrei porle una domanda: perché non si parla se non rarissimamente dei militari come mio padre, che l'8 settembre fu fatto prigioniero dai tedeschi (nel caso specifico era nella marina militare a Pola) e tenuto prigioniero per due anni, obbligato a lavorare in condizione di schiavitù vicino al fiume Oder e poi a Berlino, per i quali inoltre non è previsto alcun indennizzo da parte del governo tedesco? Ho tutti i documenti delle sue vicissitudini e, inoltre, girando l'Italia, non ricordo di aver visto monumenti ai soldati stranieri di qualsiasi nazionalità uccisi in combattimento per la nostra liberazione, né ho notizia di commemorazioni nei loro confronti.
Ho l'impressione che i due argomenti che ho affrontato anche in normali discussioni diano quasi noia. L'Italia pare sia stata liberata solo dai partigiani per i quali le commemorazioni sono sempre presenti e i militari come mio padre (che riuscì poi a scappare dai tedeschi mentre i russi stavano avanzando in Polonia e fu poi catturato
dagli americani, rimpatriato e reinquadrato nella marina militare) siano quasi un incidente di percorso.
So da notizia pubblicata proprio sul Corriere che sarà istituita una commissione europea per scrivere la storia di questi militari, circa 600 mila, per i quali non esiste se non molto lacunosa una memoria storica attendibile.

Enrico Novello

Risponde Sergio Romano

Caro Novello,
Lei vorrebbe che agli internati militari italiani in Germania (come furono definiti dal governo tedesco) venisse prestata un'attenzione non troppo diversa da quella riservata ad altre vittime del Novecento: gli armeni, gli ucraini della grande carestia sovietica, i “nemici del popolo" della Russia staliniana, gli ebrei della "soluzione finale", le popolazioni cacciate dalle loro case in Germania, in Polonia, in Istria, nel Baltico, nel Caucaso, nella penisola balcanica.
Ho già scritto in altre occasioni che questa corsa alla memoria è per molti aspetti la conseguenza del modo in cui le comunità ebraiche sono riuscite a ottenere che il tema della Shoah continuasse a dominare l'agenda della memoria universale.

Esiste ormai una gerarchia dei lutti, una graduatoria delle sofferenze in cui le vittime
meno ricordate aspirano a una maggiore visibilità. Continuo a pensare che questa macabra gara della memoria presenti, per la convivenza fra i discendenti delle vittime, più rischi che vantaggi.
E mi ha fatto piacere leggere in un breve libro di Marta Dassù, apparso ora presso Bollati Boringhieri ("Mondo privato e altre storie"), che “dimenticare è importante. Non per rimuovere. Per superare odi troppo antichi".
È vero, tuttavia, che la storia degli internati militari in Germania è stata per molto tempo trascurata. Conoscevamo il loro numero: Furono queste le ragioni per cui gli internati finirono in una sorta di limbo della memoria. Qualcuno scrisse i suoi ricordi o documentò la prigionia con i suoi disegni, ma l'Italia ufficiale preferì parlare della Resistenza e della sua epopea. Il ghiaccio fu rotto da Alessandro Natta, segretario generale del Partito comunista dal 1984 al 1988. In un convegno che si tenne a Firenze nel maggio del 1991 parlò della propria esperienza di internato, ricordò i suoi compagni di circa 600 mila. Sapevamo con quali pressioni i tedeschi e i rappresentanti della Repubblica sociale avevano cercato d'indurli a cooperare con il nuovo regime di Mussolini. Sapevamo che la grande maggioranza aveva tenacemente rifiutato e che tra questi vi erano persone molto note come Giovanni Guareschi, Giuseppe Ansaldo e Giuseppe Novello, uno dei più acuti e brillanti disegnatori umoristici del Novecento. Ma nessuno dei tre era gradito alle sinistre e, per di più, molti di coloro che rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale sostennero
di considerarsi legati dal giuramento di fedeltà al Re.

Furono queste le ragioni per cui gli internati finirono in una sorta di limbo della memoria.
Qualcuno scrisse i suoi ricordi o documentò la prigionia con i suoi disegni, ma l'Italia ufficiale preferì parlare della Resistenza e della sua epopea. Il ghiaccio fu rotto da Alessandro Natta, segretario generale del Partito comunista dal 1984 al 1988. In un convegno che si tenne a Firenze nel maggio del 1991 parlò della propria esperienza di internato, ricordò i suoi compagni di prigionia e rivelò di avere descritto quelle vicende in una riflessione-testimonianza del 1954 che la casa editrice del suo partito, allora, non aveva ritenuto opportuno pubblicare.
Il suo libro apparve nel 1997 presso Einaudi con il titolo "L'altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania" e una prefazione di Enzo Collotti.
Ebbe il merito di rendere pubblica una storia che era stata sino ad allora soprattutto
privata. Più recentemente abbiamo letto, tra l'altro, i ricordi dell'avvocato Odoardo Ascari pubblicati da Nuova Storia Contemporanea e quelli di Giovanni Giovannini, giornalista e presidente della Federazione italiana editori, pubblicati da Scheiwiller nel 2004 ("Il quaderno nero - settembre 1943, aprile 1945").
Nel suo ultimo lager, accanto al lago di Costanza, Giovannini cadde malato e fu curato da una studentessa di medicina ucraina. Ne nacque un idillio e i due giovani amanti, divisi al momento della liberazione, si dettero un appuntamento.
Ma al luogo fissato per l'incontro la giovane Larissa non apparve mai.
La spiegazione venne quando Giovannini apprese che i cittadini dell'Urss, con l'aiuto
degli anglo-americani, erano passati dai campi di concentramento tedeschi a quelli sovietici. Come vede, caro Novello, nella graduatoria delle tragedie ve n'è sempre una peggiore.

La Battaglia di Monte Lungo

La Battaglia di Monte Lungo

8 dicembre 1943, in località al confine fra Campania e Lazio, a sud di Cassino, vede il “battesimo del fuoco” del risorto Regio Esercito Italiano con la formazione del Primo Raggruppamento.
L’unità era stata costituita il 28 settembre 1943 con il 67° Reggimento fanteria, l’11° Reggimento artiglieria, il 51° Battaglione bersaglieri, il 5° Battaglione controcarri, la 51a compagnia mista del genio, con aggiunta di carabinieri, sanità militare e servizi: un nucleo di 5.000 uomini al comando del Generale Umberto Utili.
Dopo essere stati passati in rassegna in novembre da Vittorio Emanuele III sulla strada di Brindisi, accolti ovunque festosamente dalle popolazioni locali, l’8 dicembre 1943 il Primo Raggruppamento andava all’attacco di una munitissima posizione tedesca su Monte Lungo.
Solo a prezzo di alti sacrifici, fra lo scetticismo e a volte anche l’ostilità degli Anglo-Americani, dopo diversi giorni di combattimento, la posizione è conquistata.
Scriverà il gen. Utili : ”….il combattimento di Monte Lungo per il suo valore ideale appartiene non alla cronaca, ma alla Storia d’Italia… poiché esso permise che si diffondesse nel mondo la notizia che, per la prima volta, nella seconda guerra mondiale, i soldati italiani si battevano a fianco dei soldati alleati e si battevano con impeto e saldezza”
Nei ricordi dei testimoni l’unica presenza di incoraggiamento e di conforto era quella di Umberto di Savoia, che non verrà da quel momento mai a mancare ai nostri reparti nella campagna d’Italia : Egli in quei giorni si offrirà volontario per un volo di ricognizione sulle linee tedesche, missione che eseguì con competenza e sprezzo del pericolo tanto da essere proposto per la decorazione della “Silver Star” da parte del Comando americano.
Sulle pietraie di Monte Lungo Casa Savoia e il popolo italiano rinnovarono quel patto di concordia, che avrebbe posto le basi per il nuovo risorgimento della Patria.

Comunicazione dei Reali Carabinieri di Bari

LEGIONE TERRITORIALE DEI CARABINIERI REALI BARI
GRUPPO DI BARI

N. 75/49 di prot. Segreto Bari 14 settembre 1943

OGGETTO: Segnalazione.

AL COMANDO DELLA 7^ ARMATA P.M. 107
AL COMANDO IX CORPO D'ARMATA P.M. 67
AL COMANDO TERR. DEL IX C. D'ARMATA BARI
AL COMANDO GENERALE DELL'ARMA CC.RR. ROMA
AL COMANDO 3^ DIVISIONE CC.RR. "OGADEN" in BENEVENTO
AL COMANDO 5^ BRIGATA DEI CC.RR. NAPOLI
AL COMANDO DELLA LEGIONE CC.RR. BARI
ALLA REGIA PREFETTURA DI BARI
ALLA REGIA QUESTURA DI BARI

Seguito segnalazione 75/20 di prot. segreto dodici andante recatomi pomeriggio ieri
Barletta ho accertato che serata undici corrente provenienti da Andria et Corato
dirigevansi quell'abitato cinque carri armati due autocarri et tre motocicli tedeschi
energicamente fronteggiati nostre truppe che immobilizzavano quattro carri armati
distruggendo autocarri et motocicli et catturando un carro armato efficiente et venti
militari.
Reparto tedesco ripiegava ma mattina dodici seguente Presidio Barletta veniva
nuovamente attaccato colonna composta sette carri armati due batterie autotrasportate
quaranta autocarri carichi truppa tutti armati mitra et fucili mitragliatori. Dopo violento
combattimento appoggiato da tre apparecchi bombardamento et un ricognitore tedeschi,
forze avversarie impossessavansi abitato cui anche qualche civile concorreva resistenza.
Popolazione lamenta quaranta morti et numerosi feriti.
Imprecisate le perdite militari ritenute elevate. Fucilate dodici guardie municipali uno
spazzino et un inserviente comune che opponevansi invasori. Danneggiati da artiglierie
nemiche Casermette, Semaforo, Magazzino Portuale, Palazzo postale, Banca Italia,
Edificio Set, Stazione ferroviaria parzialmente incendiata. Svaligiati diversi negozi
oreficeria due negozi apparecchi radio due rivendite sali e tabacchi una farmacia.
Catturato intero nostro presidio circa duemila uomini con pressoche' tutti ufficiali
compreso comandante compagnia Arma avviati verso Foggia.

IL T. COLONNELLO COMANDANTE
(Luigi Geronazzo)


Fonte :
"La Resistenza di un soldato Da Barletta allo Stalag 367" Diario del Colonnello Grasso

La Resistenza sconosciuta - Barletta 1943

Barletta, 12 settembre 1943

I tedeschi entrarono a Barletta il 12 settembre con 400 uomini della divisione "Goering" ed un reparto di SS, guidate dal capitano Brunn. Bisognava riportare ordine e per farlo occorreva un esempio. Un manipolo di soldati tedeschi fu incaricato di scovare i responsabili della morte dei due di Piazza Roma. In tre si recarono presso l'Ufficio Centrale dei Vigili, probabilmente convinti che li' qualcuno conoscesse i nomi di colpevoli dell'agguato ai tedeschi del giorno precedente. Non tutti in Italia dopo l'8 settembre erano rimasti a casa. Il maresciallo dei vigili, Francesco Capuano, prima che i tre tedeschi facessero il loro ingresso, ordino' ai suoi uomini di liberarsi delle pistole di ordinanza per evitare qualsiasi rappresaglia. Con loro ci sono pure due netturbini rifugiatisi nell'ufficio... I Vigili Urbani pagheranno con la vita il loro senso del dovere... (la prova che furono eroi e non vittime casuali ce la da il T. Colonello della Legione Territoriale dei Carabinieri Reali di Bari - Gruppo di Bari: "Fucilate dodici guardie municipali uno spazzino et un inserviente comune che opponevansi invasori....")

Vengono messi contro il muro dell'edificio che ospita la direzione delle Poste. Nell'ordine da sinistra ci sono i vigili Antonio Falconetti, Pasquale Del Re, Luigi Gallo, Vincenzo Paolillo, Gioacchino Torre (assunto quaranta giorni prima), gli spazzini Luigi Jurillo e Nicola Cassatella e poi ancora i vigili Pasquale Guaglione, Michele Spera, Francesco Gazia, Sabino Monteverde, Michele Forte e Francesco Falconetti. Il maresciallo lo lasciano andare... Venne scattata la foto documentale, quindi fu sparata la prima raffica di colpi. Feriti in modo piu' o meno grave, i tredici martiri, si strinsero l'uno all'altro per cercare una futile protezione. La seconda raffica di colpi, pero', non lascio' nessun superstite. Almeno in apparenza. Sotto il cumulo di cadaveri, infatti, il giovane vigile urbano aggiunto Francesco Paolo Falconetti, era ancora vivo. Ad accorgersene fu una donna, Addolorata Sardella, che aiutata da altre persone riusci' a portare al sicuro il ferito... I segni di quell'infausto giorno sono ancora visibili, nel muro sinistro dell'Ufficio Postale. I buchi lasciati dai proiettili, non sono mai stati ricoperti in perenne ricordo di quel tragico avvenimento.














Fonti :


"8 settembre 1943 - L'armistizio a Barletta" di Maria Tarantino Grasso
"La Resistenza di un soldato Da Barletta allo Stalag 367" Diario del Colonnello Grasso
"Famiglia Cristiana" n. 44 dell'11 novembre 1973

La Guerra di Liberazione ed i partigiani

La guerra di Liberazione ed i partigiani


Indice dei capitoli dedicati all'argomento



Personaggi
Edgardo Sogno (1915 - 2000)
Edgardo Sogno - Ricordo dell'eroe di Franco Malnati

Ricordi di un comandante partigiano

I ricordi di Giacomo Bartoli detto Mino
Lettera del Comandante Giacomo Bartoli (Mino) uno dei più valorosi comandanti partigiani della bergamasca.
Ferito alla testa, di cui restano i ricordi con alcune schegge nella testa e decorato dagli Alleati per le sue imprese così ricorda la resistenza :

“Il Generale Cadorna comandante del CVL, molto prima che finisse la Seconda guerra mondiale, aveva messo in guardia gli alleati, per le mire palesi dei partigiani comunisti, i cosiddetti garibaldini, di usare le armi degli aviolanci per una rivoluzione avente lo scopo ci conquistare il potere, e consegnarla a Stalin. Per propaganda del PCI, la guerra partigiana doveva essere un’esclusiva del partito.
E poiché le formazioni di altro colore rappresentavano una concorrenza che doveva essere evitata, i comandanti garibaldini avevano ricevuto l’ordine di farle passare dalla loro parte con le buone o con le cattive. E così molti partigiani che si erano opposti, vengono fucilati come avvenne soprattutto in Emilia Romagna, nel Friuli, in Piemonte ed in Liguria. Per il PCI, l’Esercito italiano di Liberazione che dopo l’otto settembre 1943 si era formato nell’Italia meridionale combattendo a fianco degli Alleati per quasi due anni con moltissimi caduti, era arrivato al nord come il maggiore concorrente.
Ma nell’impossibilità di eliminarlo, venne cancellato dalla storia, per cui la ricorrenza del 25 aprile è rappresentata solo dallo sbandieramento di labari rossi e non rappresenterà mai una riappacificazione fra gli italiani.
Che cosa accadeva ?
Che gli alleati, per evitare il più possibile le proprie perdite, per “liberare” una zona o una città, ricorrevano ai bombardamenti, e solo dopo alcuni giorni, sicuri che i fascisti e tedeschi si fossero ritirati verso nord, prendevano possesso dei centri abitati. Ma in quel breve lasso di tempo, i partigiani erano scesi dalle montagne ad occuparli. A questo punto la propaganda del PCI entrava immediatamente in funzione, affermando che quelle località erano state liberate dalle loro truppe. Così, per moltissimi anni, l’Esercito italiano di Liberazione rimase quasi completamente in ombra e solamente in questi ultimi tempi ha ricevuto un timido riconoscimento.”

Storia in Rete No. 41 del marzo 2009, pag. 96

Il Partigiano scomodo - Giacomo Bartoli

Giacomo Bartoli (Mino) il partigiano scomodo
di Rebato Farina

Detto Mino, Bartoli, classe 1920. La sua è una storia bellissima: quella di un uomo coraggioso. Un ingegnere. Comandante partigiano alla testa di duecento uomini, sciatori provetti nelle alte valli orobiche. Ma è anche una storia bruttissima: quella di un'Ita lia fasulla, la quale ha discriminato (...) (...) e perseguita ancora un grande comandante partigiano, ma anticomunista. Perciò emarginato, trattato da bugiardo, osteggiato, senza medaglia e senza inviti a parlare il 25 aprile.

Bartoli, detto Mino, il terzo da sinistra, nel Marzo del 1945

La sinistra compatta, con i suoi alleati ex democristiani, ha inflitto di recente l'ultima ingiuria a questo antico signore. Il sindaco di Bergamo, Roberto Bruni, ha inflitto al Bartoli l'ultima umiliazione alcuni mesi fa. Nonostante non ci potessero essere più dubbi sul suo eroismo (a differenza dei comunisti che a Bergamo non c'erano sulle montagne), nessun riconoscimento, niente, zero. Nessuno stupore da parte di Bartoli, il quale ricorda che Bruni, per essere eletto nel
2004, ha chiesto e ottenuto appoggio contemporaneamente dall'Anpi (partigiani comunisti, capeggiati da «un presidente che non ha mai fatto il partigiano»), dai centri sociali e - ahimè - dalla Curia.

Truffa Costante
Non è stata una dimenticanza. Il consigliere leghista Daniele Belotti lo ha proposto, stavolta con in mano carte riservate e decisive che ne attestano l'eroismo. Figuriamoci. Ora rimedia il Comune di Caravaggio: il sindaco Giuseppe Prevedini lo premierà. Ma che tristezza questa truffa costante, la menzogna storica insegnata ai ragazzini sulla resistenza. Quando scende dalle montagne, il 25 aprile del 1945, Bartoli è allegro. Festa dovunque. Vede in giro gente che ha fatto niente o quasi, salvo mostrarsi all'ultimo momento per eliminare nemici personali o per far fuori la classe dirigente antifascista sì ma non comunista. Bartoli impedisce delle esecuzioni sommarie. È sgomento per le stragi di Urgnano; per quella di 43 ragazzini di Rovetta, sedicenni o poco più appena inquadrati come "legionari" di Salò : fucilati dopo che era stata loro promessa la vita.

In tutti questi anni non ha mai voluto intervenire alle celebrazioni della Liberazione, impostate com'erano sulla menzogna storica. Si era reso conto di come i bravi ragazzi delle formazioni garibaldine fossero stati indottrinati e addestrati per eliminare più ancora che fascisti e nazisti i possibili futuri antagonisti. Bartoli racconta di come mise insieme i suoi soldati: campioni di sci e di atletica, lo elessero capo. Erano di Giustizia e Libertà. Si intitolarono "Cacciatori delle Alpi 2° Dio sciatori", secondi solo a Dio. Alpini.
Erano pieni di allegria. La loro prima azione per procurarsi armi produsse la cattura di dodici fascisti. Questi pensavano di essere fucilati. Invece dopo averli trascinati in montagna, Bartoli li
congedò con una stretta di mano. Saltavano dalla gioia, non ci credevano.

Poi la guerra si fece tremenda. Mai azioni che potessero causare rappresaglie nelle valli. Sempre esposti in prima persona, a volte con baldanza temeraria. Si rese conto, il Bartoli, che dovevano fronteggiare anche assurdità. Un commissario politico garibaldino fu condannato a morte perché impose il saluto militare invece del pugno chiuso. Bartoli fu catturato in via De Togni a Milano, nel deposito d'armi di Giustizia e Libertà, a causa di una soffiata (il sospetto è
siano stati i "rossi")
. Scappa, ma è ferito. Non lo finiscono perché credono sia utile a fornire notizie. Fugge dall'ospedale quando stanno per fucilarlo. Una fuga incredibile. Scappa con il suo compagno Cerea, tutto ingessato. Lo tiene per le gambe e quello cammina con le mani, come un muratore con la carriola. Chiedono invano soccorso a un prete, che scappa a gambe levate, alle suore, che sbattono loro la porta in faccia. Li accolgono le infermiere.

Ritornano in montagna. Ci sono partigiani specialisti nel quieto vivere. Non fanno nulla. Stanno calmi, in attesa di beneficiare del post fascismo. Bartoli scrive una lettera al comandante generale durissima. Finiva così: «... è facile fare la resistenza stando in albergo e criticare chi rischia!».

Questa missiva è sparita dagli archivi della Resistenza. Ovvio. Invece il comandante Mino e i suoi lottano. Impediscono la distruzione degli impianti idroelettrici della Val Brembana. Non hanno mai agito con violenza gratuita. Non hanno accettato compromessi coi nazisti. C'è una testimonianza di alcuni anni fa di Giulio Questi : «Ho fatto parte della "Cacciatore delle Alpi". Bartoli è stato il mio comandante. Un comandante straordinario. Non ha mai dato un ordine. I suoi comandi erano sempre proposte sorridenti. Faceva sembrare ragionevoli cose pazzesche. In montagna aveva una bella camminata, morbida ed elegante.
Noi ragazzi gli andavamo dietro pieni di fiducia. Non ci ha mai deluso. L'ho visto la settimana scorsa per la prima volta dopo quarant'anni anni. Sorridente: era ancora lui».


Senza Onori
Dunquenessun riconoscimento, nessun attestato. Intanto una ricercatrice, Grazia Spada, nipote di uno dei ragazzi ammazzati a Rovetta, vuol sapere di più sulla lotta partigiana nella Bergamasca. Lavora negli archivi di Londra. Nell'incartamento HS 6/865, intestato "Mission Homestead" trova una relazione ufficiale firmata dal comandante britannico R. H. Pearson, che aveva monitorato con severità la nostra Resistenza. Scrive su Bartoli inquadrandolo così: «Ranieri, alias Bartoli, il Comandante, è molto giovane, ma sa come ispirare i suoi uomini e farsi amare da loro, dando un esempio di comportamento coraggioso e di sprezzo del pericolo, e di autostima. Ha una figura elegante, con l'aria di un sognatore, ed è stimato come uomo giusto, generoso e difensore della libertà. Può essere ben descritto con la formula con cui i suoi uomini gli si rivolgevano: "Comandante, portaci a morire"».


Il sindaco ha visto, le sinistre hanno letto. Zero, non merita niente, anche se è di certo il bergamasco che più ha contribuito alla liberazione di Bergamo. Qualcuno ha protestato per questo furto. Ma il sindaco Bruni ha dichiarato all'Eco di Bergamo : " Sono polemiche da cortile..."

Personaggi Storici - Indice generale

Personaggi Storici - Indice generale


Massimo d'Azeglio 1798 - 1866

Enrico Besana 1813 - 1877

Guglielmo Oberdan 1858 - 1882

Quintino Sella
  - La scrivania di Sella, 25 giugno 1873

Cesare Battisti 1875 - 1916

Nazario Sauro 1880 - 1916

Italo Balbo 1896 - 1940

Dino Grandi 1895 - 1988

Carlo Fecia di Cossato 1908 - 1944

Carmelo Borg Pisani 1915 - 1942

Edgardo Sogno 1915 - 2000

Amedeo Guillet 1909 - 2010

Il ventennio Fascista

Il ventennio Fascista


Indice dei Capitoli dedicati all'argomento



Come orientarsi con l'odierna storiografia riguardante il periodo

- Una bufala pre-confezionata : Mussolini spia degli Inglesi

- La denuncia della bufala : A proposito della spia Mussolini

L'Ascesa al potere di Mussolini ed il regime
- Il Fascismo nacque violento ?
- La svolta sul finire del 1920
Articolo Corriere della Sera - 19 settembre 1920 (La svolta)

Articolo Corriere della Sera - 16 ottobre 1920 (Il Limite)
Articolo Corriere della Sera - 24 novembre 1920 (Un responsabile)



- Generalità : L'avvento del Fascismo
- Ci impedirono di chiudere la porta al Fascismo (di Ivanoe Bonomi)
- Il Gran Consiglio del Fascismo
- Il Duce in guerra contro i gerarchi
- la seduta del Gran Consiglio del 24 luglio 1943
- l'Ordine del Giorno di Dino Grandi
- le dimissioni del Duce e le conseguenze
- La bufala dell'arresto di Mussolini (di Franco Malnati)

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- Che fine ha fatto Carlo Sforza ? Lettera del Giorno del Corriere della Sera

- Colonialismo all'italiana  Lettera del Giorno del Corriere della Sera

- I progetti del Duca d'Aosta in favore degli Ebrei


Personaggi dell' Epoca (in preparazione)

Mussolini
Graziani
Italo Balbo
Dino Grandi
Ciano
Lettere e diario di Ciano - No alla Guerra del 1938

La Seconda Guerra Mondiale

Indice dei capitoli dedicati all'argomento


No alla guerra Vittorio Emanuele III di Savoia

No alla guerra della Regina Elena di Savoia

Il Diario di Ciano : No alla guerra

1940 - La pugnalata alla Schiena dei francesi ?

1940 - Non ci fu pugnalata !

Giugno 1940 - Bombardamento di Genova e Savona

1940 - Il tradimento di Churchill !

Battaglia di Culqualber - Africa Orientale Italiana

El Alamein, in ricordo di tutti i soldati

Insbuscenskij : L'ultima carica nella steppa russa

Luoghi Comuni sulle Forze Armate italiane

8 settembre - Le bugie dalle gambe corte

l'8 settembre secondo il Generale Von Senger
Articolo di Francesco Bottone - 8 settembre 1943
Articolo di Riccardo Scarpa - La costituzione e la monarchia (relativo all'8 settembre 1943)

Carteggio Segreto Churchill - Mussolini : Verità o fantasia?

Articolo di Matteo Sacchi - 15 gennaio 2014 -
Le lettere tra un capo partigiano e una spia confermanol'esistenza del compromettente documento

Cefalonia : Le Forze Armate stanno a guardare

I “fratelli” Francesi


Fatti correlati alla guerra

Il massacro di Katyn

Foibe - Le responsabilità del Fascismo ?

Foibe - Le bugie sull'Isola di Arbe

Foibe - Gino Paoli : I miei parenti finiti nelle foibe

Foibe - "Foibe marginali" Pisapia paga il libro ai negazionisti 

Foibe - Trecentomila italiani traditi dal PCI - L'Istria e le Foibe, la macchia nera della sinistra 

Foibe - Occhetto: "Fino all'89 non sapevo cosa fossero lefoibe"

Il Pci e la pulizia etnica mancata


Personaggi dell' Epoca

Carlo Fecia di Cossato

Carlo Fecia di Cossato - Ricordo dell'eroe di Franco Malnati

Carlo Fecia di Cossato - Lettera testamento alla Madre

Amedeo Guillet

Lettera della Regina Elena

Lettera della Regina Elena


Estremo tentativo di fermare la follia della Guerra
Il 27 novembre 1939, tre mesi dopo l'invasione tedesca della Polonia e la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna e della Francia alla Germania, la Regina Elena scrisse una lettera alle sei Sovrane dei Paesi europei ancora neutrali: Danimarca, Olanda, Lussemburgo, Belgio, Bulgaria e Jugoslavia.
"Signora e Cara Sorella,
La profonda commozione ispirata dalla visione della immane guerra che si sta svolgendo sui mari, per terra, per l'aria, dovunque grandi Stati e grandi Popoli con tutto il loro coraggio, con tutto il loro genio e con tutte le loro ricchezze, dibattono senza tregua e senza pietà interessi e sentimenti in contrasto, mi spinge a rivolgervi un cordiale invito:

La guerra che infiamma tanti eroismi a distruggere vite, lavoro, fede nel domani, cioè i presidi stessi della civiltà, minaccia di dilagare nello spazio e nel tempo, e di inasprire i suoi terribili rigori ogni giorno peggio, così da scuotere la base stessa della comunione delle genti.
Altissime autorità hanno già rivolto ai belligeranti in nome di Dio ed in nome di uno, ovvero di un altro popolo neutrale, voti di pace che non furono accolti.
Questi precedenti potrebbero inaridire le speranze e togliere coraggio a nuove iniziative. Ma non impediscono ai cuori innumerevoli delle donne di ogni regione del mondo, di elevare ai Capi degli Stati belligeranti l'invocazione sorta dal proprio orrore, dalla propria pietà e dalla propria saggezza, perché si fermino a considerare non solo le proprie ragioni, ma quelle altresì del sentimento umano . Esso implora tregua a tanta strage di vite, ed a tanta distruzione di beni, a tanto turbamento di animi, e a tanta interruzione di industrie, di arti, di studi civili; implora la cessazione della guerra, non ai soli belligeranti aspro flagello, ma a tutti, senza distinzione, causa di sacrifici immani.
Io mi rivolgo perciò a Vostra Maestà, a Sua Maestà la Regina Elisabetta del Belgio, a Sua Maestà la Regina di Jugoslavia, a Sua Maestà la Regina Giovanna di Bulgaria, a Sua Maestà la Regina Alessandra di Danimarca, a Sua Maestà la Regina Guglielmina dei Paesi Bassi ed a Sua Maestà la Granduchessa Carlotta di Lussemburgo, e le prego di volere accogliere con me quelle invocazioni di madri, di sorelle, di spose, di figlie; di conferire alle medesime invocazioni prestigio, vigore, diffusione, efficacia, unendo gli animi nostri e le nostre voci al fine di ottenere che le ostilità siano sospese e che gli sforzi siano uniti affinché si raggiungano accordi e pace duratura.
Nessuno può dubitare della devozione con la quale ciascuna di noi sarebbe pronta al sacrificio di sé e dei suoi stessi figli per la propria Patria.
Questo stesso comune sentire ci induce a comprendere di quali ansie vivano oggi milioni di madri, anelanti esse pure ai giusti riconoscimenti dei diritti dei loro Paesi, ma altresì alla salvezza dei figli mercé una pace definitiva e saggia.
A questo invito ed alla speranza di unire gli sforzi nostri pacificatori, mi incoraggia l'esempio di due Principesse di Savoia: Margherita d'Austria vedova di Filiberto II Duca di Savoia, che fu dal suo Padre nominata Governatrice dei Paesi Bassi, e Luisa di Angoulème moglie di Carlo di Valois, nata principessa di Savoia e madre di Francesco I Re di Francia.
Queste due Principesse, spinte irresistibilmente ad arrestare le ininterrotte effusioni di sangue prodotte dalle guerre fra imperiali e francesi, negoziarono nel 1529 quel trattato di Cambrai che, in loro onore , fu chiamato la "Paix des Dames".
Possa anche a noi essere consentito di persuadere gli uomini ad ammettere che la guerra sia troncata, e che adeguati metodi per risolverla, con onore di tutti, siano equamente cercati dalle parti.”

No alla guerra di Vittorio Emanuele III

No alla guerra di VE III

1940, quando il Re progettò il golpe contro Mussolini
Due mesi prima dell'ingresso dell'Italia nella Seconda guerra mondiale, Vittorio Emanuele III progettò davvero un 'golpe' per destituire Benito Mussolini e sostituirlo con il genero Galeazzo Ciano. Il tentativo fu messo a punto nei primi giorni del marzo 1940 e prevedeva che il passaggio di poteri avvenisse ''in maniera morbida'', attraverso una soluzione ''legalitaria'', accettabile anche da parte del dittatore fascista. Vittorio Emanuele cercò di convincere Ciano, allora ministro degli Esteri, grazie ai buoni uffici del conte Pietro Acquarone, ministro della Real Casa. La destituzione del Duce doveva avvenire durante una convocazione urgente del Gran Consiglio del Fascismo, che mettesse Mussolini in minoranza. Sul tentativo del re tramite Acquarone di giungere alla sostituzione di Mussolini è possibile leggere ora un documento inedito: si tratta delle confidenze rese negli anni Sessanta da Umberto II al giornalista Luigi Cavicchioli, pubblicate da ''Nuova Storia Contemporanea'', la rivista diretta dallo storico Francesco Perfetti.
Finora gli studiosi non avevano avuto la possibilità di indagare a fondo per mancanza di una esplicita documentazione, anche se alcuni passaggi del ''Diario'' di Ciano sono eloquenti. La testimonianza inedita di Umberto II a Cavicchioli - basata su ricordi diretti dell'allora Principe di Piemonte e sulle confidenze che gli furono fatte dal conte Acquarone - arricchisce il quadro, già tracciato dalla ricerca storica, di particolari importanti e consente di cogliere l'effettiva portata dell'operazione del marzo 1940: una sorta di '25 luglio' promosso da Vittorio Emanuele III tre anni prima di quello che effettivamente portò al crollo del regime e alla eliminazione di Mussolini. Per il suo rigido formalismo - oltre che per valutazioni di natura politica - Vittorio Emanuele III cercava un modo che fosse ''legalitario'' per sbarazzarsi di Mussolini, che non apparisse cioè come un ''colpo di Stato'', che insomma consentisse un passaggio ''morbido'' del potere nelle mani di personaggi come Ciano, ritenuti moderati e legati alla Corona. La confidenza di Umberto II, sottolinea lo storico Francesco Perfetti, rivela il contenuto del colloquio fra Acquarone e Ciano: il suggerimento del Re al ministro degli Esteri era di farsi promotore di una richiesta di convocazione urgente del Gran Consiglio del Fascismo che mettesse in minoranza Mussolini e consentisse al sovrano di intervenire e gestire la situazione in modo indolore e accettabile dallo stesso Mussolini. ''Si trattava di un piano ardito - afferma il professor Perfetti, curatore dell'edizione critica dei resoconti di Cavicchioli - che Ciano non si sentì o non volle avallare e portare fino alle estreme conseguenze. Quando, nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio fu convocato per l'iniziativa di Dino Grandi e degli altri 'congiurati' e Mussolini fu posto in minoranza, la situazione non era più quella del 1940 e non era più pensabile una soluzione come quella auspicata dal re tre anni prima: il trapasso del potere, insomma non era realizzabile utilizzando gli uomini del fascismo moderato e filomonarchico, a cominciare dallo stesso Grandi, e non era possibile evitare una soluzione di continuità con il passato. E ciò, malgrado il fatto che alcuni esponenti di quel fascismo moderato si illudessero''.
(Giornale di Calabria, ottobre 2002)

La Domenica del Corriere del 7 Agosto 1966, nel ventennale della repubblica, riferisce che Vittorio Emanuele III incaricò il Ministro Acquarone di sondare le opinioni dei gerarchi sull'eventualità di una guerra a fianco di Hitler. Ne risultò che i membri del Gran consiglio, dovendo votare a quel proposito, si sarebbero espressi in maggioranza contro il Duce e a favore della neutralità. Ciò alla fine del '39, inizi del '40.
"Nelle intenzioni del Re, una volta accertata la presenza di una tale maggioranza, Galeazzo Ciano avrebbe dovuto sollecitare la convocazione del Gran Consiglio, le cui conclusioni, se avverse al Duce, avrebbero determinato l'intervento della Corona". Tanto scrive Domenico De Napoli in La Resistenza Monarchica in Italia, Guida Editori, 1985.

Non se ne fece nulla, perchè Ciano non se la sentì di silurare il Suocero che era all'apogeo della popolarità ed era favorito dalle brillanti vittorie dell’Asse che toglievano credibilità ai fautori della non belligeranza.
Altri disponibili, come fu il caso nel 1943, non ve n'erano.

Nell'opera citata, lo storico De Napoli riferisce come il Re, svanita la possibilità di formare un nuovo governo e data la ferma intenzione di Mussolini d'affiancare i Tedeschi, si trovò nuovamente solo e poté solamente tentare di ritardare l'entrata in guerra facendo leva sulla nostra impreparazione. Nessuno lo aiutò. O meglio, ottenendo l'effetto contrario a quello voluto, lo fece maldestramente il Maresciallo Caviglia, proponendo di tutelare la neutralità stanziando almeno dieci divisioni corazzate nella Pianura Padana, oltre a seimila pezzi d'artiglieria sul Vallo Alpino. Le uniche altre due voci, che si levarono apertamente a sostegno della tesi del Sovrano, furono quelle dell'Ammiraglio Cavagnari e di S.A.R. il Duca Amedeo d'Aosta che disse la sua "maturata convinzione dell'impossibilità e dell'inopportunità di lanciarsi in avventure offesive con i mezzi a disposizione", come si legge da pag. 137 di L'Esercito Italiano alla vigilia della II guerra mondiale, Ufficio Storico dello S.M. dell'Esercito.

Così stando le cose al Re non restò altro da fare che adeguarsi.
E lo stesso Sovrano che scrive : "Mussolini ha deciso - …in un pro-memoria consegnato al Principe Umberto - Nessuno lo può fermare. E' questione di giorni. L'Italia va verso la disfatta: magari sbagliassi.Il Re deve prendere una decisione.(...)

Prima possibilità:
dire no alla guerra, destituire Mussolini, che se infischia, rimane al suo posto e destituisce il Re.
Il Re lancia un appello all'Esercito fedele. E' la guerra civile: al Duce non mancano, in questo momento che la guerra va bene per Hitler, sostenitori pronti a tutto.
Mentre il Paese è dilaniato dalla guerra fratricida, arriva l'alleato tedesco a dare man forte a Mussolini: a occupare militarmente l'Italia.

Seconda possibilità:
Il Re non firma la dichiarazione di guerra che Mussolini gli sottopone, ma non vuole provocare la guerra civile
Abdica e scioglie l'Esercito dal Giuramento
Va in esilio, in un luogo ameno: aria buona, bel paesaggio, tempo libero per pescare.
Intanto , mentre il Re pesca, Mussolini e Hitler fanno la guerra. La perdono.
Gli eserciti alleati arrivano in Italia da conquistatori: dietro viene il Re, con una bella cera... riprende il Trono che gli spetta
gli Italiani che hanno combattuto la guerra di Mussolini, perchè non potevano rifiutarsi e andare a pescare, si sentono in colpa, sconfitti, ed hanno molta venerazione per il Re che ha preferito andare in esilio, piuttosto che fare la guerra di Mussolini.
Ma il Re merita tutto quel rispetto?

Terza possibilità:
Viene Mussolini con la dichiarazione di guerra a chiedere la firma del Re. Il Re firma senza dire niente.
Ci sono tanti Italiani che non vogliono la guerra, ma la faranno lo stesso, magari da valorosi, magari lasciandoci la vita.
Il Re decide di stare qui, con gli Italiani, di fare la guerra, come loro, di affrontare i rischi e pagarne il prezzo, come ogni altro Italiano.
Potrebbero anche vincere i Tedeschi: in questo caso Mussolini e Hitler, a vittoria ottenuta, approfitteranno del momento favorevole per dare una pedata al Re...
Se invece, come credo, Mussolini e Hitler, alla fine, perderanno la guerra, allora è probabile che i vincitori e forse anche gli Italiani, tengano responsabile il Re della guerra dichiarata e perduta, come e più di Mussolini: forse lo manderanno via, con Mussolini, sarà proclamata la repubblica.

da : La Domenica del Corriere del 14 Agosto 1966La Resistenza Monarchica in Italia di D. De Napoli, S. Bolognini, A. Ratti, 1985, Guida Editori Napoli

La rivolta di Milano del 6 febbraio 1853

La rivolta di Milano del 6 febbraio 1853

Questo avvenimento all'epoca ebbe vasta risonanza presso l'opinione pubblica moderata borghese che vide in esso la necessità che il processo unitario si compisse quanto prima mettendo ai margini sia il movimento mazziniano sia quei movimenti d'ispirazione socialista che avevano già dato prova di sé nelle Cinque Giornate di Milato del 1848 e che ora sembravano volersi riproporre in Italia ad opera della classe operaia.
La rivolta scoppia domenica 6 febbraio 1853, alle ore 16,45.

Il giorno fu scelto, dal Comitato Rivoluzionario organizzatore (Piolti, capo civile; Brizi, capo militare; Fronti, logistica; Vigorelli, cassiere), perché era l’ultima domenica di carnevale e gli insorti contavano, di conseguenza, che i soldati austriaci in libera uscita si spargessero per le osterie.

Armati soltanto di coltelli e pugnali, dato che la mancata collaborazione del comitato militare di Genova (del partito mazziniano stesso !) e degli esuli repubblicani in Svizzera, non avevano permesso di far loro arrivare i fucili, un migliaio circa di artigiani e di operai, sul fare della sera, danno audacemente l’assalto alle caserme, ai posti di guardia austriaci, ad ufficiali di passaggio e posti di polizia, confidando anche sulla promessa diserzione delle truppe ungheresi (che non ci fu). Mancò anche l’intervento concordato dal Brizi con un ingegnere del municipio, che aveva ai suoi ordini un centinaio di operai per la manutenzione delle vie, che avrebbero dovuto intervenire – al momento opportuno – coi loro attrezzi a dar man forte nel costruire barricate, dove si era deciso di costruirle, e per tagliare le tubazioni del gas e lasciare la città al buio.

Le barricate furono erette al Cordusio (Gaetano Vigorelli, Luigi e Giuseppe Baglia, Leopoldo Negri, ecc.), a Porta Tosa (ora dal Verziere al corso di Porta Vittoria), Piazza del Verzaro (ora di S.Stefano), Via della Signora, Via dell’Ospedale, Porta Ticinese, Porta Vicentina, al principio della Corsia (via Torino). L’azione più incisiva e prolungata fu quella di Porta Tosa (Giuseppe Varisco, il pettinaio Saporiti, il Ferri, il pettinaio Carlo Galli, Biffi, Colla, l’ortolano Crespi, il calzolaio Galimberti, e altri).

Viene poi presa d’assalto la Gran Guardia al Palazzo Reale: al comando del Ferri, si battono i fratelli Piazza (Camillo e Luigi), Giuseppe Moiraghi, Modesto Diotti, Antonio Cavallotti, Alessandro Silva, Pietro Varisco, Luigi Brigatti, Giuseppe Forlivesi, Antonio Marozzi, e altri. I rivoltosi si impossessano, ma solo per poco tempo, delle armi (fucili). Gli scontri proseguono in via Rastrelli, Larga, del Pesce (oggi Paolo da Cannobbio), piazza Borromeo, San Bernardino delle Monache, Palazzo Litta, contrada della Lupa.

Gli scontri più violenti avvengono in Corso di Porta Romana (un soldato ucciso); al Carrobbio (il cappellaio Opizzi, lo scalpellino Rivolta, ecc.: un insorto ci rimise il braccio, troncato di netto); nel borgo di Porta Ticinese, vicino al Ponte sul Naviglio; Corso di Porta Vercellina, presso Palazzo Litta (l’acquavitaio Antonio Cavallotti guida l’azione, ma viene arrestato); da via San Vincenzino sino all’arco di San Giovanni Sul Muro (Francesco Segalini, già combattente del ‘48, appoggiato da due dei suoi figli, fu ferito gravemente e morirà il 2 marzo di dissanguamento per essersi strappato le fasciature, onde schivare la forca); nella stessa Piazza Duomo e in Mercanti; Piazza Fontana, contrada dei Borromei; Via Orefici.

Negli scontri, tra gli insorti rimasero uccisi (oltre al Segalini), Giuseppe Conti e Moiraghi. Tra i soldati austriaci si contarono 10 morti e 47 feriti. Viene assalito, senza successo, il Circondario di Polizia in Piazza Mercanti. Ma gli attacchi non sono coordinati, le energie vengono disperse in mille rivoli. Manca una direzione unitaria, centralizzata, risultando così inefficaci.

Si contava, in origine, sull’apporto di almeno 5.000 insorti. Ma i mazziniani borghesi rimangono chiusi nelle loro case, e il restante ceto popolare, pur appoggiando in tutti i modi la rivolta (incitando i combattenti, aiutandoli nelle barricate, gettando oggetti dalle finestre sui soldati, esultando quando venivano feriti, ecc.), non si lascia trascinare in massa dal moto.

Reparti austriaci prontamente accorsi da fuori Milano riescono perciò subito a circoscrivere la rivolta e a spegnerla prima dell’alba del giorno successivo. Seguono 420 arresti (in tutto saranno 895), sei impiccagioni e una fucilazione immediate. Il 10 altri quattro furono impiccati; il 14 due e il 17 gli ultimi tre. In totale 16 giustiziati (1).

Il piano originario prevedeva, profittando di un ballo cui doveva partecipare tutta l’alta ufficialità austriaca il 31 gennaio a palazzo Marino, di avvelenarli tutti e di sbarazzarsene in una sola volta. La guarnigione di Milano sarebbe stata facilmente in balìa degli eventi e la rivolta vittoriosa. Ma il piano fu lasciato cadere. Qualcuno aveva proposto anche di assassinare tre personaggi dell’aristocrazia milanese, particolarmente ligi all’imperatore austriaco, ma non se ne fece nulla. L’Orsini, nelle sue Memorie, disse che si mancò “alla prima legge della cospirazione, la quale vuole, che dove mancano armi, dove sono proibiti i bastoni, egli è lecito ricorrere ad ogni mezzo che valga a distruggere il nemico”.

Vediamo come prese posizione Marx, attento osservatore dei fatti italiani. In un articolo, apparso l’ 8.3.1853 sul New York Daily Tribune, dal titolo “I moti a Milano”, scrive:

“L’insurrezione di Milano è significativa in quanto è un sintomo della crisi rivoluzionaria che incombe su tutto il continente europeo. Ed è ammirevole in quanto atto eroico di un pugno di proletari che, armati di soli coltelli, hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di 40.000 soldati tra i migliori d’Europa ...”

“Ma come gran finale dell’eterna cospirazione di Mazzini, dei suoi roboanti proclami e delle sue tirate contro il popolo francese, è un risultato molto meschino. E’ da supporre che d’ora in avanti si ponga fine alle revolutions improvisées, come le chiamano i francesi ... In politica avviene come in poesia. Le rivoluzioni non sono mai fatte su ordinazione ...”


Bibliografia :

- Bontempelli, Bruni: Storia e coscienza storica. Vol.3.
- L.Pollini: La rivolta di Milano del 6 febbraio 1853. Ceschina, Milano 1953, pp.337.
- K.Marx: L’insurrezione italiana, 11.2.1853, New York Daily Tribune.
- K.Marx: I moti a Milano, 8.3.1853, ibidem.
- F.Engels-K.Marx, Lettera 11.2.1853.


Note

(1) I giustiziati :
- Antonio Cavallotti (anni 31, falegname di pianoforti, celibe);
- Cesare Faccioli (anni 42, garzone di caffè, celibe);
- Pietro Canevari (anni 23, facchino, celibe);
- Luigi Piazza (anni 29, falegname, celibe);
- Camillo Piazza (suo fratello, anni 26, stampatore di caratteri, celibe);
- Alessandro Silva (anni 32, cappellaio, coniugato);
- Bonaventura Broggini (anni 57, garzone di macellaio, celibe).
- Luigi Brigatti (anni 26, liquorista);
- Alessandro Scannini (anni 56, maestro ginnasiale privato);
- Benedetto Biotti (anni 40, garzone falegname);
- Giuseppe Monti (anni 36, garzone falegname).
- Gaetano o Girolamo Saporiti (anni 26, lavorante in pettini);
- Siro Taddei (anni 27, lattaio).
- Angelo Galimberti (calzolaio);
- Angelo Bissi (facchino);
- Pietro Colla (fabbro).


Degli arrestati e processati, 20 furono condannati alla pena di morte per impiccagione (poi commutata dall’Imperatore d’Austria in 20 anni di carcere); 44 da 20 anni “di fortezza ai ferri” o ai “lavori forzati con ferri pesanti” a 10 anni “con ferri leggeri” (alcune commutate fino a 2 anni). Prosciolti: 185. Seguirono altri processi e altre condanne.

Enrico Besana

Enrico Besana
(1813 – 1877)

Enrico Besana nacque a Milano il 12 settembre 1813 da Felice Maria Besana e Giulia Ciani.
Iscritto alla Giovine Italia, frequentò i corsi di medicina a Pavia, dove svolse un'attiva propaganda patriottica fra gli studenti. Laureatosi nel 1840, dopo aver avuto qualche problema con la polizia austriaca per aver capeggiato una rivolta studentesca nel 1839, viaggiò a lungo in Europa.
Rientrato a Milano, fu presto costretto a rifugiarsi a Lugano presso gli zii Ciani per aver ferito in duello un ufficiale austriaco; salvo brevi intervalli rimase a Lugano fino al 1848, quando rientrò in Italia per prendere parte alle 5 giornate milanesi, dove combatté sulle barricate e divenne capitano della Guardia civica.
Si arruolò in seguito nell’Armata Sarda come volontario, distinguendosi in particolare nella battaglia di Sommacampagna. Nuovamente volontario nel 1849 nell'esercito piemontese, combatté alla Bicocca e dopo la sconfitta di Novara tornò a Lugano, compiendo tuttavia frequenti viaggi.
Alla vigilia del 6 febbraio 1853, dopo il fallimento della missione di G. Piolti de' Bianchi, fu inviato da un gruppo di patrioti moderati a Lugano con Visconti Venosta per persuadere Mazzini a rinunciare al moto di Milano (la rivolta del 1853 appunto), ma non riuscì a varcare il confine.
Fallita la sollevazione, dopo un breve soggiorno a Lugano, accorse nuovamente a Milano per prestare il suo soccorso in occasione dell'epidemia di colera del 1854.
Frequentatore dei più noti salotti liberali milanesi Besana proseguì la propria attività patriottica nel 1859 come volontario nei Cacciatori delle Alpi agli ordini del Generale Garibaldi nelle azioni militari di Varese e S. Fermo e fu in seguito incaricato dallo stesso Garibaldi di dirigere ed amministrare, insieme a Giuseppe Finzi, la raccolta dei fondi per il "Milione di fucili". In merito a tale incarico, essi pubblicarono a Milano nel 1861 un resoconto che suscitò numerose discussioni.
Eletto deputato il 10 maggio 1860 per la VII legislatura nel collegio di Cassano d'Adda, si schierò con i moderati ma non intervenne assiduamente alla Camera.
Nel 1866 partecipò nuovamente come garibaldino alla guerra contro l'Austria.
Besana è conosciuto, oltre che per l'attività rivoluzionaria, anche per i viaggi compiuti intorno al mondo, dei quali inviò interessanti relazioni ad alcuni giornali italiani, tra cui "Il giro del mondo", "L'esploratore", "La perseveranza", "Il corriere di Milano". Tra i suoi viaggi si ricordano quello in India nel 1857, il giro del mondo intrapreso nel 1868 toccando Suez, Ceylon, Cina, Giappone e Stati Uniti, nonché il viaggio nelle Americhe tra il 1869 e il 1870, da cui partì per accorrere a Parigi, assediata dai prussiani. Nel 1872 compì un secondo giro del mondo attraversando gli Stati Uniti, Honolulu, la Nuova Zelanda, l'Australia e l'India, mentre nel 1876 visitò l'Islanda. Morì poco dopo a Genova, il 30 gennaio 1877.

Massimo d'Azeglio

Massimo d’Azeglio
(1798 - 1866)

“Certo che in un secolo positivo come il nostro ed in un paese particolarmente positivo come il Piemonte, due figure come quelle di Carlo Alberto e di Massimo d’Azeglio, eminentemente poetiche, escono dal quadro e sembrano un anacronismo”.
Così si esprimeva nel suo diario politico la Contessa Margherita Provana di Collegno, a tre anni dalla morte di Re Carlo Alberto.
Si può infatti affermare che Carlo Alberto e Massimo d’Azeglio fossero gli ultimi esponenti di un romanticismo politico che con tutti i suoi errori ebbe una virtù, una forza, la fede che poté talvolta illuderli, ma che li aveva animati ad operare positivamente e preparare l’avvenire della Monarchia e dell’Italia, come afferma un grande storico del calibro di Nicolò Rodolico, autore della più ampia biografia di Carlo Alberto.
Massimo d’Azeglio e Carlo Alberto erano coetanei, essendo nati entrambi in un anno turbolento quale il 1798, il primo il 24 ottobre ed il secondo il 2 ottobre, ambedue a Torino, piemontesi ed il Piemontese era, secondo una definizione del d’Azeglio, “duro a se stesso, sopporta ogni malanno, non teme la vita travagliata, né il pericolo, quando è pel suo paese, la sua Casa di Savoia, il suo onore”.
Esponente di una nobile famiglia, ultimo di otto figli dell’austero e cattolicissimo Marchese Cesare d’Azeglio e di Cristina Morozzo di Bianzé, Massimo ereditò dai genitori la fermezza del carattere e l’intransigenza nei principi. Costretto, con la sua famiglia all’esilio a Firenze, durante l’occupazione francese del Piemonte, dal 1800 al 1807, ritornò in patria con la restaurazione, intraprese la carriera militare nel Piemonte Reale Cavalleria che lasciò nel marzo 1819 per recarsi a Roma e dedicarsi alla sua passione: la pittura di paesaggio istoriato, allora molto in voga. Si trasferì a Milano, dopo la morte del padre, nel 1830, e sposò l’anno dopo la figlia primogenita di Alessandro Manzoni, Giulia, dalla quale ebbe una figlia, Alessandrina.
In quegli anni frequentò letterati ed artisti ed affiancò alla sua già celebre attività di pittore, quella di letterato e romanziere ottenendo un grande successo di pubblico e presso la critica.
Lasciate poi la penna ed il pennello iniziò ad occuparsi di politica perché come scrisse egli stesso nei “Ricordi”: “mi sentivo il bisogno di una grande occupazione d’intelletto e di cuore” ed aggiunse: “ci pensò la Provvidenza a trovarmela, e fu tale che mi ha dato da fare più che non immaginavo”. Massimo d’Azeglio, insieme al fratello Roberto ed a Cesare Balbo apparteneva a quella nobiltà piemontese moderata e liberale che era contraria ai moti sanguinari ed alle sporadiche rivolte locali, era l’uomo delle riforme graduali, vicino a Carlo Alberto dopo il 1830-31 come molti altri esponenti dell’aristocrazia piemontese e prospettava l’opportunità di un accordo di tutte le forze liberali della penisola con il Piemonte sotto l’egida di Re Carlo Alberto e con il ricorso a metodi legali. Antisettario ed antirivoluzionario, il d’Azeglio si recò nelle Romagne in un momento in cui il rivoluzionarismo era in crisi e cercò di convincere i rivoluzionari romagnoli che non era più il tempo delle congiure e delle rivolte ma che occorreva avere fede in Carlo Alberto, il solo tra i Principi italiani che avesse ambizione, volontà e forza per scacciar lo straniero dal suolo italiano.
Al suo ritorno dal viaggio nelle Romagne, nell’ottobre del 45, Massimo d’Azeglio si decise a chiedere un’udienza a Re Carlo Alberto.
Gli aveva già parlato una prima volta il 25 gennaio 1829 ed in quell’occasione Carlo Alberto gli aveva detto: “vous savez que nous sommes vieux amis!”. Ma quei tempi erano lontani e la situazione politica era profondamente mutata. Era la prima volta che un Italiano si recava da un Re in nome di un popolo ed in nome di rivoluzionari che disperavano delle rivoluzioni. Dopo avere ampiamente esposto la situazione politica in Romagna, il d’Azeglio disse al Sovrano che era necessario ed urgente cercare dei rimedi ad evitare rivoluzioni, eccidi ed intervento straniero ed attese trepidante la risposta del Re.
Carlo Alberto, in piedi di fronte a lui, pallido ma franco e con un sorriso che ne rischiarava un poco il volto severo, fissandolo negli occhi, risoluto e tranquillo rispose con quelle storiche parole:
“Faccia sapere a quei signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che siano certi, che, presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana”.
Fu lo stesso Massimo d’Azeglio a narrare questo episodio nell’ultimo capitolo dei “Ricordi” di cui costituisce una delle pagine più belle e più note. Questo fu davvero il prologo del Risorgimento italiano!
Come scrisse poi il d’Azeglio: “Chi mi avesse detto che quella grande occasione così lontana d’ogni previsione nel ’45 e che ambedue dovevamo disperare di vedere mai, era da Dio stabilita tre anni dopo? E che in quella guerra, tanto impossibile secondo le apparenze d’allora, egli doveva perdervi la corona e poi la patria e poi la vita…” Con lo scoppio della Prima Guerra d’Indipendenza, coerente alla propria fede, Massimo d’Azeglio partì per il campo di battaglia come aiutante del generale Giovanni Durando, comandante delle truppe regolari pontificie ed il 10 giugno 1848 venne gravemente ferito a Monte Berico nella difesa di Vicenza. Ritornato a Torino rifiutò il 10 dicembre l’offerta della presidenza del consiglio, lasciando il posto al Gioberti, ma dopo l’abdicazione di Re Carlo Alberto ed il fallimento dell’esperimento del De Launay si decise ad accettare la proposta del nuovo Re Vittorio Emanuele II il 7 maggio 1849.
“Porsi al timone quando la nave è sdrucita dalle percosse della tempesta e fa segno di affondare, non è impresa da tutti, e richiedeva, ad assumerla, il grande animo del d’Azeglio” scrisse pittorescamente il Camerini. Conclusa in mezzo ad ogni difficoltà la pace con l’Austria il 6 agosto 1849 che vedeva ridotta l’indennità da 230 a 70 milioni e salvato lo Statuto Albertino, integro il territorio
del Piemonte, salvo l’onore del paese per le questioni dei fuorusciti e l’amnistia a causa dell’opposizione della Sinistra si dovette operare lo scioglimento della Camera con il secondo Proclama di Moncalieri, del 20 novembre 1949, un gesto audace, voluto dal d’Azeglio che fu l’artefice del proclama, che consentì di salvare gli ordinamenti costituzionali contro ogni possibile pericolo di
reazione e fece trionfare la fede nei principi statutari e nelle istituzioni liberali in un momento d’estrema difficoltà.
Il Proclama di Moncalieri fu un atto che impegnava la Monarchia, facendo intervenire direttamente la Corona nel dibattito, una atto di audacia fortunato che risuonò con energia insolita nell’appello al
popolo e che rivelò la mano ferma del d’Azeglio, fautore dello Stato forte ma nell’ambito della legge. Fu lo stesso d’Azeglio in una lettera alla moglie a rivendicare a sé la paternità del Proclama di
Moncalieri che fu un capolavoro di saggezza politica. Con l’intervento personale il Re si appellò direttamente al suo popolo, assumendo la sua responsabilità ed alla fine vinse, salvando l’integrità dello Statuto. Nel Proclama di Moncalieri Re Vittorio Emanuele II così si rivolse ai
suoi sudditi :
“Per la dissoluzione della Camera dei Deputati, le libertà del paese non corrono rischio veruno. Esse sono tutelate dalla venerata memoria di Re Carlo Alberto mio padre, sono affidate all’onore di Casa Savoia, sono protette dalla religione de’ miei giuramenti; chi oserebbe temere per loro?…Giammai fin qui la Casa di Savoia non ricorse invano alla fede, al senno all’amore de’ suoi popoli”.
Durante il governo del d’Azeglio il Piemonte si rafforzò nell’esercito, migliorò le proprie strutture interne e le condizioni economiche, uscì dall’isolamento diplomatico mirando a persuadere i Governi di Francia, Inghilterra e Belgio che il Piemonte era l’avamposto dell’Occidente liberale. Con le leggi Siccardi del 1850 si imposero le basi per più moderni rapporti fra lo Stato e la Chiesa.
D’Azeglio ebbe nel suo Governo la collaborazione di eminenti ministri come Alfonso La Marmora alla Guerra e di Camillo Cavour al ministero dell’agricoltura prima ed alle finanze poi.
Il compito ed il merito del d’Azeglio fu quello di avere raccolto sul campo di una sconfitta il Piemonte e di averlo poi consegnato risanato e rafforzato al suo successore : il Conte di Cavour.
Uscito alla scena politica, Massimo d’Azeglio ritornò al pennello ed alla penna. Ritornò alla politica per compiere una missione a Roma nel marzo del 1859, per sondare gli spiriti e sconsigliare moti insurrezionali, e per successive missioni a Parigi ed a Londra, svolse il ruolo di Commissario straordinario in Romagna e poi, nel gennaio del 1860 come Governatore di Milano. Dal 1855 era stato anche direttore della Pinacoteca Reale e negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla stesura della sua opera letteraria più famosa : “I miei ricordi” che rimase incompiuta per la morte sopravvenuta a Torino il 15 gennaio 1866.